Quello che resta

Ci passo spesso

due volte al giorno

la porta è chiusa

nessuno intorno

 

Ma se rallenti

se guardi bene

le vedi ancora

le stanze piene

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Ci passo spesso

due volte al giorno

la porta è chiusa

nessuno intorno

 

Ma se rallenti

se guardi bene

le vedi ancora

le stanze piene

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Solo un chicco di caffè

Dormono le case
Dorme la città
Solo un orologio suona e fa tic tac;
Anche la formica si riposa ormai,
Ma tu sei la mamma e non dormi mai

C’è una ninna nanna che, con un ritmo lento e una melodia dolcissima, racconta di una mamma che non dorme mai, per la quale le scodelle del re sono quasi sempre vuote e la sola cosa rimasta è un chicco di caffè. La cantava una bimba allo Zecchino d’Oro e, nella mia fantasia, me la sono immaginata scritta davvero da una mamma esausta, che la mattina si alza, dopo una notte, l’ennesima, passata in bianco, e nel barattolo trova solo un chicco sparuto di caffè.

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La ripetizione

Quest’estate, ho trascorso molti pomeriggi a svuotare un secchiello pieno d’acqua su uno scoglio. Io lo riempivo, lo passavo ad André, 20 mesi, lui ne riversava il contenuto sulla roccia, ci facevamo una bella risata e ricominciavamo. Ogni mattina, ripetiamo gli stessi giochi. Émile, cinque anni quasi e mezzo, ama guardare il suo cartone preferito a ripetizione, la sera leggiamo lo stesso libro per mesi.

È noto ormai che la routine faccia bene ai bambini. Che la ripetizione di gesti, giochi, frasi, esperienze, ritmi, rassicuri e conforti, ed è la base sicura dalla quale prendere il volo per affrontare quella straordinaria avventura che si chiama crescita, le prime volte, la scoperta del mondo.

C’è un’altra fascia d’età, che ama ripetere ed è confortata dai gesti sempre uguali e dai ritmi che non riservano mai sorprese, ed è quella degli anziani. Durante i primi mesi di pandemia, in seguito alle tragiche notizie di quanto avveniva nelle case di riposo, ho letto numerosi articoli sulle case di cura e le loro abitudini. In particolare, un’inchiesta del The Economist, tradotta da Internazionale, che raccontava del Green House Project, dove vige una sorta di abolizionismo delle case di riposo.

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In viaggio con Giovanna

Ricordo con fortissima intensità, e anche un pizzico di nostalgia, quel momento in cui le poche certezze dell’esistenza hanno vacillato. Avevo perso completamente il centro, andato in frantumi, un giorno freddo di gennaio, lontanissimo da casa, qualsiasi cosa volesse dire allora questa parola. Non me ne rendevo certamente conto all’epoca, ma avevo il mondo nelle mie mani e, non avendo più nulla da perdere, avrei potuto prendere qualsiasi strada e diventare qualsiasi cosa.

Lasciai Parigi alla velocità della luce e trovai riparo in quel di Padova, che divenne per pochi mesi la mia base, prima di trasferirmi a Milano. Di quel periodo, ho impresso tutto sulla pelle, anche i dettagli minuscoli, le ombre della mia bicicletta in giro per la città, il teatro la sera, i pomeriggi in libreria, il traghetto per Burano, le passeggiate sotto i portici con la pioggia, i caffè nei bar, il treno per Milano ogni due settimane. E poi una figura, passata nella mia vita come una meteora, che è rimasta nella mia memoria. “Vai da lei, anche solo per parlare un po’”, mi aveva consigliato un amico, al quale confidavo di passare ogni fine settimana in una città del Nord Italia diversa e che sperava di portare un po’ di conforto a quella nevrastenia geografica di cui ero vittima. E io bussai alla porta di Giovanna, in un appartamento poco fuori dal centro di Padova, dove mi recavo in bici al pomeriggio, un giorno di inizio primavera.

Capelli corti, occhi dolcissimi, maglioni morbidi a collo alto, una macchina piena di libri. Giovanna mi ha accolto nella sua macchina con cui perlustravamo la città, usando verso di me la gentilezza, l’autenticità e la verità che solo i perfetti sconosciuti sanno offrire. Ho subito e accolto tante volte il fascino delle persone più grandi, come compagni di strada. Ho avuto amiche donne e prossimità molto intense con persone che spesso avevano venti o trent’anni di più, alle quali mi avvicinavo come ci si avvicina a una sorgente, per sapere sempre di più, vivere, fare esperienze. Col tempo ho imparato che quanto ricevuto aveva un prezzo altissimo, che ha a che fare con parole che si chiamano libertà e crescita. E forse Giovanna è stata la sola a darmi tantissimo, senza chiedere nulla in cambio.

