Il vizio di parlare a me stessa

“Che cos’è la vita, se non ti fermi un attimo a ripensarla?”

Goliarda Sapienza

In queste giornate di tempo rubato al sonno, di tazze di tè verde per resistere qualche minuto in più nottetempo, di poche parentesi di solitudine, il pensiero della scrittura è diventato una delle tante cose da fare, come una lavatrice, la spesa, i vestiti da piegare sulla sedia, una necessità che rimando a giorni più silenziosi, a pomeriggi meno stridenti e nottate più lunghe. Prima di spegnere la luce, la sera, mi riprometto di pensarci domani, di ritagliare al volo una porzione di pomeriggio, che puntualmente finisce per essere impiegata altrimenti. Non solo. Il meccanismo a volte sembra essersi arrugginito. Le parole fanno fatica a mettersi in fila, arranco alla ricerca di una sfumatura, di un guizzo narrativo. La sindrome dell’impostore è dietro l’angolo: m’immagino scrittrice e poi chiudo il quaderno con un buco nell’acqua.

Nei suoi consigli agli scrittori, Rebecca Solnit insiste sull’importanza del tempo da consacrare interamente alla scrittura, ma soprattutto sulla necessità di cominciare. Di scrivere, di non aspettare il momento giusto. Leggo Rebecca Solnit ormai da anni. La sua scrittura limpida, sicura, autentica, mi ha sempre preso per mano e condotto fuori dal labirinto in cui m’ero cacciata, anche quando il suo era un invito a perdersi, un’altra volta, infinite volte. “La strada è fatta solo di parole” e non tutte saranno degne di essere pubblicate, ma il fallimento, la scrittura goffa, che stenta a camminare da sola, è una tappa obbligata. Ogni storia, anche la più articolata, comincia sempre e solo con un paragrafo che barcolla, con lo schizzo di una frase, con la riflessione intorno a un aggettivo, con una parola che si allunga davanti a un’altra, e poi un’altra ancora.

Ho ricominciato timidamente a scrivere. A guardarmi le spalle mentre butto giù qualche appunto, come se non fosse il mio posto, come se dovessi fare altro, di più sensato. Anche se qui riesco a esserci sempre meno, anche se, come mi ricorda il grande fratello, le poche sparute centinaia di persone che seguono i miei dispacci “non hanno mie notizie da un bel po’”, ho ripreso la penna e la mia agenda rossa ha finalmente intere pagine scritte a mano. Scrivo lontano dal clamore delle pubblicazioni, dall’ansia di esserci, nel silenzio di pochi istanti di calma nella giornata. Cerco di fissare un’idea quando arriva inaspettata e, se non ho con me nessun pezzo di carta, mi ci aggrappo con tutte le forze per non farla scappare. Scrivo poche righe ma sempre più spesso, l’intuizione di una storia, il baluginare di un personaggio, un gesto, l’inclinazione di una battuta, il ritmo di un dialogo. Le cose che vedo, che sento, le piccole minuzie quotidiane dell’esistenza ché, diceva Goliarda Sapienza, “che cos’è la vita, se non ti fermi un attimo a ripensarla?”.

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Dai miei lunedì mattina a Odéon, fugaci e intense immersioni nel mondo esterno, torno a casa con una girandola di facce. Ho la vertigine da narrazione. Sono seduta nella metropolitana e la scrittura continua a lavorare da sola, segue una per una le persone che mi passano davanti, fino alla soglia di casa, le immagina riordinare i sacchetti della spesa, parlare al telefono, piangere, fare l’amore. Come precisa Solnit, scrivere non è battere i tasti di un computer. Si scrive anche leggendo. Osservando, mettendo insieme i puntini, allenando quella che Annie Ernaux, autrice scoperta negli ultimi mesi e che ha stravolto la mia concezione di scrittura autobiografica, chiama “l’abitudine di trasformare il mondo in parole”, di convertire la realtà in frasi, dialoghi, personaggi.

