Il vizio di parlare a me stessa

“Che cos’è la vita, se non ti fermi un attimo a ripensarla?”

Goliarda Sapienza

In queste giornate di tempo rubato al sonno, di tazze di tè verde per resistere qualche minuto in più nottetempo, di poche parentesi di solitudine, il pensiero della scrittura è diventato una delle tante cose da fare, come una lavatrice, la spesa, i vestiti da piegare sulla sedia, una necessità che rimando a giorni più silenziosi, a pomeriggi meno stridenti e nottate più lunghe. Prima di spegnere la luce, la sera, mi riprometto di pensarci domani, di ritagliare al volo una porzione di pomeriggio, che puntualmente finisce per essere impiegata altrimenti. Non solo. Il meccanismo a volte sembra essersi arrugginito. Le parole fanno fatica a mettersi in fila, arranco alla ricerca di una sfumatura, di un guizzo narrativo. La sindrome dell’impostore è dietro l’angolo: m’immagino scrittrice e poi chiudo il quaderno con un buco nell’acqua.

Nei suoi consigli agli scrittori, Rebecca Solnit insiste sull’importanza del tempo da consacrare interamente alla scrittura, ma soprattutto sulla necessità di cominciare. Di scrivere, di non aspettare il momento giusto. Leggo Rebecca Solnit ormai da anni. La sua scrittura limpida, sicura, autentica, mi ha sempre preso per mano e condotto fuori dal labirinto in cui m’ero cacciata, anche quando il suo era un invito a perdersi, un’altra volta, infinite volte. “La strada è fatta solo di parole” e non tutte saranno degne di essere pubblicate, ma il fallimento, la scrittura goffa, che stenta a camminare da sola, è una tappa obbligata. Ogni storia, anche la più articolata, comincia sempre e solo con un paragrafo che barcolla, con lo schizzo di una frase, con la riflessione intorno a un aggettivo, con una parola che si allunga davanti a un’altra, e poi un’altra ancora.

Ho ricominciato timidamente a scrivere. A guardarmi le spalle mentre butto giù qualche appunto, come se non fosse il mio posto, come se dovessi fare altro, di più sensato. Anche se qui riesco a esserci sempre meno, anche se, come mi ricorda il grande fratello, le poche sparute centinaia di persone che seguono i miei dispacci “non hanno mie notizie da un bel po’”, ho ripreso la penna e la mia agenda rossa ha finalmente intere pagine scritte a mano. Scrivo lontano dal clamore delle pubblicazioni, dall’ansia di esserci, nel silenzio di pochi istanti di calma nella giornata. Cerco di fissare un’idea quando arriva inaspettata e, se non ho con me nessun pezzo di carta, mi ci aggrappo con tutte le forze per non farla scappare. Scrivo poche righe ma sempre più spesso, l’intuizione di una storia, il baluginare di un personaggio, un gesto, l’inclinazione di una battuta, il ritmo di un dialogo. Le cose che vedo, che sento, le piccole minuzie quotidiane dell’esistenza ché, diceva Goliarda Sapienza, “che cos’è la vita, se non ti fermi un attimo a ripensarla?”.

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Dai miei lunedì mattina a Odéon, fugaci e intense immersioni nel mondo esterno, torno a casa con una girandola di facce. Ho la vertigine da narrazione. Sono seduta nella metropolitana e la scrittura continua a lavorare da sola, segue una per una le persone che mi passano davanti, fino alla soglia di casa, le immagina riordinare i sacchetti della spesa, parlare al telefono, piangere, fare l’amore. Come precisa Solnit, scrivere non è battere i tasti di un computer. Si scrive anche leggendo. Osservando, mettendo insieme i puntini, allenando quella che Annie Ernaux, autrice scoperta negli ultimi mesi e che ha stravolto la mia concezione di scrittura autobiografica, chiama “l’abitudine di trasformare il mondo in parole”, di convertire la realtà in frasi, dialoghi, personaggi.

