“Allora, com’è Milano?”. Ho perso il conto di tutte le volte che mi è stata rivolta questa domanda nel corso degli ultimi mesi. Per un po’ di tempo, avevo anche pensato di registrarne tutte le intonazioni, da quella più sufficiente a quella più entusiasta, passando per il milanese che non sa cosa dire alla signora preoccupata che “è un po’ un trauma per te che vieni da Lecce”, ed è un trauma anche se le ho ripetuto che ho vissuto altre volte in città che superano il milione di abitanti e ha insistito, nonostante tutto, a volermi spiegare il funzionamento della metropolitana e ad accompagnarmi alla fermata, “non vorrei che ti perdessi tra i tanti corridoi”.
Milano, per me, era qui ancor prima di viverci. Era la stazione centrale almeno cinque volte al mese, quando ho iniziato a seguire il corso a Lotto, a venirci sempre più spesso per vani colloqui di lavoro. Erano i binari lunghissimi prima di arrivare a destinazione, il panorama dal finestrino di un treno, quasi sempre graffiato di pioggia. L’autostrada che ho imparato a memoria con i tanti passaggi in auto. Ritrovare, anche se per poco tempo, il calore di una redazione e quello di una classe. La certezza di poter vivere bene in una città che non fosse Parigi. Una nuova tessera dei trasporti. Qualche nuovo amico e altri che sono riuscita ad incontrare finalmente anche fuori dalla virtualità.
“Il bello di vivere in una città che non conosci è provare continuamente l’eccitazione dell’esploratore”, ha scritto di recente Cristiano de Majo, su RivistaStudio, parlando proprio di Milano. A questa eccitazione ci si può anche abituare, diventarne dipendenti, ma aiuta anche a preservare dalle lamentele, dal malcontento, dall’insoddisfazione. In questi mesi di stupidità collettiva a Milano, di crociate distruttive contro Expo, di attivismo con spugnetta e detersivo, mi sono sentita leggera come pochi, godendo di quel piacere che Pavese ha descritto meglio di chiunque altro, quello di “sfiorare innumerevoli scene ricche e sapere che ognuna potrebbe esser nostra e passar oltre da gran signore”.
Scene che si compongono una strada dopo l’altra, con la sensazione di mettere insieme i pezzi di una città: il pomeriggio al quartiere Maggiolina, tra le case igloo, le ville residenziali e la ferrovia; una sera al Piccolo Teatro e poi tornare a piedi lungo via dei Mercanti deserta; la scoperta dei vicoli dei Navigli e degli atelier di pittura; seguire la pista della Martesana fino alle porte della città; intrufolarsi nei teatri più piccoli e meno conosciuti; esplorare le viscere di Macao insieme ai ragazzi di Proprietà Pirata; i tarocchi per due dalla zingara di Brera; una panchina di Parco Sempione con i libri di Rumiz e poi il Bar Magenta; un sabato sera da sola a perdermi nell’Hangar Bicocca, sotto i palazzi celesti; il tram numero 9, da Porta Romana a Porta Genova; il bus diretto a Linate con il cuore in gola.
Sentirsi finalmente a casa, realizzare come si legano i viali, imparare le prime scorciatoie, essere in grado di rispondere quando qualcuno chiede indicazioni, come scrive sempre De Majo, “è bellissimo quando inizi a capire che quella strada porta in un posto dove sei già stato arrivandoci da un’altra parte, ed è rassicurante sapere che per un bel pezzo potrai permetterti una certa naiveté, che significa anche che ti lamenterai poco”.
E poi Milano è stata una nuova casa, il piacere di essere sola, di addormentarmi con la musica, di costruire marionette di carta sul pavimento e lasciarle lì per giorni, di partire, di tornare, senza dover informare nessuno, di esplorare libri sconosciuti trovati nel soggiorno, di rientrare e chiudere il mondo fuori. Vivere quella solitudine che, quando c’è, come diceva De Andrè, aiuta “ad avere contatto con il circostante”, che non è fatto solo dei nostri simili ma comprende anche “tutto l’universo, dalla foglia che spunta di notte in un campo fino alle stelle”.