E così sono lì i miei personaggi in cerca d’autore. nell’agenda, nel quaderno degli appunti, in un foglio bianco del computer. Abbozzo un dialogo, metto in scena un pomeriggio d’estate, richiamo in superficie ricordi d’infanzia. Una signora che s’affretta e mi passa davanti, la mamma di una compagna di classe quando avevo cinque anni, una ragazza, vestita come me, della mia stessa età, che fa l’elemosina nella metropolitana una mattina d’inverno a Parigi. Sono tutti lì, a chiedere di essere raccontati e io a chiedere a loro di raccontarmi storie. Forse non usciranno mai dal cassetto, lì dove li ho rinchiusi a spiare la vita, ma intanto riempiono le mie giornate, assediano pacificamente i miei pensieri. Scrivere, l’unica cosa che ha popolato e incantato la mia vita, diceva Marguerite Duras, “Io ho scritto. E la scrittura non mi ha mai abbandonata”.

Illustrazione © Gabriella Giandelli

Soundtrack: The Piano Sonata No 16 in C Major, Mozart

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Ferie d’agosto

In Francia, gli ultimi giorni d’agosto sono il preludio alla rentrée. Il primo lunedì di settembre, l’estate finisce di colpo, la bella stagione si congeda, si chiude il sipario delle vacanze e la lentezza dei giorni agostani viene spazzata via dal suono della campanella. Con la sveglia del lunedì mattina, tutti i bambini, di tutte le scuole, tornano a scuola, gli uffici svogliati ricominciano a lavorare a pieno ritmo, teatri e gallerie annunciano la prossima stagione, le città pubblicano il calendario di eventi culturali. Non solo. La prima settimana di settembre è anche il momento della rentrée letteraria, dove si concentrano le uscite editoriali più importanti di tutto l’anno. Come dire, essere pubblicati nel corso dell’anno serve a ben poco, i più importanti si contendono le pagine e le recensioni settembrine, lo sa bene Amélie Nothomb che per circa dieci anni ha pubblicato puntuale un libro ogni autunno.

La rentrée è quasi un fenomeno atmosferico, con il dinamismo, le novità, l’energia, la brezza fresca che ogni nuovo inizio comporta. E se tale rigido calendario stagionale è valido in tutta la Francia, è a Parigi ovviamente che la frattura tra il languore d’agosto e i frenetici giorni di settembre è ancora più visibile. Da un giorno all’altro, sulla metropolitana non si trova più posto, per sedersi al tavolo di un caffè occorre prenotare, non si può più attraversare la strada con il rosso, al cinema bisogna arrivare con largo anticipo, le strade tornano affollate di clacson e rumore. Il presidente Hollande torna dalle vacanze, così come tutti i francesi, decretando la fine dell’estate, in barba alla temperatura, che talvolta resta clemente fino ai primi giorni di ottobre.

L’energia della città si riflette e anima i suoi abitanti che, anche a livello personale, spesso rimandano l’inizio di ogni nuovo progetto allo scoccare della rentrée, riservandosi il piacere di sguazzare nella noia e nel far niente, contagiati dal torpore estivo che lascia Parigi in letargo fino alla fine di agosto, immobilizzata tra i cantieri edili e i trasporti che spesso vanno in tilt.

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È la seconda volta che trascorro a Parigi il mese di agosto. La prima, circa tre anni fa, ero intrappolata in un centro commerciale di lusso nel 16simo arrondissement, a tentare di vendere vestiti dal taglio improbabile alle ricche dame borghesi rimaste in città, che ogni pomeriggio portavano a passeggio il cane tra gli stand del centro, uniche clienti in uno scenario desolato, alla disperata ricerca dell’aria condizionata. Ma questa è un’altra storia.

Quest’anno, agosto lo guardo passare dalla mia finestra a Montmartre, una zona della città che d’estate diventa la patria del turismo di massa, mettendosi in mostra per capitalizzare il mese più importante dell’intera annata, quello necessario per far quadrare i bilanci.

I camerieri si sbracciano sulla place du Tertre, turisti abbattuti dalla calura ciondolano con gli occhi all’insù alla ricerca dell’inquadratura perfetta della basilica. Il sole annebbia l’orientamento e la coscienza, “ma questa è Notre-Dame?”, l’ho sentito almeno una decina di volte dal balcone, “boh, a me sembra il Campidoglio”, ha risposto una volta un bambino.

