Confessioni di una hostess

UNA STORIA VERA

Ho iniziato a fare la hostess a Parigi, in un periodo di profonda stasi occupazionale, quando il mio futuro aveva il colore giallo del grembiule del ristorante ebraico dove servivo pizze kasher alle porte della città. Dopo i primi eventi, anzi “missioni”, mi sono ritrovata incredula a chiedermi perché non avessi cominciato prima. In pochi mesi, sono passata da un’agenzia all’altra con una facilità che avrebbe potuto, da sola, sollevare il tasso di mobilità giovanile in Europa. Le hostess più navigate mi presentavano ai loro datori di lavoro, lodando il mio savoir faire. Ho scoperto di saper infilare i badge negli astucci di plastica con uno stile invidiabile. Riempio i moduli alla velocità giusta, non troppo lenta per non far annoiare il cliente, non troppo veloce per non fargli credere di essere liquidato. Ho un sorriso che accoglie, ma non invade. Un modo di fare competente, ma non arrogante. Una lunga carriera si è aperta davanti a me. In poco meno di due mesi, ho infilato quattro convegni, da quello dei surgelati a quello dei nuovi materiali per l’idraulica. Non solo, lavorando dieci giorni ho pagato due mesi d’affitto a Parigi, ma soprattutto ho guadagnato i favori delle persone che contano. “Metto io una buona parola per te”, mi aveva detto una delle hostess, convincendomi ad accettare l’unica raccomandazione della mia vita per un’importante agenzia. 

“Colloquio informale”, avevano scritto sulla mail di convocazione. Colgo l’occasione e mi precipito nel cuore della Parigi borghese, XV arrondissement. Arrivo, vestita di tutto punto, jeans informali, camicetta informale e un tacco discreto, per far capire che sui tacchi, anche se informali, ci so stare. Mi ritrovo in un cenacolo illuminato al neon con una serie di pretendenti in tailleur. Insomma, io e i miei jeans potremmo anche andarcene a casa, visti gli sguardi commiserevoli degli altri. Ma decido di restare. Nel mio curriculum, avevo messo in evidenza la mia esperienza da giornalista culturale, pensando fosse l’asso nella manica per un posto in tutti i musei e le istituzioni della città di Parigi. Aspettavo solo una conferma. “Qui c’è un problema”, mi dice la ragazza delle risorse umane, che avrà avuto più o meno cinque anni in meno di me. “Quale?”, rispondo con garbo. “Lei scrive di essere una giornalista culturale”, contrattacca. “Beh, sì, diciamo che è l’argomento di cui scrivo più spesso”, replico. “Vede, non posso permettermi di assumerla”. Lo sapevo: erano i jeans. “Sa, immagini se io la facessi lavorare in un museo o per una mostra, della quale poi lei scriverà magari nei giornali nazionali”, mi spiega, “c’è un evidente conflitto di interessi, non trova? E poi lei ha già un lavoro, perché vuole fare la hostess?”. Silenzio. Avrei voluto rassicurarla e dirle che le mie recensioni letterarie pagate 20 euro lordi dopo 90 giorni, punta massima delle mie entrate da giornalista, non avrebbero causato alcun conflitto di interessi se avessi avuto la possibilità di distribuire cuffie e audioguide al Musée d’Orsay. E che il mio reportage sulla gentrificazione nei quartieri di Parigi, frutto di ricerche durate due mesi, non retribuito, si sarebbe perfettamente conciliato con l’idea di registrare i biglietti ridotti per scolaresche e over 65. Ma non ce l’ho fatta. Ho mantenuto le sembianze da giornalista culturale di successo e ho abbandonato il colloquio. Ero al centro di una situazione paradossale: il mio lavoro non retribuito da giornalista mi aveva fatto perdere la possibilità di averne uno vero da hostess. 

