In tempi di pace

In tempi di pace, mi occupo di santi patroni, divinità e madonne. Raccolgo e scrivo storie di fede antica, preghiere dimenticate, tradizioni che, al telefono, comitati e sagrestani mi descrivono con banalità, e alle quali io continuo a stupirmi, dopo tanti anni. Rose che piovono dal tetto di una chiesa, l’asta che si consuma sul sagrato per portare un crocifisso sulle spalle, sante che si portano via chi va al mare il giorno della propria festa.

E, soprattutto, epidemie e calamità. Santi patroni che preservano il loro piccolo campanile e inviano, senza scrupoli, pestilenze e terremoti e uragani al paese vicino. Statue barcollanti portate in processione sotto grandine e fulmini. Maremoti che cessano al gesto benevolo di un busto di pietra posto su una colonna. Piaghe guarite, vista ritrovata, voti esauditi.

Mentre facevo l’ultimo giro di telefonate circa due mesi fa, mai avrei pensato di trovarmi a vivere anche io tempi di pandemia. Tempi di contagi inarrestabili, di esistenze che si perdono nella vertigine delle cifre del bollettino quotidiano, di cani senza più padroni, di uomini in tunica bianca che pregano da soli in piazze deserte, di arcobaleni alle finestre e rosari sul terrazzo, di un presidente che spicca nel bianco dell’altare della patria.

Come i cani che sentono la tempesta, avevo subodorato la gravità di quello che stava accadendo anzitempo. Avevo cominciato a soffrire di ansia, a dormire poco, a essere incostante, svogliata e impaurita. Poi, la catastrofe ci è piovuta addosso, con il suo carico di morti invisibili, di curve e numeri indecifrabili, con le giornate stravolte, fin troppo piene, senza un attimo di respiro.

Per un mese non ho messo piede fuori di casa. Non sono voluta scendere nemmeno in giardino. Dopo i primi giorni di terrore, ipocondria e pianto all’ora dell’imbrunire, ho chiuso, letteralmente e metaforicamente, le porte di casa e ho preso questo isolamento mondiale come un movimento di empatia del pianeta. Come se la terra, insieme a me, stesse vivendo una sorta di maternità, un’esistenza sospesa, domestica, di tempi vuoti che non si possono e non si vogliono riempire, di notti in bianco, di contorni sfumati.

Poi, in una sola settimana, mi sono ritrovata, con guanti e mascherina, in ospedale e poi in farmacia, per sbrigare le normali incombenze dei primi mesi di vita di un bambino. E lì, tremante nella sala d’attesa dell’ufficio vaccinazioni, ho capito che la vita sarebbe continuata, in qualche modo. Che mio figlio grande, attualmente inselvatichito e insofferente, sarebbe tornato a giocare con altri bimbi, nel cortile condominiale. Sarebbe tornato a scuola, in un grembiulino che è rimasto appeso all’attaccapanni della classe. Che mio figlio piccolo avrebbe avuto una vita normale, avrebbe ritrovato il calore dei nonni e avrebbe messo i piedi nell’acqua quest’estate.

Ora che lentamente si riaprono le porte, si schiude questa cappa ermetica di paura, torna l’incertezza, un futuro che ha contorni sfumati e dove non solo si può, ma si deve intravedere un nuovo giorno, un avvenire che nulla condivide con il passato. Ritrovare l’altro, sì, ma continuando a tenere il freno, a rallentare la corsa, a camminare a piedi, a misurare il tempo sui bisogni dell’umano e non su quelli del mercato. E intanto, ritagliarsi le ore necessarie per l’immaginazione, per la creazione, per i sogni, indispensabili per tradurre in concretezza idee e visioni per un futuro prossimo tutto da costruire. La curiosità per questi “tempi interessanti” è diventata esigenza di farne parte, di essere protagonista e vettore di un cambiamento. Mi avvicino al futuro ma il presente mi tira per la manica riportandomi seduta, a terra, con le gambe incrociate e un peluche tra le mani, perché ancora non è arrivato il momento.