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Tra la place du Tertre e il cabaret del Lapin Agile, i musicisti di strada sfidano la canicola suonando ininterrottamente dalle tre del pomeriggio fino a tarda sera. C’è una vecchia signora che canta Edith Piaf coniugando i verbi delle canzoni all’imperfetto, annegando l’intero quartiere nella nostalgia. Un suonatore di flauto d’origine asiatica che ogni mattina, su una sedia a rotelle, senza gambe e con un solo braccio, si inerpica sulla collina, ritrova il suo angolo, nella rue Norvins, e suona per circa dieci ore e, da qualche anno, anche i soliti gradassi che, alla mancanza di talento e di voce, riparano con cinque amplificatori. Dalle nove di mattina, in poi, microfoni di guide turistiche, raffiche di foto poco convincenti, la pasta delle crêpe che cola sulle piastre, i camion delle consegne imbottigliati nel traffico umano.

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Per ritrovare il silenzio, basta congedarsi dalla butte e defilarsi poco più in basso. A poche centinaia di metri, Montmartre si placa, ritorna in mano ai suoi abitanti e, d’agosto, la rue Caulaincourt, la rue Lamarck, la rue Ramey, che abbracciano la collina, incorniciandola, sono un’intermittenza di saracinesche abbassate, bar di quartiere che raggruppano i soliti noti, che sudano intorno a una televisione, sigaretta all’angolo della bocca e caffè lungo sul tavolo, qualche ristorante superstite sbandiera l’avocado nel piatto del giorno, gli alimentari indiani e arabi, aperti ogni giorno tutto il giorno, e poi un paio di atelier di sartoria, bugigattoli incredibilmente sommersi di vestiti, dove la tappezzeria e la polvere dei montoni e dei costumi da uomo fa subito inverno.

Da sempre a disagio con il torpore estivo che costringe all’immobilità programmata, allo svago telecomandato e ridanciano, quest’anno mi sembra quasi che con la bella stagione Parigi si sia adeguata al ritmo lento delle nostre giornate, all’alternarsi svagato di sonno e veglia dei primi mesi di vita, al ritornello monotono di un carillon. Come canta De André, “il tempo è un signore distratto, è un bambino che dorme”, nel nostro hotel Supramonte è agosto ormai da quasi un anno. Di solito lo aspetto impaziente, con l’ansia di stilare buoni propositi e liste di cose da fare. Quest’anno settembre, invece, mi coglie all’improvviso, come uno sbadiglio, impreparata, con la cartella sfatta e le matite ancora da temperare. I giorni qui restano lunghi e senza rumore, in sordina, e il calendario mi guarda perplesso dal frigorifero, fermo al mese di maggio.

Soundtrack: Fabrizio De André, Hotel Supramonte

Acquerelli: John Salminen

Il colore viola

Il colore viola è un libro difficile. Da ogni punto di vista. Nella prima dozzina di pagine, Celie, 14 anni, ci racconta in un linguaggio stentato, nel suo inglese illetterato, di come sua madre sia caduta in depressione e quello che crede sia suo padre l’abbia scelta per continuare a procreare. Non ancora 15enne, Celie ha due figli, che le vengono portati via, e sarà costretta a sposarsi con Mr —, alla ricerca di qualcuno che possa badare alla casa e alla sua prole indisciplinata. Tutto questo nell’America di inizio Novecento, ancora segnata dalla barbarie della segregazione razziale. Perché Celie, Albert, sua sorella Nettie, sono tutti di colore e la lotta per la sopravvivenza diventa una guerra tra miseri.

Alice Walker, l’autrice, raccoglie in una corrispondenza immaginaria le lettere di Celie spedite alla sorella Nettie, da cui è costretta a separarsi. Le lettere che Celie scrive a Dio, unico appiglio, interlocutore privilegiato della sua grama esistenza, spesa tra la cucina e i campi. Nettie, la sorella più fortunata di Celie, riesce invece a studiare, a trovare la sua strada, da missionaria e insegnante in Africa, e solo dopo tanti anni riuscirà a riabbracciare Celie, ormai cresciuta, indipendente, libera, grazie all’intervento fortuito di Shug Avery che restituisce a una donna sepolta la voglia di vivere e il coraggio di parlare per sé.