Appena arrivata a Milano, in ricordo dei successi parigini, in previsione del Salone del Mobile e con il primo affitto da pagare, ho spedito il mio curriculum, con tanto di foto “richiesti un primo piano, un mezzobusto e una a figura intera, specificando bene misure, taglia e numero di scarpe”, a quasi tutte le agenzie della città. Invio l’ultima mail e mi stendo sul divano. Apro un libro ma non riesco a leggere. Il telefono squilla dopo trenta minuti. Poi di nuovo. E un’altra volta ancora. Dopo mesi passati a inviare candidature all’inaccessibile cupola dell’editoria e del giornalismo italiano, nella speranza che qualcuno volesse farmi scrivere anche solo la sua lista della spesa, essere richiamata dopo poco meno di tre ore per almeno cinque lavori come ragazza immagine e promoter mi ha fatto vacillare non poco sulle mie scelte professionali. 

Per la mia prima “missione” da hostess a Milano, sono stata assunta come guardarobiera in una serata di gala per la presentazione di una nuova collezione di orologi di un noto brand italiano. Mi aspettavo, ingenuamente, che ai negletti orologi fosse dedicata almeno una breve introduzione, ma non avevo fatto i conti con l’open bar accessibile dalle 18 e la giovane fauna umana della Milano da Bere che, per l’occasione, si fregiava anche della presenza di Barbara D’Urso. Con la stessa ingenuità, noi hostess tutte abbiamo pensato che almeno avremmo beneficiato di una cena d’eccezione, non appena scorto il nome di Carlo Cracco, chef della serata. 

“Le hostess andranno in pausa per mezz’ora, a turni di due, a cominciare dalle 20”. Queste erano state le consegne. “Per la cena di là, fuori, sotto il gazebo bianco”, ci dicono i due guardiani, due giovincelli di 20 anni, assunti dalla stessa agenzia. Usciamo, guardiamo a sinistra, nulla, guardiamo a destra, nulla, o per lo meno, nulla che assomigli a un risotto con cannella e gamberetti o a un cestello di formaggio con ripieno di verdure di stagione, come scritto da menù. Guardiamo di nuovo a destra. Troviamo la nostra cena. Quella che, da lontano, ci sembrava una colonna di sostegno dell’impalcatura dell’edificio, si rivela una pila di una trentina di pizze d’asporto, che ci aspettavano lì da circa mezz’ora, al freddo. Elaboriamo in fretta un metodo per raggiungere la pizza, “io mantengo una decina di cartoni e tu ne sfili due, ok?” e poi decidiamo di concederci una pausa lunga almeno 40 minuti e all’interno, nascondendoci nei camerini al piano di sopra. Di minuti ce ne bastano 15: ci avventiamo affamate sul primo trancio, il resto è completamente immangiabile. 

Quando, tra le mie amicizie, viene fuori la parola ‘hostess’, le reazioni sono varie. C’è chi è dovuto passare per lo stesso tipo di gavetta e finisce per darmi quasi una pacca sulla spalla e dritte per il mal di piedi da tacco 12. C’è chi mi chiede, sinceramente, cosa faccio e cosa voglia dire. Le reazioni più problematiche sono quelle dei miei amici giornalisti, quelli con cui stupidamente ho sempre sentito il dovere di giustificarmi, di dirlo e poi di aggiungere subito dopo “però solo ogni tanto, quando ho bisogno di soldi, non sempre” oppure di specificare quanti zeri avesse il mio stipendio e che “sarei una stupida a non accettare”. Guardandomi metaforicamente dall’alto di una scrivania, in una redazione, loro sono quelli che, in un modo o nell’altro, mi hanno fatto sempre sentire peggio. 

“La prossima settimana vado a seguire un convegno su Kafka e la problematica della metamorfosi nel teatro contemporaneo, ti potrebbe interessare farne un pezzo, vieni con me?”, di solito, iniziava così. “No, durante quella settimana sono impegnata al Salone del Mobile”, parole che scivolavano così, quasi sottovoce, nella speranza che il dialogo potesse fermarsi lì. “Bene, io non sono riuscita ad avere gli accrediti quest’anno, per chi scriverai?”, era la replica più diffusa. “No, lavoro come hostess”. Qui seguiva di solito una manciata di secondi di silenzio. “Va bene, dai”, sbottavano poi, come se mi accordassero il permesso di farlo, “fa sempre comodo arrotondare un po’”, continuavano, ignari, o forse no, che non si trattava propriamente di arrotondare, ma di raggiungere, anzi, di dare vita, a un salario minimo per vivere autonomamente e dignitosamente a Milano. Dopo un po’, per evitare malintesi, ero io a dirlo all’inizio, “lavoro al Salone del Mobile come hostess”, così tutto d’un fiato. Qualcuno cambiava discorso, pochi mi sorridevano, altri, in privato, mi chiedevano a quali agenzie mi fossi rivolta. Però, i migliori sono sempre stati quelli che non sapevano dire altro che “in fondo, un po’ ti invidio, tu sei libera, puoi fare quello che vuoi, io ho un contratto a tempo indeterminato, sono legato al mio ufficio”. 