Mentre scrivo, Milano è deserta. Non arriva nessun rumore dalla finestra aperta di casa, al settimo piano e non è difficile pensarsi già altrove. Immagino lo stesso silenzio, tanti tanti chilometri più a sud, un altro vento, altri domicili, altre stanze, lontane da questo appartamento, che è il posto dove pensavo di aver scacciato definitivamente alcuni fantasmi, che invece s’erano solo nascosti sotto il letto e mi hanno teso un agguato all’improvviso, a pochi giorni dalla fine.
Provo a contrastarli con il solito antidoto: l’attitudine alla partenza, l’arte del bagaglio minimo, un biglietto di sola andata già pronto, “il senso della ferrovia”, l’istinto di sopravvivenza: cambiare decoro, per sfuggire al vero ignoto, quello di una domenica pomeriggio passata a fissare il soffitto di casa. La dimensione domestica, scriveva Magris, cela più insidie di un viaggio avventuroso e la spedizione da una stanza all’altra della propria abitazione non è meno ricca di rischi e pericoli.
Soundtrack: Mino De Santis, Sempre in viaggio
Image: © Witchoria
Forse l’unico modo per cacciarli i fantasmi, è affrontarli di petto non appena ti sentirai pronta. Così magari smetteranno di seguirti. Spostati finché non sarai davvero piena di energia, poi girati ad aspettarli… Ti auguro buon viaggio ovunque tu stia andando
A volte penso di non essere in grado di farlo da sola. M’impegno, ma tornano, “al contrattacco con elmi ed armi nuove”, diceva qualcuno. In ogni caso, grazie del tuo commento e delle tue parole, partire e cambiare scenario non può che far bene. Alla prossima!
V., cara V.
Allora mi sa che non riusciremo ad incontrarci nemmeno questa volta. E pensare che non ci sfioriamo neppure, tu parti ora, io ritorno a metà luglio. A volte, leggendo i tuoi brani, penso che tu ti sia trovata nel viaggio, che l’atto stesso dello sposarti, l’eccitazione e la vertigine, siano parte integrante del tuo tessuto, forma indistinta della tua personalità che si è costruita anche – non solo certo – attraverso la frattura, le andate, i binari e i ritorni. Per i tuoi lettori egoisti ( e io mi metto in prima linea ) sapere che parti significa solo bellezza, curiosità, la voglia di scoprire dove ti sposterai, cosa incontreranno i tuoi occhi, quali libri, quali teatri e quali consigli di titoli, letture e spostamenti fioriranno in queste pagine. Se tu sei felice, se il tuo centro si sposta in funzione dei venti e delle maree, allora sì, continua sulla strada dell’andare, che non meno di altre, è quella giusta. Un abbraccio.
Grazie Ilaria, grazie delle tue parole, per come riesci a completare e a dare un senso a quelle che io prendo per inutili rêverie a volte. Non lo so se questo perenne andare mi renda felice, il confine tra fuggire e partire spesso è molto sottile. Quello che mi conforta è che, nonostante la paura, l’inquietudine, il senso di vuoto, tutto questo non m’impedisce di andare, di scoprire, di esplorare, di sperimentare nuovi domicili. Spero che un giorno riusciremo a incontrarci.
Alla prossima.
V
arrivederci e buon viaggio valaria, un abbraccio di quelli forti
a.
grazie Risotto (mi faceva sempre tanto ridere quando qualcuno, una certa Claudia da Brescia, ti chiamava così)! ti abbraccio forte anche io e a presto, sicuramente.
V.
La malinconia di queste righe l’ho bevuta tenendo nelle orecchie le note dei Pray For; negli occhi, la città dal settimo piano.
Delicatezza e carezze di un testo che mi ha ricordato la mia Parigi. Che mi ha messo dinnanzi la mia Milano.
Si.
Mi piace.
Pray For More, Inaya Day – Made For Me (Alex Ander Soulful Bliss)
Abbiamo delle geografie in comune, da Milano a Parigi, e viceversa. Io continuo a conservare negli occhi entrambe, anche adesso che sono lontana mille miglia da ogni tipo di metropoli.
Grazie per il tuo commento e per aver letto le mie poche righe.
Vengo anche io a trovarti tra i tuoi racconti, da quel che ho letto mi piacciono molto.
Alla prossima.
V.