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Non è solo in virtù del club letterario di Emma Watson se ultimamente mi ritrovo a leggere quasi esclusivamente autrici donne. In un periodo in cui sono tornata a fare tante cose per la prima volta, all’inizio di uno dei viaggi più difficili della mia esistenza, fatto di pomeriggi solitari e capovolgimenti emotivi, come diceva il buon vecchio giovane Holden, a volte mi piacerebbe avere il numero di telefono di una delle mie autrici preferite e poterla chiamare per una chiacchierata. Elena Ferrante, Goliarda Sapienza, Elsa Morante, Alice Walker, Guadalupe Nettel, Jhumpa Lahiri, Gloria Steinem, a tutte avrei voluto fare una domanda, a ognuna di loro avrei voluto confessare un segreto o semplicemente ascoltarle, come se leggessero ad alta voce una pagina dei loro libri.

Elena Greco, la protagonista e la narratrice della tetralogia di Elena Ferrante, in una Napoli claustrofobica si ritaglia una sua dimensione personale, un proprio percorso individuale, iniziando a frequentare la biblioteca di quartiere, trovando una via d’uscita dal tunnel di meschinità a cui la costringe il suo compagno, Nino Sarratore. La stessa Lila, il suo opposto, la sua migliore amica, che resta almeno in apparenza intrappolata nei meccanismi del terribile rione, trova un agognato isolamento e una sua realizzazione attraverso lo studio, ossessivo, delle parole, dei linguaggi, delle emozioni. Modesta, personaggio indimenticabile del libro di Goliarda Sapienza, L’arte della gioia, trova nello studio la chiave per dare vita alla sua personalità. E il suo non è un semplice studio nozionistico, ma la necessità di studiare se stessa, comprendere le emozioni e i sentimenti, suoi e altrui, un po’ come chiedersi: “quando diciamo ‘ti capisco’ agli altri, lo pensiamo davvero?”.

Elisa e Anna, due personaggi di Menzogna e sortilegio di Elsa Morante, si ritrovano in fondo al baratro di pomeriggi senza fine, che gocciolano lentamente guardando il soffitto, dietro gli scuri abbassati, nei palazzi immobili di una Palermo senza tempo. Al contrario delle sue eroine, la Morante aveva trovato il modo di sfuggire all’indolenza esistenziale, all’apatia delle sue eclissi improvvise, nel salotto immerso nei libri, mentre scriveva con il suo gatto nero acciambellato sulla scrivania.

L’anno scorso, in un periodo di smarrimento emotivo, di precarietà occupazionale, mi sono rifugiata nei libri. Ho passato interi pomeriggi a perdermi tra i traslochi di Mama Tandoori, le cene di Maria Perosino, le sigarette di Ribeyro fumate dall’alto del suo balcone parigino, le strade blu americane. E quest’anno, durante i lunghi mesi di stasi fisiologica, ho ritrovato il mio vecchio rifugio, tra l’accento napoletano di Elena Ferrante, le camere odoranti di cipria di Elsa Morante, scrittori, vecchi e nuovi, che hanno segnato lo scorrere dei mesi, dei giorni grigi e un po’ tutti uguali. Pagina dopo pagina, è come se avessi escogitato un rimedio all’impotenza di certe giornate. Come se la strada per la liberazione personale passasse necessariamente da un libro, dalla curiosità, da una lettura rivelatrice, da un desiderio di completezza, più forte di tutti i Nino Sarratore, letterali o metaforici, presenti nel mio universo quotidiano.

A volte mi illudo di aver trovato un antidoto personale al buio interiore, un’arma contro i mulini a vento, al silenzio vile dell’orizzonte che mi circonda. Una stanza, come diritto e necessità, una libreria a portata di mano, la tessera di una biblioteca, qualche ora di silenzio. E poi, ogni tanto, ricordarsi di guardare fuori dalla finestra, per sopravvivere “alla razza umana”. Pensare, come diceva Celie, “ai fiori, al vento, all’acqua, a un grosso sasso”, a un animale e non smettere di meravigliarsi. Ché, se esiste un Dio, “io credo che Dio si incazzi se tu, di fronte al colore viola di un campo di fiori, neanche te ne accorgi”.

Soundtrack: Miss Celie’s Blues 

Questo post appartiene alla serie di scritti ispirati ai consigli di lettura del club letterario Our Shared Shelf di Emma Watson. Qui la prima puntata. 