E poi la settimana del Salone del Mobile arrivò. Io avevo già comprato le calze nere coprenti e lucidato le scarpe con il tacco, comprate due anni fa a Parigi, e indossate solo in occasioni simili. Prima, ci toccò il famigerato “briefing con il cliente”. Appuntamento domenica pomeriggio, intorno alle 14, all’uscita della metropolitana Rho Fiera, alle porte di Milano, per un incontro informativo della durata di quasi tre ore. Ovviamente non retribuite. I clienti ci spiegano chi sono, cosa fanno e soprattutto cosa dovremo fare noi. E poi ci dividono in gruppi alle varie postazioni, tre alla reception, due al guardaroba, un paio nello stand a “sorvegliare i mobili”. Data l’arbitrarietà della ripartizione dei ruoli, deduco che la scelta di una hostess o di un’altra sia avvenuta in base al colore dei capelli. Io sono nei ranghi delle brune, addetta alla sorveglianza dei mobili, almeno per i primi due giorni. La reception è solitamente monopolio delle bionde, mi riferiscono quelle più esperte.

Dopo due ore passate in un non luogo ancora in costruzione, tra addetti ai lavori, altri nugoli di hostess in lontananza e schiere di creativi, il capo dell’agenzia, una donna sui cinquant’anni, vestita di leggings, scarpe da ginnastica fosforescenti e maglietta larga da ragazzina spigliata, ci raduna tutte, ci urla per l’ennesima volta l’obbligo di arrivare in anticipo e di truccarci bene e ci saluta con un “Ora le hostess fuori dai maroni, ci vediamo martedì!”. Io torno a casa per la prima volta con il passante ferroviario. Avevo voglia di sperimentare un mezzo di trasporto diverso. Forse almeno quel pomeriggio non mi sarebbe sembrato vano, avrei visto i cantieri di Expo all’orizzonte. Forse perché improvvisamente avevo voglia di piangere e, sul passante, da Rho a Garibaldi, la domenica pomeriggio alle 17, non c’è quasi nessuno. 

Il Salone arriva. Il mio compito è fare la guardia a una camera da letto di design. Per sei giorni, devo fissare nell’ordine: un letto matrimoniale, uno specchio, una scrivania in cuoio, una sedia ergonomica, una poltroncina e un paio di complementi d’arredo intagliati in legno in edizione limitata. Non solo. Devo accorrere e sprimacciare i cuscini qualora qualcuno li avesse spiegazzati, rassettare le coperte, rimettere le sedie e le poltrone nella disposizione originale. E sorridere, of course. Il giorno dopo ricevo una promozione. Ora appartiene alla mia area anche il soggiorno, quindi, insieme alle mansioni del giorno prima, devo anche: allineare i vasi sul tavolo di marmo, continuamente spostati da tutti i visitatori, rimettere le sedie sotto il tavolo, assicurarmi che il tavolino girevole sia sempre orientato nella stessa direzione, tirare colpi decisi alle poltrone di pelle per far sparire le pieghe ogni volta che ci si siede qualcuno. Tutto questo in tacchi e vestitino nero. 

