La torre dell’Alto a Portoselvaggio

È strano come un piccolo paese con un pezzetto di mare

e quattro casette bianche addormentate al Sole

bastino a placare un animo inquieto e a dissolverne le pene.

È per questo che qui mi precipito da anni, ormai,

quando mi pare di non reggere più alle continue prove della vita,

alle disillusioni, alla tristezza.

Qui sono al sicuro, mi ripeto, fuori dal mondo,

protetta quasi come ai tempi in cui erano gli altri

a decidere per me, a difendermi dalle contrarietà.

Renata Fonte

Impregnate della salsedine dello Ionio, le tre arcate della Torre dell’Alto spiccano all’orizzonte, ammiccano ai bagnanti di Santa Caterina e sorvegliano la splendida foresta del Parco Naturale Portoselvaggio e Palude del Capitano, di proprietà del Comune di Nardò, di cui la torre si fa fiera custode. Ai tempi dei cavalieri e delle invasioni dall’Oriente, la Torre dell’Alto, nota anche con il nome di Torre del Salto della Capra, comunicava a nord con Torre Uluzzo e a sud con la Torre di Santa Caterina.

Costruita per ordine del viceré spagnolo Don Pietro da Toledo, nella seconda metà del Cinquecento, la torre fu eretta dal mastro neretino Angelo Spalletta e utilizzata a scopo difensivo fino alla metà del Seicento. Deposta l’artiglieria, la bella torre si mutò in lazzaretto e, a partire dall’Ottocento, completamente abbandonata.

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Claudia Ruggeri e il folle volo

Un cappello rosso e un lungo vestito nero. Claudia Ruggeri ha 18 anni quando incanta il pubblico della Festa dell’Unità a Lecce, recitando i suoi versi da sposa barocca. Era il 1985, nel Salento iniziava a crescere e diffondersi un inedito fermento culturale. Nascevano riviste come “L’Incantiere”, il Laboratorio di Poesia diretto del professore Arrigo Colombo dell’Università del Salento, il festival letterario Salentopoesia. La giovanissima Claudia, nata il 30 agosto 1967 a Napoli, trasferitasi a Lecce pochi anni dopo insieme alla sua famiglia, cresciuta a libri e viaggi, aveva finalmente trovato il terreno fertile dove far germogliare la sua voce poetica.

Sono anni di creatività, voglia di fare, esprimere. Durante gli incontri del Laboratorio di Poesia, Claudia conosce tutti i poeti salentini più importanti, da Antonio Verri, che s’innamorerà del suo talento da bambina-prodigio, a Dario Bellezza, che le resterà sempre vicino, entra in contatto con i più noti intellettuali italiani, come il poeta Franco Fortini, a cui farà vedere i suoi versi, ricevendo in cambio una sorta di paternale e un incoraggiamento a fare piazza pulita dei suoi modelli e delle bigiotterie barocche che ingioiellavano le sue poesie e a dare ascolto alla sua sola voce.

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Il “manzano”

I primi giorni di gennaio non sono solo l’inizio del nuovo anno in casa nostra. Si celebrano altre ricorrenze, altri giri di boa. Cose lasciate andare con incertezza e smarrimento, come la nostra vita di Parigi, il nostro rifugio nel cuore del mondo eppure lontano da tutti, la libertà e l’anonimato che solo la grande città può regalare.

Il profumo della casa di mia nonna, andata via il 2 gennaio, quell’inverno che c’è stata la neve, con gli aerei bloccati a terra, le strade una terra di nessuno, io nella mia stanzetta di adolescente, con un bimbo di sei mesi accanto e i fuochi d’artificio del Capodanno scoppiati tra le lacrime. La casa di mia nonna, un odore che mai più risentirò, come la sua voce, i suoi proverbi allegri, i suoi scoppi di risa, i trebuchi nel cassetto e i quadri pesanti del salotto.