Life in Progress

Un giorno, qualcuno mi ha scritto che forse nel silenzio della scrittura, a volte, si incunea la vita. Nell’ultimo mese, ho lasciato l’Italia, sono approdata su due isole greche, ho attraversato il Portogallo, sono ritornata a Montmartre, e tutto è rimasto intrappolato sul bordo degli occhi, nei nodi allo stomaco, nella musica che continua a suonare nelle orecchie.

Il tempo è scivolato tra una partenza e l’altra e, alla fine, quasi senza accorgermene, una mattina mi sono seduta su un aereo all’aeroporto Charles De Gaulle di Parigi e, dopo due film, un libro e almeno dieci gradi in più e tredici ore di traversata, sono atterrata a Los Angeles, a fare la fila all’ufficio immigrazione in uno degli aeroporti più umani e intuitivi dove abbia mai messo piede. E ancora non sono riuscita a rispondere a nessuno tra tutti gli amici che mi hanno scritto, chiesto, fatto un cenno da lontano. Come un coprifuoco emozionale, che mi ha lasciata in apnea.

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Secondo il mio visto turistico, nei prossimi tre mesi mi si può trovare in una cittadina a est di Los Angeles, di nome Monrovia, o giù di lì. Quarta città più antica della contea, poco meno di 40.000 abitanti, è incastonata ai piedi delle colline di San Gabriele, a un passo da Pasadena. Lunghe avenue, strade gigantesche, palme, corvi, scoiattoli e, all’orizzonte, le nuvole che si sgonfiano sulle punte delle montagne. Tra le principali attrazioni, Canyon Park, che si arrampica sul lato settentrionale della città, tra boschi, cascate e sentieri, e un minuscolo ma estremamente curato museo cittadino, dove Mark è a disposizione dei curiosi per raccontare la storia di Walter Botts, tra i residenti illustri della città, lo zio Sam che, tuba in testa e indice intimidatorio, reclutava i soldati per la Seconda Guerra Mondiale dal manifesto più celebre della storia d’America, e di come Monrovia sia conosciuta nella West Coast per le antiche stazioni di servizio della Route 66 e per gli orsi bruni, icona cittadina, in cui è facile imbattersi passeggiando per la città (!).

Non avendo un’auto e in mancanza di validi mezzi di trasporto su cui contare, ho passato le prime tre giornate a vagabondare ipnotizzata per la città, memorizzando la successione delle strade e dei viali e curiosando nei giardini incantati delle case: acchiappasogni appesi agli alberi, scacciapensieri tintinnanti sotto il portico, le decorazioni di Halloween sparse per il giardino, le lanterne tra i fiori, gli scheletri e le zucche disseminati nelle aiuole, le piccole Free Little Library che ammiccano tra le siepi, i cuscini sparsi sulla veranda e le sedie a dondolo sul retro. Tra un isolato e l’altro, le sagome improbabili delle chiese metodiste, battiste, la casa dei Testimoni di Geova e, a pochi passi da me, anche un anonimo centro massonico. Tutto immerso nella più assoluta tranquillità, garantita da qualche cittadino particolarmente solerte, a capo delle ronde del vicinato, organizzate per tenere alla larga personalità sospette. Garanzia che fa automaticamente di me, in qualità di unica persona in città a muoversi a piedi, spiando senza pudore in ogni casupola di legno per strada, uno degli individui più sospetti in circolazione.

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Uscire di casa, scegliere una direzione, continuare a camminare fino al limite ultimo della freeway, è stato il mio antidoto contro la malinconia del viaggiatore, che mi è stata servita di sorpresa, una mattina, insieme a una tazza di caffè americano. Una sensazione che pensavo d’aver dimenticato. E invece, quando si viaggia da soli, come scriveva Maria Perosino, ci si espone al rischio di guardarsi allo specchio e chiedersi il senso di queste intossicazioni da solitudine, il perché della lontananza. E, se non si è Chatwin, le risposte rischiano di diventare imbarazzanti.

Ho sperimentato ancora una volta, sotto il sole di Los Angeles, che alla distanza e agli arrivederci non ci si abitua mai, che fanno male sempre allo stesso modo, che possono mandare in confusione e prendere strane direzioni.