Domenica m’imbarco sulla metro rossa, direzione Rho Fiera, con un nodo in gola. Oggi è l’ultimo giorno di apertura al pubblico del salone, minacciano un’invasione di profani. Il cambio di pubblico non tarda a farsi riconoscere, soprattutto quando alle orecchie arrivano domande tipo “ma Le Corbusier è già passato o ancora deve venire?”, oppure “ma voi che fate? ah, mobili pure voi? ma che hanno di speciale i vostri?”. Tuttavia, constato con non poca sorpresa che il pubblico di non addetti ai lavori è molto più gradevole dei tanti “creativi” dei giorni precedenti. Qualcuno si ferma anche a scambiare due chiacchiere, una signora mi chiede addirittura se ho bisogno di andare in bagno e si offre di sostituirmi per una decina di minuti. Ovviamente, in cambio, aumenta spropositatamente il numero di selfie a cui sono costretta ad assistere o a contribuire: selfie con il bracciolo di una poltrona, selfie con un tavolo in marmo, selfie con il nome del brand come sfondo, selfie con il cuscino di un divano, selfie adagiati sulla chaise-longue di Le Corbusier (un grande classico). In ultimo, ahimè, selfie con la hostess. 

Tutte le immagini sono di Witchoria

Colonna sonora: tutto l’album Portamento dei The Drums

I cavallucci marini

Ci sono negozi a Parigi ai quali sono particolarmente affezionata. C’è il negozio di giocattoli e cartoleria nel Marais, dove ho servito gli accessori più inutili e assurdi a una clientela strampalata. Poi c’è il bazar di spezie dove sono stata un anno e mezzo, tra erbe e cumuli di pepe, liquori dalle Antille e fiori commestibili. Poi il cineclub del 18° arrondissement, con un vero e proprio salotto interno, dove scegliere i film, i negozi di ceramica giapponese, quello di accessori messicani, il laboratorio di profumi.

Ce n’è uno, però, in particolare, che l’estate ha riportato a galla. È un negozio di specie ittiche, nei dintorni di Gambetta. Precisamente, nella lunghissima rue des Pyrénées. Si chiama “Paramount Aquarium” e dal 1972, come si legge sull’insegna, sono specialisti di acquariofilia. Lo si può individuare da lontano, perché ha la porta sempre aperta e il riverbero di una luce azzurrata che investe il marciapiede vicino. 

La cosa bella del negozio, tra le tante, è che, una volta dentro, raramente s’incrocia qualcuno. Con una merce in vendita difficile da rubare, ci si può aggirare per i corridoi per decine e decine di minuti prima di vedere un commesso. Oltre alla bellezza incredibile di alcune specie di pesci, ai colori iridescenti di pinne caudali e scaglie, c’è un’intera sezione dedicata ai cavallucci marini. 

Tutta una stanza ospitava cavallucci marini, divisi in vasche per colori. Di tutte le dimensioni e sfumature, più che nuotare sembravano volare nell’acqua, galleggiando tra alghe, sassolini e bollicine, in tutte le direzioni. Chi in verticale, chi da destra a sinistra, chi in diagonale, altri addirittura sottosopra. Lo sguardo vitreo, indifferente al mondo, ai bambini che tamburellano con le dita sul vetro, ai passanti di quei corridoi allampanati. 

Andandoci tante volte, alla fine ho imparato qualcosa sugli ippocampi. Che possono dormire in due modalità, una modalità integrale e una attiva, con il cervello addormentato e i sensi in allerta, un po’ come i rondoni, e anche alcune specie di megattere, quando volano per giorni e giorni lasciando dormire un emisfero cerebrale alla volta. Che la pinna caudale non gli serve per nuotare ma come sostegno e come arto prensile e quando nuotano la tengono arrotolata sotto il ventre. E poi che sono animali estremamente tenaci e pazienti, ma anche dolcissimi con il loro compagno di vita, che è solo uno per tutta la breve durata della loro esistenza, massimo sette anni.

Ho passato qualche ora in quel negozio, davanti a quei vetri. Nei giorni di pioggia interiore, quelli di temporale invisibile, di nuvole opprimenti. Quelli in cui anche parlare con qualcuno, anche per chi come me, suo malgrado, tende a ripetere e a crogiolarsi nelle ferite, davvero non serve a nulla.
Penso di essere diventata grande qualche volta in quel negozio, senza nessuno accanto, solo con gli occhi trasparenti dei cavallucci marini. 