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Una casa bianca in mezzo al blu

Qualche tempo fa, per gioco, un’amica interrogò i tarocchi per me. Uscì l’arcano del sole. Ricordo che vedere quei due bambini biondi sulla carta, nonostante ancora non ci fossero nella mia vita, mi emozionò molto. Chi mi conosce bene, ovvero almeno da una ventina d’anni, sa che da sempre ho desiderato dei bambini, sin dai tempi del liceo, anche prima. Volevo viaggiare e avere figli, lavorare ed essere una mamma presente, inseguire le mie ambizioni e leggere libri di favole. Volevo tutto, e lo voglio ancora. Ma, dietro i due bambini, nel mazzo originale dei tarocchi di Marsiglia, sull’arcano del sole, c’è anche un muro in costruzione. “Questo è quello che ti manca di più e che otterrai con fatica”, disse la mia amica, “una casa“.

All’epoca, ero reduce dagli ultimi due traslochi, infilati, uno dietro l’altro, in poco più di dodici mesi. Ma la casa ancora non c’era. Abitavamo in un appartamento di fortuna, che stava cadendo a pezzi sulle nostre teste, eravamo insofferenti, increduli e, da lì a poco, la pandemia ci avrebbe chiuso là dentro per un bel po’.

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La mia scuola

In questo strano anno pandemico, dove la casa è diventata rifugio, prigione, raccoglimento, luogo di timori e di pace, di sconvolgimenti e riposo, sono state tantissime le prime volte. Ho messo piede in ambienti, paesi, case, persone, ambiti, mestieri, in cui non m’ero mai cimentata, e tanti di questi primi incontri mi hanno sicuramente aiutata a restare a galla nei mesi in cui la seconda maternità e un’epidemia di quelle che si raccontano solo nelle storie di santi e vergini miracolose mi imponevano di restare tra quattro mura.

Tra queste prime volte, c’è la scuola. Quella con la S maiuscola, quella pubblica, delle circolari e delle indicazioni ministeriali, quella che leggi nei manuali e ti brillano gli occhi, quella che vai a vedere di persona e ti si stringe il cuore. La mia scuola è in un paesino di pochissimi abitanti circondato dalle campagne. Ci si conosce tutti (me esclusa, che sono tra le ultime arrivate). I cognomi sono ricorrenti e ci sono solo tre classi, riempite di fratelli, cugini e amici di famiglia. I bidelli (qui si fanno chiamare ancora così) sono anziani e più che operatori sembrano quasi gli zii o i nonni, che abbottonano i cappotti, sentono la febbre con la mano sulla fronte e aiutano ad andare in bagno.

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In tempi di pace

In tempi di pace, mi occupo di santi patroni, divinità e madonne. Raccolgo e scrivo storie di fede antica, preghiere dimenticate, tradizioni che, al telefono, comitati e sagrestani mi descrivono con banalità, e alle quali io continuo a stupirmi, dopo tanti anni. Rose che piovono dal tetto di una chiesa, l’asta che si consuma sul sagrato per portare un crocifisso sulle spalle, sante che si portano via chi va al mare il giorno della propria festa.

E, soprattutto, epidemie e calamità. Santi patroni che preservano il loro piccolo campanile e inviano, senza scrupoli, pestilenze e terremoti e uragani al paese vicino. Statue barcollanti portate in processione sotto grandine e fulmini. Maremoti che cessano al gesto benevolo di un busto di pietra posto su una colonna. Piaghe guarite, vista ritrovata, voti esauditi.

Mentre facevo l’ultimo giro di telefonate circa due mesi fa, mai avrei pensato di trovarmi a vivere anche io tempi di pandemia. Tempi di contagi inarrestabili, di esistenze che si perdono nella vertigine delle cifre del bollettino quotidiano, di cani senza più padroni, di uomini in tunica bianca che pregano da soli in piazze deserte, di arcobaleni alle finestre e rosari sul terrazzo, di un presidente che spicca nel bianco dell’altare della patria.

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Un giorno

Un giorno troverò una stanza

Virginia ci scrisse un libro intero

la affitto, la compro per davvero,

per farne biblioteca o sala danza.