Allora ho preso fiato, mi sono guardata intorno e ho fatto quello che so fare meglio: fingermi una del posto, mescolarmi tra gli altri, parlare con gli sconosciuti, con una disinvoltura che non m’appartiene e che mi costa non pochi sforzi. Come suggeriva Albert Camus, mi sono seduta al bancone di un bar e ho ordinato un caffè.

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Sono andata a comprare la verdura, il formaggio, le marmellate e i saponi fatti in casa al mercato settimanale del venerdì sera. Ho seguito una lezione di yoga e la moglie di Scott, l’insegnante coreano, mi ha coinvolta in una lettura magnetica dell’aura. Ho conosciuto il proprietario della fumetteria del quartiere e la cartomante della città, che mi ha ricevuta in uno stanzino ricoperto di moquette, tra vergini in lacrime e cristalli, con la statua di Gesù alle sue spalle, che stringeva tra le dita di gesso una banconota da venti dollari. Ho la tessera della biblioteca cittadina. Ho preso la bicicletta e sono andata a fare un giro al Memorial Park di Duarte e ho scorto un coyote che s’aggirava tra le lapidi, puntando gli scoiattoli. Sono andata a bere una birra artigianale a Highland Park con Danny, originario della Virginia, che mi ha raccontato come a Los Angeles si respiri il profumo dei sogni spezzati e delle ambizioni fallite. Ho trovato il mio caffè preferito e il sushi take-away di fiducia. Ho mangiato un grilled cheese al drive-through di In&Out, il fast food dove si ordina, si paga e volendo si consuma esclusivamente in auto, come Kevin Spacey in American Beauty. Ho il frigo insolitamente pieno e c’è dentro anche un cartone di pizza, come nei telefilm.

La sera, mi addormento sfinita a mezzanotte. Forse sono le nove ore di fuso, che ancora non ho recuperato, o forse il mettere a fuoco lentamente il perché delle cose. L’inizio di una vita diversa dall’altra parte del mondo. O forse sono solo stanca, di quella stanchezza piena e senza punti interrogativi, dove chiudi gli occhi e, a volte, non fai nemmeno in tempo a spegnere la luce.

E poi oggi è anche venerdì, mezzanotte è passata da un’ora e mi sono ripromessa di tenere fede a un unico buono proposito. Per questo fine settimana, come scriveva Salinger, “cerchiamo semplicemente di divertirci. Cioè, per una volta, se possibile, vediamo di non analizzare tutto fino alla pazzia, nemmeno me”.

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Images © Adrian Tomine

Soundtrack: Cigarettes After Sex, Nothing’s Gonna Hurt You Baby

Video Killed the Radio Star: Italiani a Parigi

Poco meno di due mesi fa, Luciana Mella, di Radio Colonia, emittente italiana di base in Germania, mi ha telefonato per farmi qualche domanda sulla vita dei giovani italiani in Francia, precisamente a Parigi. Mi ha trovata nell’unica settimana francese della mia estate, trascorsa, per il resto, interamente in Italia, tra il Veneto e Lecce, anzi quel non-luogo alla periferia della città che è l’ospedale di Lecce (ma questa è un’altra storia).

Ero a casa, l’appartamento per due bipedi e due felini che abbiamo trovato a maggio e che lasceremo a novembre, stavo per finire un articolo e aspettavo la telefonata. Luciana mi ha chiesto qualche informazione generale, sulla routine di un’italiana a Parigi, le difficoltà principali nel trovare un tetto e un lavoro, le reti di solidarietà tra italiani all’estero, e l’intervista si è conclusa dopo pochi minuti. E io dopo pochi giorni sono partita per l’Italia, ritrovandomi faccia a faccia con tutto quello che avevo lasciato da parte, con un passato che avevo spensieratamente dimenticato e che mi è ripiombato addosso senza avvertire (ma anche questa è un’altra storia).

Ripensando alla telefonata con Luciana, avrei voluto parlarle di più di Parigi vista dagli occhi di chi, pur da straniero, è diventato ormai un locale, di come la città si stia inchinando al turismo, prendendo le forme di un gigantesco parco giochi per macchine fotografiche eccitate e gruppi di pensionati d’assalto. Di come paradossalmente, l’ultima volta che mi sono spinta nella Rive Gauche, nella vecchia Parigi che si srotola sulla Senna, con le sue strade tortuose, che vivono in silenzio, nascoste dal delirio di Notre-Dame, tutto mi sia sembrato più naturale, persino più vero, della miriade di enoteche, caffè e boutique sul Canale, che fanno a gara per sembrare di essere appena usciti da Brooklyn o Berlino. Avrei voluto dirle di come tutto si stia facendo troppo esclusivo, troppo unico, per poter essere anche divertente.