Oggi, mi piacerebbe passare una mezz’ora sotto quella luce azzurrata, senza nessuno intorno, con il caldo umido dei negozi di acquari, in compagnia dei cavallucci marini. Restare a guardarli fino a sentirne quasi l’impercettibile movimento. Fissarli fino a imprimerli nella memoria. E poi a casa, chiudere gli occhi, e sognare finalmente nient’altro che un cavalluccio marino.

Soundtrack: Björk, Come to me

L’incanto

Un varco temporale, un’apertura astrale

un tuono taciturno, un’aurora boreale

questo e altro potrei fare, se un giorno ti guardassi

risollevassi il mento, dritto dritto agli occhi

Lampi, vento, fulmini, perfino un maremoto

e poi fermare il tempo, finire nell’ignoto

in quello spazio liquido, sospeso ed idilliaco

dove scorre solo il battito cardiaco

E in quella mia parentesi di vita immaginaria

farmi leggerissima, innocua come aria

e finalmente un attimo poterti avvicinare,

sentire il tuo profumo, lasciarmi attraversare

Da vicino, vicinissimo finire ad osservare

la forma delle rughe, il colore dei tuoi occhi,

la curva delle labbra, poterti poi sfiorare

la pelle con un dito, poterti regalare

Un bacio silenzioso che esplode l’universo

brucia l’orizzonte, ti fa sentire perso,

asciuga ogni respiro, congela il mondo intero

ci lascia in due da soli al centro del mistero

E quando per magia, con un battito di mani

ritorna e corre il tempo, quello degli umani

sapere che noi due, come per incanto,

noi soli ricordiamo invece tutto quanto.

Il tempo della semina

Chiudere il cerchio, radunare il raccolto, unire i puntini e vedere, finalmente, un disegno, qualcosa di chiaro, visibile, sensato. Sentire di potersi fermare, anche solo per poco, di non dovere più spingersi oltre, di potersi sedere e guardare il paesaggio che scorre. Perché si era già fatto tanto, forse troppo. E tutto subito. Quando invece, forse, si poteva fare meno, ma meglio. Più lentamente, ma tutti insieme.

Ma era già tardi, perché si era andati veloci come un treno, 5000 km al secondo, si era bruciata la strada senza vedere nulla dal finestrino, senza fermarsi più nemmeno a chiedersi il perché. Perdere di vista, giorno dopo giorno, il cammino, i compagni di viaggio, persino la destinazione.

C’è uno strano modo di imparare le lezioni. Quello di ottenere quello che si desidera e poi vederlo crollare, quello di raggiungere un traguardo che, immediatamente, perde importanza, quello di sentire l’amaro in bocca perché in mano ci si ritrova esattamente quello che si era chiesto. Quello di pensarsi al sicuro, con la propria piccola verità, intoccabili, con la propria piccola ragione. E poi all’improvviso aprire gli occhi.

Scivolare giù, in una paurosa nebbia di memorie, tornare a guardare e vedere che niente è come sembra, e che vie d’uscita non saranno offerte, ma solo conquistate a fatica, e mai una volta per tutte. Avvertire che dentro qualcosa si è rotto e che adesso non c’è spazio né tempo per altro che non sia sopravvivere, riparare, ricucire, rimettere tutti i pezzi al loro posto e sperare che tengano. Ma anche toccare il fondo più basso, farsi attraversare dal buio, mettersi alla prova per vedere quello di cui si è capaci, correre fortissimo per non sentire più niente, capire che i limiti creduti non esistono e che a passare dall’altro lato, quello dove mai avremmo pensato di essere, ci vuole solo un soffio.

E oggi, a pochi passi da Natale, restare in piedi fino a notte fonda, a guardare il soffitto, a voltarsi indietro e vedersi coperta di polvere, sola, a imparare la più dura delle lezioni: essere grata per dover tornare a seminare, per avere l’opportunità di farsi ancora seme, rompersi in profondità e lasciare andare, poter sbocciare ancora e ancora.

Soundtrack: The Smiths, This night has opened my eyes

Tornare

Ci sono libri, e storie, che stanno là, in uno scaffale della libreria, in un angolo del soggiorno. Sai di cosa parlano, ti sembra quasi di averle già lette, perché sono opere conosciute, il momento di prenderle in mano viene sempre rimandato. Poi, arriva anche il loro turno e, per una strana forma di serendipità o di corrispondenza con le ere della tua vita, quasi sempre il momento è quello giusto.