Leggere, scrivere, in mancanza di quaderni a portata di mano, spesso sono finita a registrare quei progetti in potenza a cui mi piacerebbe dare seguito, sentendomi come davanti a una luminosa ed enorme pagina bianca, dove poter scrivere, buttare giù bozze e utopie. Il mio organismo è debilitato dalla stanchezza, dal continuo rumore, dalla paura che succedesse qualcosa ai miei cari, dall’angoscia. La mia testa ha ripreso a funzionare e s’incendia generosamente per l’incontro con letture gloriose, che si accumulano sul comodino per le riflessioni argute, per lo scambio di vedute con i personaggi, in una folle girandola di voci e di esistenze, di possibilità che restano appese e galleggiano come nuvole o finiscono annotate di fretta nella lista delle cose da fare prima o poi.

E poi precipito, come in una montagna russa, nei ricordi, che si assiepano ai margini degli occhi e diventano così vividi che a volte mi pare di afferrarli con una mano: la corsa di una metropolitana di superficie a New York, l’attesa di qualcosa di grande e sconosciuto che sapevo che prima o poi sarebbe arrivato, le onde leggere del canal Saint-Martin a Parigi, una macchina chiusa dentro a un temporale, l’abbraccio di un estraneo, le mie scarpe che risuonano da sole in una strada di Francia dove l’unico rumore era la neve, i treni regionali, la voglia di avere sempre qualcosa di più e spingersi oltre il limite del consentito, il tratto Milano-Padova con le cuffie nell’orecchio, le mattonelle colorate di casa di mia nonna e quella voglia di portarne un pezzo con me. Il tuffarsi nel mondo là fuori che ho avuto la fortuna di poter vivere, senza aver paura di morire, e che non vedo l’ora di ritrovare.

I miei capelli sono diventati lunghissimi, increspati di bianco. Li sciolgo solo la sera prima di andare a dormire. Li riannodo la mattina, quando mi alzo presto e spio dalle fessure della tapparella la nuova giornata che si fa avanti. La notte e l’alba, che mi riservo e custodisco come un gioiello, come un segreto, perché questo isolamento mi ha fatto una confidenza: che il silenzio è più importante del sonno e che per restare interi, in tempi che di pace non sono, bisogna ricomporre tutti i pezzi, riabbracciare il passato e riuscire a trasformarlo in qualcosa che ancora non esiste.

Soundtrack: Philip Glass, Mad Rush

Images: Erika Morillo

 

Le mie lettere arrivano a cadenza irregolare.  Ti racconto storie, ti confido segreti, condivido idee e intuizioni. Se vuoi iscriverti alla mia newsletter, è per di qua.

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3 pensieri su “In tempi di pace

  1. Ilaria Mo ha detto:

    Cara V.,

    ti ho sempre letta e di tempo ne è passato. Le tue parole per me sono come balsamo e cura insieme. Ti ho immaginata come personaggio di romanzo, ricordo i racconti dei passi silenziosi e la tua vita come fosse una pagina di quaderno, una nuova ogni giorno. Grazie, perché in tempi di dolore e di angoscia, è di queste parole, di questi gesti quotidiani e quieti, di questi progetti della testa che scivolano e vivono oltre la materialità delle pagine, che abbiamo bisogno, per non smettere di pensarci vivi, e partecipi al grande spettacolo del mondo. Ti scrivo presto di là, ti abbraccio, merci. I.

  2. Anna ha detto:

    Leggendo così di getto ……
    Tutti siamo stati presi anzitempo dall’ansia ,dalla paura di non farcela e,tuttora viviamo momenti bui nel dolore ,nell’incertezza ,chiusi nelle nostre coscienze disorientate .Abbiamo perso la libertà ,i nostri sogni nati e sfumati ,ora è il momento di riempire i vuoti ,i silenzi da colmare. E quanto pesano le distanze ,le attese! L’attesa di vedere un sorso di luce in fondo a quel tunnel , l’attesa di riabbracciare i nostri cari ,l’attesa di poter respirare il profumo di una nuova alba .L’attesa frammentata in piccole attese.Il nostro stile di vita trasformato ,a nudo le nostre fragilità …
    Abbiamo bisogno di cambiare abito ,quello che indossiamo ora è troppo stretto ,abbiamo bisogno di riempire le tasche di nuove emozioni ,di recuperare il tempo passato ,scoprire,riconoscere e gestire…….La speranza ci accompagna e,sarà la luce di una nuova alba a risvegliarci,sarà ancora la vita a sorprenderci abbracciati ad un sogno .
    La primavera fuori esplode in silenzio ,presto verrà l’ora di riempire gli spazi ,ora vuoti,
    di voci e di passi .Un salutone a tutti !

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