I primi giorni di gennaio degli scorsi anni sono stati per noi anche l’inizio di nuovi cammini professionali, incontri fertili e tanto tantissimo studio, strade di cui oggi finalmente intuiamo l’arrivo. Cerchi che si chiudono, e che si riaprono più grandi, con un respiro più ampio, regalandoci spazio e tempo, per fare progetti, immaginare, costruire, non essere schiavi di nessuno. Nemmeno del proprio talento. Mai più.

Il due gennaio a casa nostra si festeggia anche e soprattutto la nascita di André, il nostro secondo bimbo, la seconda deflagrazione della nostra vita familiare. André, tre primavere oggi, e già fratello maggiore. Da quest’anno, sei tu il “manzano” di casa, con tutta la pesantissima eredità dei secondi figli sulle spalle. La felpa che indossi in questi giorni, con la scritta “Emile” sul petto, la dice lunga.

André, cocco di mamma, occhi di bosco e testa di grano. La tua nascita mi ha restituita al mondo come mamma. Prima mi muovevo nell’incertezza, con il piede in bilico tra due esistenze, come se fosse possibile tornare indietro. Dal tuo arrivo, mi sono sentita immersa nella maternità, con uno potevo farcela, ma con due no. Niente sarebbe più stato come prima e infatti non lo è ancora. Le sfide più difficili sono quelle che ho vissuto dentro le mura di casa e le battaglie più logoranti quelle combattute per ritrovare me stessa, anche se con le mani sempre occupate a stringere dita piccoline.

André cuor di leone, che non ha paura di niente. Appassionato di ragni grandi, lupi neri, altezze vertiginose, e di ogni cosa che fa spavento. È con te che sono riuscita a pronunciare quel “no, adesso basta”, che mi aspettava da anni. È con te che non mi sono più guardata indietro ma solo avanti, per la mia strada, che era diventata la nostra. Con te ho smesso di cercare e ho iniziato finalmente a trovare.

Per il tuo compleanno, oggi che il tempo solo per te spesso non c’è, la mamma ti augura la gioia impigliata sempre nelle tue ciglia lunghe, la curiosità delle tue manine, l’abbraccio forte di tuo fratello più grande e i bacini acerbi della tua sorellina, l’amore fortissimo che abbiamo tutti per te.

Image: Julie Morstad

Soundtrack: This night has opened my eyes, The Smiths

Feste comandate

Era una mattina fredda di gennaio, quando abbiamo salutato una vita e, salendo su un aereo, non ci siamo più girati indietro. Parigi, in questi anni, è tornata a farci visita tante volte, nelle coincidenze, nei sogni, nei desideri, nei ricordi. Noi, complici una pandemia e numerose rivoluzioni personali, mai.

Difficile resta sempre mettere a fuoco la mancanza, l’assenza. Solo di recente ho realizzato che quello che mi manca di più di Parigi ha a che fare con la parola grandezza e la parola infinito, con l’orizzonte, con le possibilità, con il salto nel buio, il mio sport preferito per almeno una decina di anni.

In questi tre anni ho fatto i conti con le mie scelte e con le mie direzioni. Con il cambiamento che mi ha portato dal voler possedere il mondo nel palmo di una mano a vedere la casa della mia infanzia dalla finestra. Ho chiuso i cerchi, ho unito i puntini, anche se il disegno, talvolta, è rimasto impreciso, il tratto incerto, la matita meno sicura.

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Solo un chicco di caffè

Dormono le case
Dorme la città
Solo un orologio suona e fa tic tac;
Anche la formica si riposa ormai,
Ma tu sei la mamma e non dormi mai

C’è una ninna nanna che, con un ritmo lento e una melodia dolcissima, racconta di una mamma che non dorme mai, per la quale le scodelle del re sono quasi sempre vuote e la sola cosa rimasta è un chicco di caffè. La cantava una bimba allo Zecchino d’Oro e, nella mia fantasia, me la sono immaginata scritta davvero da una mamma esausta, che la mattina si alza, dopo una notte, l’ennesima, passata in bianco, e nel barattolo trova solo un chicco sparuto di caffè.