E così sono lì i miei personaggi in cerca d’autore. nell’agenda, nel quaderno degli appunti, in un foglio bianco del computer. Abbozzo un dialogo, metto in scena un pomeriggio d’estate, richiamo in superficie ricordi d’infanzia. Una signora che s’affretta e mi passa davanti, la mamma di una compagna di classe quando avevo cinque anni, una ragazza, vestita come me, della mia stessa età, che fa l’elemosina nella metropolitana una mattina d’inverno a Parigi. Sono tutti lì, a chiedere di essere raccontati e io a chiedere a loro di raccontarmi storie. Forse non usciranno mai dal cassetto, lì dove li ho rinchiusi a spiare la vita, ma intanto riempiono le mie giornate, assediano pacificamente i miei pensieri. Scrivere, l’unica cosa che ha popolato e incantato la mia vita, diceva Marguerite Duras, “Io ho scritto. E la scrittura non mi ha mai abbandonata”.

Illustrazione © Gabriella Giandelli

Soundtrack: The Piano Sonata No 16 in C Major, Mozart

14 pensieri su “Il vizio di parlare a me stessa

  1. icolpunto ha detto:

    Capisco tutto, sento tutto cara V. Il tempo che ora ti sfugge sarà popolato domani da i nuovi fantasmi, dalle nuove immagini e da bellezza, assenza, dolore e altra vita. Hai ragione, hanno ragione le tue scrittrici. Si scrive anche guardando. È quello che fai tu, qui, oggi. È quello che farai domani e che si trasformerà in poesia.

  2. Ilaria Mo ha detto:

    Cara V., capisco a fondo queste parole e mi dico che sì, hanno ragione le scrittrici che tanto ami, hai ragione tu. Si scrive anche guardando, immaginando, immagazzinando immagini e tormenti che un giorno, stesi su un foglio bianco, torneranno a dare vita ad altra vita: quella nascosta tra le righe che, più di altra, ha valore di memoria. Perciò, anche nei silenzi lunghi, nelle lunghe pause di esistenza spese a piegare vestiti su una sedia, consolati sapendo che è solo un altro esercizio al tuo modo d’essere, all’attività che, forse, più ti rappresenta. La scrittura non è a tempo, non ha età, sa aspettare e si nutre, soprattutto, di difficoltà, di impossibilità a fare e a dire. Per questo, io credo, tu, ora, nei tuoi silenzi costretti, metti più carne al fuoco di tanti scribacchini parolai che riempiono di segni il mondo senza, in realtà, sapere che cosa dire. Ti abbraccio. Ti aspetto. I.

    • Valeria ha detto:

      Cara Ilaria,
      grazie, mi conforta sapere che le mie parole ti suonano familiari, che hai vissuto e attraversato anche tu quelle che chiami le lunghe pause dell’esistenza, pause che poi pause non sono, anzi sono ricche di prime volte, di novità, di esperienze, di inediti e forse proprio per questo mi manca il momento della scrittura, quello dove assimilare, digerire tutto questo nuovo, questo rumore che mi circonda. Arriverà il tempo, ne sono sicura. A presto e grazie ancora.
      V.

  3. Celia ha detto:

    Lo dicevo ieri ad un amico.
    Io mi considero una scrittrice non perché scriva, o peggio faccia letteratura.
    E’ una cosa che mi capita, spesso che cerco, ma è la foce e non la fonte.
    Penso di essere “scrittrice” perché scrivere è il mio modus vivendi, nel piccolo e nel grande; un elemento del mio esistere al mondo come lo è il modo in cui stringo la mano alle persone o preparo una valigia.
    E’ prima e insieme oltre la questione di cosa sia scrittura, di cosa sia poesia, e quali abbia un certo rango e quali no.

  4. Maria ha detto:

    Un articolo che incoraggia chi non riesce a riportare giù parole che prima uscivano da sole, autonomamente.
    Di Annie Ernaux ho letto un solo libro, la vergogna, ma personalmente non mi ha dato ciò che mi aspettavo.

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