Così, a un mese dalla nostra partenza, tra valigie da fare, documenti e preparativi, quell’algoritmo analogico che è la letteratura, che da un libro conduce a un altro, senza soluzione di continuità, mi ha messo tra le mani “Revolutionary Road” di Richard Yates, acquistato d’istinto in quel luogo mitico che è la libreria I volatori a Nardò e terminato proprio ieri.

“Capolavoro ineguagliato”, come viene definito dalla critica, da cui Sam Mendes ha tratto un film apprezzato e di successo con Kate Winslet e Leonardo Di Caprio. La storia, in poche righe, è questa: siamo nel 1955 e i Wheeler, una giovane coppia con figli, sentendosi intrappolata nel quotidiano di una periferia nel Connecticut, a qualche miglio di treno da New York, prende la decisione di ritornare a sentire l’ebbrezza della vita trasferendosi a Parigi. L’esistenza, il logorante e incessante chiedere della quotidianità, li riacciuffa e, piccolo spoiler, non va a finire bene.

“Non possiamo continuare a fingere che è la vita che volevamo…avevamo dei progetti, tu avevi dei progetti… guarda noi due, siamo cascati nella stessa ridicola illusione… l’idea che devi ritirarti dalla vita, sistemarti nel momento in cui hai dei figli…era una bugia”, dice April Wheeler, “Per anni ho pensato che noi condividessimo un segreto: che noi due saremmo stati meravigliosi nel mondo”.

In questa girandola di personaggi tesi a mantenere uno status quo invidiabile, solo John Givings, matematico e figlio dell’agente immobiliare, un cinquantenne che ha subito 37 elettro-shock e vive internato nella clinica di Greenacres, intuisce e sente risuonare nelle corde del cuore il desiderio di cambiamento dei Wheeler: “Il vuoto disperato… Ora l’ha detto, molte persone sono coscienti del vuoto ma ci vuole un gran fegato per vedere la disperazione”.

Quanto questo libro abbia avuto un’eco in questo mese di preparativi è facile capire. I compromessi della vita a due, l’idea di avere sempre e solo rinunciato a qualcosa da qualche anno a questa parte, la sensazione che Parigi, in un certo qual modo, avrebbe rimesso tutto a posto. E, d’altro canto, il conforto delle piccole abitudini, delle distanze che si riducono, del sentirsi al riparo da un’incontrollabile idea di mondo che se ne va per conto suo, mentre ci lascia qui.

Si può avere le farfalle nella pancia prima di incontrare una città? Si possono avere i brividi al pensiero di prendere un treno metropolitano? Avere le mani che tremano facendo un check-in?

L’ultima volta che ho messo piede in Francia è stato nel mondo di prima. Appena prima dello scoppio della pandemia, negli ultimi mesi del 2019. Un mese di giugno caldissimo, una gravidanza appena sbocciata, il pensiero che sarebbe stato solo un arrivederci, che ci saremmo visti regolarmente, come ci si dice tra vecchi amici che stanno solo cambiando quartiere. “Ci sentiamo”, “poi ci aggiorniamo”, “alla prossima”.

La prossima volta non c’è stata. La nascita di due bambini, un mondo stravolto da un virus, cambi di lavoro, case e prospettive, e un’insolita paura, di quelle che non provavamo da tanto tempo, a prendere un biglietto aereo. “Adesso non è il momento”, “con loro come facciamo?”, “e se succede qualcosa?”. Nel frattempo, la ricerca spasmodica di una casa, letterale e metaforica, di un luogo dove sentirsi protetti e al sicuro. Il tentativo, ogni giorno da ricominciare, di rimettere tutto in piedi, in equilibrio, di avanzare, fosse anche di un passo solo. Una sosta doverosa per dirsi che di strada ne era stata fatta tanta, che ci si poteva sedere e respirare un po’, e ricordarsi che “fermarsi è correre ancora di più”.