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La ripetizione

Quest’estate, ho trascorso molti pomeriggi a svuotare un secchiello pieno d’acqua su uno scoglio. Io lo riempivo, lo passavo ad André, 20 mesi, lui ne riversava il contenuto sulla roccia, ci facevamo una bella risata e ricominciavamo. Ogni mattina, ripetiamo gli stessi giochi. Émile, cinque anni quasi e mezzo, ama guardare il suo cartone preferito a ripetizione, la sera leggiamo lo stesso libro per mesi.

È noto ormai che la routine faccia bene ai bambini. Che la ripetizione di gesti, giochi, frasi, esperienze, ritmi, rassicuri e conforti, ed è la base sicura dalla quale prendere il volo per affrontare quella straordinaria avventura che si chiama crescita, le prime volte, la scoperta del mondo.

C’è un’altra fascia d’età, che ama ripetere ed è confortata dai gesti sempre uguali e dai ritmi che non riservano mai sorprese, ed è quella degli anziani. Durante i primi mesi di pandemia, in seguito alle tragiche notizie di quanto avveniva nelle case di riposo, ho letto numerosi articoli sulle case di cura e le loro abitudini. In particolare, un’inchiesta del The Economist, tradotta da Internazionale, che raccontava del Green House Project, dove vige una sorta di abolizionismo delle case di riposo.

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In viaggio con Giovanna

Ricordo con fortissima intensità, e anche un pizzico di nostalgia, quel momento in cui le poche certezze dell’esistenza hanno vacillato. Avevo perso completamente il centro, andato in frantumi, un giorno freddo di gennaio, lontanissimo da casa, qualsiasi cosa volesse dire allora questa parola. Non me ne rendevo certamente conto all’epoca, ma avevo il mondo nelle mie mani e, non avendo più nulla da perdere, avrei potuto prendere qualsiasi strada e diventare qualsiasi cosa.

Lasciai Parigi alla velocità della luce e trovai riparo in quel di Padova, che divenne per pochi mesi la mia base, prima di trasferirmi a Milano. Di quel periodo, ho impresso tutto sulla pelle, anche i dettagli minuscoli, le ombre della mia bicicletta in giro per la città, il teatro la sera, i pomeriggi in libreria, il traghetto per Burano, le passeggiate sotto i portici con la pioggia, i caffè nei bar, il treno per Milano ogni due settimane. E poi una figura, passata nella mia vita come una meteora, che è rimasta nella mia memoria. “Vai da lei, anche solo per parlare un po’”, mi aveva consigliato un amico, al quale confidavo di passare ogni fine settimana in una città del Nord Italia diversa e che sperava di portare un po’ di conforto a quella nevrastenia geografica di cui ero vittima. E io bussai alla porta di Giovanna, in un appartamento poco fuori dal centro di Padova, dove mi recavo in bici al pomeriggio, un giorno di inizio primavera.

Capelli corti, occhi dolcissimi, maglioni morbidi a collo alto, una macchina piena di libri. Giovanna mi ha accolto nella sua macchina con cui perlustravamo la città, usando verso di me la gentilezza, l’autenticità e la verità che solo i perfetti sconosciuti sanno offrire. Ho subito e accolto tante volte il fascino delle persone più grandi, come compagni di strada. Ho avuto amiche donne e prossimità molto intense con persone che spesso avevano venti o trent’anni di più, alle quali mi avvicinavo come ci si avvicina a una sorgente, per sapere sempre di più, vivere, fare esperienze. Col tempo ho imparato che quanto ricevuto aveva un prezzo altissimo, che ha a che fare con parole che si chiamano libertà e crescita. E forse Giovanna è stata la sola a darmi tantissimo, senza chiedere nulla in cambio.

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I colori dell’arcobaleno

Quando ero al liceo, ai tempi in cui si facevano ancora le gite, andammo in Germania con la mia classe di compagni. Era l’ultimo anno, io ero già concentrata al futuro, ricordo le notti passate nell’hotel, in cui chiesi alle compagne di avere l’unico letto distante dal gruppo, vicino alla finestra, una finestra che si affacciava sulla distesa di palazzi e grattacieli di Monaco.