 

Ci metto tutti i libri e i miei foglietti

la scrivania che non devo sistemare

sempre ingombra anche all’ora di mangiare

senza riporre tutto nei cassetti.

 

Un giorno ci metto pure il letto

a tre piazze e un solo comodino

lo voglio con un solo cassetto

ripieno di ogni tipo di spuntino

 

e se di notte ho fame, sete, dormo poco

accendo una luce grande come il sole

e non questo lumino fioco

fatto apposta per non disturbare.

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Milano – game over

“Allora, com’è Milano?”. Ho perso il conto di tutte le volte che mi è stata rivolta questa domanda nel corso degli ultimi mesi. Per un po’ di tempo, avevo anche pensato di registrarne tutte le intonazioni, da quella più sufficiente a quella più entusiasta, passando per il milanese che non sa cosa dire alla signora preoccupata che “è un po’ un trauma per te che vieni da Lecce”, ed è un trauma anche se le ho ripetuto che ho vissuto altre volte in città che superano il milione di abitanti e ha insistito, nonostante tutto, a volermi spiegare il funzionamento della metropolitana e ad accompagnarmi alla fermata, “non vorrei che ti perdessi tra i tanti corridoi”.

Milano, per me, era qui ancor prima di viverci. Era la stazione centrale almeno cinque volte al mese, quando ho iniziato a seguire il corso a Lotto, a venirci sempre più spesso per vani colloqui di lavoro. Erano i binari lunghissimi prima di arrivare a destinazione, il panorama dal finestrino di un treno, quasi sempre graffiato di pioggia. L’autostrada che ho imparato a memoria con i tanti passaggi in auto. Ritrovare, anche se per poco tempo, il calore di una redazione e quello di una classe. La certezza di poter vivere bene in una città che non fosse Parigi. Una nuova tessera dei trasporti. Qualche nuovo amico e altri che sono riuscita ad incontrare finalmente anche fuori dalla virtualità.

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“Il bello di vivere in una città che non conosci è provare continuamente l’eccitazione dell’esploratore”, ha scritto di recente Cristiano de Majo, su RivistaStudio, parlando proprio di Milano. A questa eccitazione ci si può anche abituare, diventarne dipendenti, ma aiuta anche a preservare dalle lamentele, dal malcontento, dall’insoddisfazione. In questi mesi di stupidità collettiva a Milano, di crociate distruttive contro Expo, di attivismo con spugnetta e detersivo, mi sono sentita leggera come pochi, godendo di quel piacere che Pavese ha descritto meglio di chiunque altro, quello di “sfiorare innumerevoli scene ricche e sapere che ognuna potrebbe esser nostra e passar oltre da gran signore”.

Scene che si compongono una strada dopo l’altra, con la sensazione di mettere insieme i pezzi di una città: il pomeriggio al quartiere Maggiolina, tra le case igloo, le ville residenziali e la ferrovia; una sera al Piccolo Teatro e poi tornare a piedi lungo via dei Mercanti deserta; la scoperta dei vicoli dei Navigli e degli atelier di pittura; seguire la pista della Martesana fino alle porte della città; intrufolarsi nei teatri più piccoli e meno conosciuti; esplorare le viscere di Macao insieme ai ragazzi di Proprietà Pirata; i tarocchi per due dalla zingara di Brera; una panchina di Parco Sempione con i libri di Rumiz e poi il Bar Magenta; un sabato sera da sola a perdermi nell’Hangar Bicocca, sotto i palazzi celesti; il tram numero 9, da Porta Romana a Porta Genova; il bus diretto a Linate con il cuore in gola.

Sentirsi finalmente a casa, realizzare come si legano i viali, imparare le prime scorciatoie, essere in grado di rispondere quando qualcuno chiede indicazioni, come scrive sempre De Majo, “è bellissimo quando inizi a capire che quella strada porta in un posto dove sei già stato arrivandoci da un’altra parte, ed è rassicurante sapere che per un bel pezzo potrai permetterti una certa naiveté, che significa anche che ti lamenterai poco”.

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E poi Milano è stata una nuova casa, il piacere di essere sola, di addormentarmi con la musica, di costruire marionette di carta sul pavimento e lasciarle lì per giorni, di partire, di tornare, senza dover informare nessuno, di esplorare libri sconosciuti trovati nel soggiorno, di rientrare e chiudere il mondo fuori. Vivere quella solitudine che, quando c’è, come diceva De Andrè, aiuta “ad avere contatto con il circostante”, che non è fatto solo dei nostri simili ma comprende anche “tutto l’universo, dalla foglia che spunta di notte in un campo fino alle stelle”.

