Incendiare il buio

È stato, questo, un anno di nascite. Di chiusure del cerchio. Di epifanie e ritrovamenti. Di voglia di restare in compagnia di quanto si ha e di quanto si ha avuto, di fermarsi a mettere un punto. L’uscita di “Incendiare il buio” per le edizioni indipendenti Collettiva è per me la fine importante di un capitolo. Quella che mi sembra un’era, fatta di letture, di scavo, di studio, di ricerca, di confronto con voci femminili, con testi di donne, teorie femministe, storia italiana, europea e mondiale. Quando ho iniziato a scrivere ero a Parigi, mamma inesperta di un primo bimbo. A mettere la parola fine, sicuramente, è stata un’altra persona. Oggi, queste pagine, che hanno vissuto metamorfosi e trasformazioni, proprio come me, sono pronte per andare per la propria strada e io a imboccarne una nuova.

Qui un estratto.

“Avevano pensato che non sarebbero mai diventate come le loro madri e ora, con più leggerezza, con una forma di disinvoltura incoraggiata dalla lettura di libri quali Il secondo sesso e da slogan come Moulinex libera la donna, ne prendevano il testimone, rifiutando però, a differenza loro, di riconoscere un qualsiasi valore a ciò che tuttavia si sentivano tenute a fare, senza sapere bene perché”. Dopo la nascita del primo figlio, il mondo di Annie Ernaux si restringe, limitandosi alle quattro mura del suo piccolo appartamento arredato con gusto, mentre il marito continua a muoversi nello spazio pubblico.

È la scoperta della trappola, senza via d’uscita possibile.
Se prima lo spazio indefinito della città e il tempo ininterrotto della vita studentesca producevano una sorta di galleggiamento, ora lo spazio domestico e la giornata organizzata secondo i bisogni del bambino assumono una dimensione nuova e opprimente: la casa diventa un giro incessante di compiti, mentre resta un luogo di relax per il marito.

Ragiono su queste differenze di prospettiva, mentre cammino con un passeggino e le buste del Carrefour a Parigi. Mio figlio ha dieci mesi. Non lavoro da un anno e mezzo. La strada, sebbene appesantita dai sacchetti di stoffa pieni di spesa, è il luogo dove tutto è possibile, dove respiro l’odore del mondo, dove incrocio il mio sguardo con quello di esistenze altre, dove l’orizzonte si allarga e camminare da un punto all’altro non è semplicemente muoversi, ma sentirsi parte di qualcosa di grande e meraviglioso. Il cuore corre a Virginia Woolf e alle sue passeggiate notturne nel centro di Londra, dell’urgenza di comprare una matita in quell’ora fatata che è il crepuscolo, d’inverno, nelle strade della città: “the greatest pleasure of town life in winter”. La città come luogo dove spogliarsi del proprio io quotidiano e immergersi nel mondo. Da quanto tempo non esco dopo il tramonto? Non me lo ricordo più.

Vagabonda contemporanea, scrittrice, giornalista, attivista statunitense, Rebecca Solnit ha scritto un libro intero sulla bellezza del perdersi, dello smarrire volontariamente la strada, dell’indispensabile e magnifico spaesamento: “Sono cresciuta con il paesaggio come risorsa, con la possibilità di sfuggire al regno orizzontale delle relazioni sociali attraverso un allineamento verticale con la terra e il cielo, la materia e lo spirito”. Perdere la strada sembrava dare in cambio qualcosa di indefinito, ma di incredibilmente prezioso. In fondo, come continua Solnit, non tutto può essere trasferito, posseduto e fare i conti con il lasciare andare è un’esperienza che la vita ci mette davanti più spesso del previsto.

Se per Sapienza la maternità è un’opportunità persa per sempre, un tema ricorrente nei suoi taccuini, per Ernaux la maternità era stata un richiamo, tramutatosi in un sogno intrappolato. E di questa trappola, chi ne ha la chiave, se non le persone che ci circondano, una società sempre più ostile al materno, dai suoi tempi alle sue rivendicazioni, che finisce per cancellare le madri, incapaci di riconoscerne la loro esistenza? Questa domanda, anche per me, è rimasta ancora senza risposta, come un’ossessione.

Dopo aver sperimentato la complicità dell’amore a due, la libertà, l’avanzamento sociale e professionale, Ernaux si ritrova incarcerata nella sua stessa casa. “Per me non esisteva più un fuori, era la prosecuzione del dentro, con le stesse preoccupazioni, il bambino, il burro e i pacchi di pannolini da comprare sulla via del ritorno. Né curiosità né scoperta, soltanto la necessità. Che fine hanno fatto il colore del cielo, il riflesso del sole sulle facciate dei palazzi?”

La via d’uscita nel matrimonio, una fuga da questo io ingombrante, che girava in tondo, invano, sembra impossibile. La reclusione non è solo fisica, ma si trasforma subdolamente in una prigione mentale. “Sisifo, con il suo masso da spingere all’infinito, almeno ha un certo stile, un uomo su una montagna che si staglia nel cielo; una donna nella cucina di casa sua, che getta il burro in padella trecentosessantacinque giorni l’anno, non è né affascinante né assurda, è la vita, bella mia. E poi cosa, evidentemente sei tu che non ti sai organizzare. Organizzare, questo bel verbo a uso delle donne, le riviste sono piene di consigli al riguardo, risparmiate tempo, fate questo e quest’altro, come pure mia suocera, se fossi in te per fare prima, metodi che servono soltanto ad accollarsi il massimo delle faccende nel minor tempo possibile senza dolore né tristezza, per evitare di infastidire gli altri”.

La scrittura, relegata a passatempo, tra una cottura della pasta e un sonnellino del bimbo. “Leggere per diletto, scrivere poesie durante le ore quiete del riposino pomeridiano. Insomma, la donna moderna, dal forte senso pratico, ma non una massaia, una donna con hobby creativi, prova il disegno, il ricamo, i cuscini patchwork, le parole crociate. Da qualche parte ho letto che Virginia Woolf faceva «anche» le torte, vedi?”.

Stare ferma, eppure avere l’impressione di correre dietro a un’uguaglianza che le sfugge continuamente. La relazione tra due persone diventa una competizione incessante, competizione in cui c’è un solo concorrente: la donna.

“Cibo e merda a getto continuo. In più, l’ossessione per i microbi, le coliche, il minimo malessere. Certo, certo, glorificare l’umile compito, l’«opera eletta che esige molto amore» eccetera, trasfigurare la merda. Cercare tracce di poesia nei rigurgiti di latte, nella biancheria sudicia, chissà. Certe mattinate di sole, in bagno, mentre faccio il bucato e stendo ad asciugare i piccoli body bianchi e azzurri, riesco a sentirla, la possibilità di farmi piacere tutto questo, di dirmi così è la vita, bella mia. Mai. Se cominciassi a farmela piacere, sarei perduta”.

“Incendiare il buio” si trova nelle librerie Mondadori di Parabita, Dante Alighieri di Casarano, La Calandra e Macarìa a Gallipoli, Palmieri a Lecce.

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