Mi sentivo già spedita ad alta velocità nell’avvenire, pronta per confrontarmi con le città, con il mondo esterno, con quella infinita galassia dell’ignoto che ero impaziente di prendere a morsi, di toccare con le mani, di vedere, di farmi sporcare e attraversare. Ero già lontanissima dai banchi di scuola, dalla tesina da scrivere, dalle storie d’amore con i compagni, dai voti, dalla dimensione rassicurante del paese, volevo andare “oltre la siepe”, perdermi nel mondo e trovare la mia strada.

Una persona se ne accorse e, proprio durante quel viaggio in Germania, mi offrì un regalo. Il mio professore di inglese, con cui condividevo un amore smisurato per la lingua straniera e per tutto quello che consentiva l’accesso a mondi altri, mi regalò una matita colorata con una frase di Shakespeare “Add another hue to the rainbow”. Me la consegnò di nascosto, con il tatto e la sensibilità che lo caratterizzavano, per non fare preferenze e non creare dissapori con gli altri compagni.

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Una casa bianca in mezzo al blu

Qualche tempo fa, per gioco, un’amica interrogò i tarocchi per me. Uscì l’arcano del sole. Ricordo che vedere quei due bambini biondi sulla carta, nonostante ancora non ci fossero nella mia vita, mi emozionò molto. Chi mi conosce bene, ovvero almeno da una ventina d’anni, sa che da sempre ho desiderato dei bambini, sin dai tempi del liceo, anche prima. Volevo viaggiare e avere figli, lavorare ed essere una mamma presente, inseguire le mie ambizioni e leggere libri di favole. Volevo tutto, e lo voglio ancora. Ma, dietro i due bambini, nel mazzo originale dei tarocchi di Marsiglia, sull’arcano del sole, c’è anche un muro in costruzione. “Questo è quello che ti manca di più e che otterrai con fatica”, disse la mia amica, “una casa“.

All’epoca, ero reduce dagli ultimi due traslochi, infilati, uno dietro l’altro, in poco più di dodici mesi. Ma la casa ancora non c’era. Abitavamo in un appartamento di fortuna, che stava cadendo a pezzi sulle nostre teste, eravamo insofferenti, increduli e, da lì a poco, la pandemia ci avrebbe chiuso là dentro per un bel po’.

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Il figlio della mezzanotte

“Data presunta del parto: 31 dicembre.” “Proprio il 31 dicembre?” “Sì, al massimo il 1° gennaio, in ogni caso iniziate l’anno col botto”. La battuta infelice del medico non azzeccò le previsioni. Perché i botti del 31 passarono e anche quelli del primo giorno del 2020 e tu non sei arrivato. Ti sei annunciato all’ora del tè del 2 gennaio, hai aspettato un pomeriggio qualsiasi, quasi per non disturbare, arrivando al mondo in punta di piedi ma con determinazione e in pochissimo tempo. Alle 20 del 2 gennaio, ci hai trasformato in una famiglia di quattro persone, cambiandoci la vita, ancora una volta, e regalandoci una dolcezza che non tornerà più.

È stato, questo, l’anno della chiusura del cerchio. L’anno che ha riportato tutto a casa, compresa me. L’anno in cui ho visto allontanarsi amicizie che tali non erano e tagliare una volta per tutte rami secchi. L’anno in cui semi addormentati da tempo immemore hanno dato finalmente frutto e in cui per la prima volta forse mi è sembrato di raccogliere e non solo di spargere e seminare. In questi mesi, velocissimi e pieni, nonostante il tempo vuoto e sospeso dell’epidemia e dell’isolamento, abbiamo fatto insieme tante cose. Abbiamo scritto un libro. Abbiamo superato due concorsi. Abbiamo iniziato un nuovo lavoro. Tutto insieme, perché non c’erano alternative. Perché un giorno, guardando dietro, tu non debba dire: “la mamma non l’ha fatto per me”. Io ti ho consacrato tutto il mio tempo e il mio sonno perduto. Tu mi hai resa impermeabile alla stanchezza e al dolore.

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