Mentre scrivo, Milano è deserta. Non arriva nessun rumore dalla finestra aperta di casa, al settimo piano e non è difficile pensarsi già altrove. Immagino lo stesso silenzio, tanti tanti chilometri più a sud, un altro vento, altri domicili, altre stanze, lontane da questo appartamento, che è il posto dove pensavo di aver scacciato definitivamente alcuni fantasmi, che invece s’erano solo nascosti sotto il letto e mi hanno teso un agguato all’improvviso, a pochi giorni dalla fine.

Provo a contrastarli con il solito antidoto: l’attitudine alla partenza, l’arte del bagaglio minimo, un biglietto di sola andata già pronto, “il senso della ferrovia”, l’istinto di sopravvivenza: cambiare decoro, per sfuggire al vero ignoto, quello di una domenica pomeriggio passata a fissare il soffitto di casa. La dimensione domestica, scriveva Magris, cela più insidie di un viaggio avventuroso e la spedizione da una stanza all’altra della propria abitazione non è meno ricca di rischi e pericoli.

Soundtrack: Mino De Santis, Sempre in viaggio

Image: © Witchoria

Andrea s’è perso

Non erano i monti di Trento e non era neanche una mitraglia. Andrea s’era perso, senza una lettera, senza la firma d’oro del re. Forse proprio per questo si era perso Andrea e non sapeva tornare. Nessuno gli aveva detto da che parte andare. Di incertezza si può anche morire.

Il bosco non era solo quello degli occhi di un contadino del regno, era quello fitto che era cresciuto intorno. Erano le finestre oscurate. Era la paura di uscire. Erano le langhe, con la luna sempre piena, la cenere dei falò sempre nell’aria, l’odore di erba bruciata, i tempi in cui bastava una ventata di tigli per sentirsi accesi, la verità sbattuta in faccia da un paesino adagiato sui colli, di quelli dove per sopravvivere non bisogna mai allontanarsi, mai mettere un piede oltre la svolta dello stradone, ché poi si perde la strada e non si ritorna più.

bosco

O forse s’era perso in una stanza vuota, quelle di città, che si affittano per un paio di mesi e poi restano come dei gusci vuoti al momento della partenza, nessun segno, nessun ricordo, o quasi, stanze che non esistono se nessuno le ha viste, disponibili per chiunque, nulla di personale. Quelle dove si finisce quasi per caso, quelle che ci si è immaginati per una vita intera e poi, una volta arrivati, viene da chiedersi se sia tutto lì. Dove non prende neanche bene il telefono e la notte si passa sulla scala del condominio ad aspettare notizie, perché forse il foglio del re arriva prima o poi ad avvisare che qualcuno è morto sulla bandiera.

Andrea se l’era anche chiesto, se ne valeva la pena, di fare tanta strada, “di traversare il mondo per vedere chiunque”, di crederci così tanto, di simulare tanto entusiasmo per poi non saper più distinguere un amore da un altro, per saltare giù dal palco, per prendere l’ennesimo treno, per tornare ancora una volta sulle stesse strade, sentirsi dire le stesse parole. “Valeva la pena esser venuto? Dove potevo ancora andare? Buttarmi dal molo? Ma dove andare? Ero arrivato in capo al mondo, sull’ultima costa, e ne avevo abbastanza”.

Ritornare e trovare amici che si ricordano di cose che aveva fatto, parole che aveva detto, storie che aveva vissuto, aneddoti che una volta era solito raccontare e lui che non si ricorda più niente, perché i filtri sono sbagliati, la memoria al contrario, l’abitudine a fare finta di niente e a eseguire gli ordini, è pur sempre un soldato del regno e non ha nemmeno il profilo francese, e “magari è meglio così, meglio che tutto se ne vada in un falò d’erbe secche e che la gente ricominci”.

Perché io Andrea me lo immagino e forse a volte me lo sogno anche la notte, mentre raccoglieva violette. Sono quelle mattine che mi sveglio e mi ricordo di aver parlato con un secchio, mi avvertiva che il pozzo era profondo. E io ultimamente ho le vertigini, ma le profondità non mi fanno paura. Mi ci butto, non guardo nemmeno cosa c’è dentro. Mi basta che sia più profondo di me.

Soundtrack: Andrea, Fabrizio De Andrè

Image: © Witchoria

Quotes: La luna e i falò, Cesare Pavese