E poi, un giorno, in una primavera piovosa come quella di quest’anno, ci siamo decisi a prendere un volo, a regalarci quello che per noi significa davvero un ritorno a casa.

Qualche giorno fa una persona mi ha detto: “Vedrai che i luoghi ti saluteranno come dei vecchi amici”. Ho pensato che rimettere piedi a Parigi sarebbe stato come sentirsi dire un “come va?” da una vecchia conoscenza. Una di quelle domande che vogliono dire tante cose. Che vogliono dire, se hai voglia, mi puoi raccontare tutto, o niente. Come sono andati questi anni? Hai trovato quello che cercavi? Quanto hai perso alle scommesse? Quanti progetti infranti? E quanti e quali incendi hanno preso fuoco dalle ceneri? Quante medaglie? Quanti silenzi?

Poi i francesi, quando dicono “ça va?”, raramente vogliono sapere davvero come stai. È una delle prime cose che s’impara mettendo piede in Francia: a rispondere con un altrettanto “ça va, et toi?” e a chiudere i convenevoli, senza approfondire.

A domani, Paris. Qui non vediamo l’ora.

Foto di copertina: “View from Notre-Dame”
Paris, 1955.
Ernst Haas

Incendiare il buio

È stato, questo, un anno di nascite. Di chiusure del cerchio. Di epifanie e ritrovamenti. Di voglia di restare in compagnia di quanto si ha e di quanto si ha avuto, di fermarsi a mettere un punto. L’uscita di “Incendiare il buio” per le edizioni indipendenti Collettiva è per me la fine importante di un capitolo. Quella che mi sembra un’era, fatta di letture, di scavo, di studio, di ricerca, di confronto con voci femminili, con testi di donne, teorie femministe, storia italiana, europea e mondiale. Quando ho iniziato a scrivere ero a Parigi, mamma inesperta di un primo bimbo. A mettere la parola fine, sicuramente, è stata un’altra persona. Oggi, queste pagine, che hanno vissuto metamorfosi e trasformazioni, proprio come me, sono pronte per andare per la propria strada e io a imboccarne una nuova.

Qui un estratto.

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La torre dell’Alto a Portoselvaggio

È strano come un piccolo paese con un pezzetto di mare

e quattro casette bianche addormentate al Sole

bastino a placare un animo inquieto e a dissolverne le pene.

È per questo che qui mi precipito da anni, ormai,

quando mi pare di non reggere più alle continue prove della vita,

alle disillusioni, alla tristezza.

Qui sono al sicuro, mi ripeto, fuori dal mondo,

protetta quasi come ai tempi in cui erano gli altri

a decidere per me, a difendermi dalle contrarietà.

Renata Fonte

Impregnate della salsedine dello Ionio, le tre arcate della Torre dell’Alto spiccano all’orizzonte, ammiccano ai bagnanti di Santa Caterina e sorvegliano la splendida foresta del Parco Naturale Portoselvaggio e Palude del Capitano, di proprietà del Comune di Nardò, di cui la torre si fa fiera custode. Ai tempi dei cavalieri e delle invasioni dall’Oriente, la Torre dell’Alto, nota anche con il nome di Torre del Salto della Capra, comunicava a nord con Torre Uluzzo e a sud con la Torre di Santa Caterina.

Costruita per ordine del viceré spagnolo Don Pietro da Toledo, nella seconda metà del Cinquecento, la torre fu eretta dal mastro neretino Angelo Spalletta e utilizzata a scopo difensivo fino alla metà del Seicento. Deposta l’artiglieria, la bella torre si mutò in lazzaretto e, a partire dall’Ottocento, completamente abbandonata.

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Claudia Ruggeri e il folle volo

Un cappello rosso e un lungo vestito nero. Claudia Ruggeri ha 18 anni quando incanta il pubblico della Festa dell’Unità a Lecce, recitando i suoi versi da sposa barocca. Era il 1985, nel Salento iniziava a crescere e diffondersi un inedito fermento culturale. Nascevano riviste come “L’Incantiere”, il Laboratorio di Poesia diretto del professore Arrigo Colombo dell’Università del Salento, il festival letterario Salentopoesia. La giovanissima Claudia, nata il 30 agosto 1967 a Napoli, trasferitasi a Lecce pochi anni dopo insieme alla sua famiglia, cresciuta a libri e viaggi, aveva finalmente trovato il terreno fertile dove far germogliare la sua voce poetica.

Sono anni di creatività, voglia di fare, esprimere. Durante gli incontri del Laboratorio di Poesia, Claudia conosce tutti i poeti salentini più importanti, da Antonio Verri, che s’innamorerà del suo talento da bambina-prodigio, a Dario Bellezza, che le resterà sempre vicino, entra in contatto con i più noti intellettuali italiani, come il poeta Franco Fortini, a cui farà vedere i suoi versi, ricevendo in cambio una sorta di paternale e un incoraggiamento a fare piazza pulita dei suoi modelli e delle bigiotterie barocche che ingioiellavano le sue poesie e a dare ascolto alla sua sola voce.

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Il “manzano”

I primi giorni di gennaio non sono solo l’inizio del nuovo anno in casa nostra. Si celebrano altre ricorrenze, altri giri di boa. Cose lasciate andare con incertezza e smarrimento, come la nostra vita di Parigi, il nostro rifugio nel cuore del mondo eppure lontano da tutti, la libertà e l’anonimato che solo la grande città può regalare.

Il profumo della casa di mia nonna, andata via il 2 gennaio, quell’inverno che c’è stata la neve, con gli aerei bloccati a terra, le strade una terra di nessuno, io nella mia stanzetta di adolescente, con un bimbo di sei mesi accanto e i fuochi d’artificio del Capodanno scoppiati tra le lacrime. La casa di mia nonna, un odore che mai più risentirò, come la sua voce, i suoi proverbi allegri, i suoi scoppi di risa, i trebuchi nel cassetto e i quadri pesanti del salotto.

I primi giorni di gennaio degli scorsi anni sono stati per noi anche l’inizio di nuovi cammini professionali, incontri fertili e tanto tantissimo studio, strade di cui oggi finalmente intuiamo l’arrivo. Cerchi che si chiudono, e che si riaprono più grandi, con un respiro più ampio, regalandoci spazio e tempo, per fare progetti, immaginare, costruire, non essere schiavi di nessuno. Nemmeno del proprio talento. Mai più.

Il due gennaio a casa nostra si festeggia anche e soprattutto la nascita di André, il nostro secondo bimbo, la seconda deflagrazione della nostra vita familiare. André, tre primavere oggi, e già fratello maggiore. Da quest’anno, sei tu il “manzano” di casa, con tutta la pesantissima eredità dei secondi figli sulle spalle. La felpa che indossi in questi giorni, con la scritta “Emile” sul petto, la dice lunga.

André, cocco di mamma, occhi di bosco e testa di grano. La tua nascita mi ha restituita al mondo come mamma. Prima mi muovevo nell’incertezza, con il piede in bilico tra due esistenze, come se fosse possibile tornare indietro. Dal tuo arrivo, mi sono sentita immersa nella maternità, con uno potevo farcela, ma con due no. Niente sarebbe più stato come prima e infatti non lo è ancora. Le sfide più difficili sono quelle che ho vissuto dentro le mura di casa e le battaglie più logoranti quelle combattute per ritrovare me stessa, anche se con le mani sempre occupate a stringere dita piccoline.

André cuor di leone, che non ha paura di niente. Appassionato di ragni grandi, lupi neri, altezze vertiginose, e di ogni cosa che fa spavento. È con te che sono riuscita a pronunciare quel “no, adesso basta”, che mi aspettava da anni. È con te che non mi sono più guardata indietro ma solo avanti, per la mia strada, che era diventata la nostra. Con te ho smesso di cercare e ho iniziato finalmente a trovare.

Per il tuo compleanno, oggi che il tempo solo per te spesso non c’è, la mamma ti augura la gioia impigliata sempre nelle tue ciglia lunghe, la curiosità delle tue manine, l’abbraccio forte di tuo fratello più grande e i bacini acerbi della tua sorellina, l’amore fortissimo che abbiamo tutti per te.

Image: Julie Morstad

Soundtrack: This night has opened my eyes, The Smiths