Ma non c’era molto tempo. E quindi, prima le cose serie, casa e lavoro, due parole in grado di far scendere i brividi lungo la schiena a ogni straniero a Parigi. Si è chiacchierato un po’ di casupole al sesto piano senza ascensore a 1600 euro al mese, di dossier simili a una candidatura per la NASA per poter supplicare i proprietari di lasciarti in affitto il loro monolocale di pochi metri quadri (mai a meno di 800 euro al mese), di visite per la casa simili a colloqui di lavoro…insomma tutta robaccia che i residenti nella Ville Lumière conoscono, ahimè, fin troppo bene.

E poi di lavoro, di come la maggior parte delle volte sia necessario fare un passo indietro, ripartire da uno stage, da un corso universitario per poter accedere al mondo professionale, e di come, tra i tanti italiani, anche over 30, sbarcati nella capitale, sia forte e contagiosa la voglia di rimettersi in gioco, di darsi un’altra possibilità, di ricominciare e trovare qualcosa di più affine ai propri studi e centri d’interesse, mettendosi alla pari con una popolazione di autoctoni che a 23 anni hanno già posizioni senior, si presentano come liberi professionisti già avviati e sanno già quello che vogliono dalla vita, senza il minimo tentennamento.

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waiting for you to come home © Witchoria

Mi sono interrogata a lungo su cosa volessi fare il prossimo anno, su quale città avrei scelto come sfondo e alla fine mi sono decisa a tornare a Parigi, promettendomi di lasciarla un po’ più spesso e di viaggiare più di frequente, rispetto allo scorso catastrofico anno, che mi ha distrutto nervi, corpo e spirito. Avevo detto a Luciana che, probabilmente, sarei tornata a Parigi dopo la parentesi estiva, ma all’epoca non ne ero ancora convinta. Oggi ho acquistato il volo di ritorno per la Francia e sono (quasi) sicura di volerci tornare, malgrado tutto, nonostante la fauna umana, gli affitti da capogiro, lo scontro quotidiano.

Torno, un po’ perché il ritorno a casa, da un po’ di anni, per me significa arrivare a Parigi-Beauvais, insieme ai meridionali che saltano la fila e che battono le mani al momento dell’atterraggio, un po’ perché sono ancora convinta che le cose e le persone che hanno lo stesso odore devono stare insieme, perché l’euforia è rarissima, ma quando c’è è assoluta, infinita, travolgente, perché inizio a soffrire di nostalgia anche per le strade più anonime e gli angoli più trascurati. E poi perché, in tempi in cui è necessario cambiare prospettiva, Parigi quest’anno mi ha offerto un punto di vista nuovo da cui guardare il mondo e io non vedo l’ora di cominciare.

Qui il link al servizio di Luciana.

Dedicato all’amico di famiglia che, durante una delle poche giornate di mare quest’estate, mi ha apostrofato così: “e tu a Parigi stai ancora? va bene dai, se ti vuoi divertire un altro po’ prima di sistemarti…”.

Soundtrack: All Ears, The Whitest Boy Alive

Credits photo © Witchoria

Ritratto del giornalista da giovane

“Ho vissuto nello stesso appartamento per 25 anni e sono consapevole che sono stata in grado di vivere della mia scrittura, sin da giovane, in parte grazie a un affitto moderato. Pagavo poche centinaia di dollari al mese e, se avessi dovuto pagarne anche 200 o 300 in più, avrei avuto bisogno di un lavoro regolare. Avrei dovuto relegare la scrittura al tempo libero o avrei dovuto avere dei coinquilini. Le mie circostanze, invece, erano ideali per fare di me una giovane autrice culturale. Gli autori che vivono adesso i loro vent’anni o anche trent’anni non hanno la stessa fortuna”.

A scrivere è Rebecca Solnit, autrice californiana, classe 1961, residente a San Francisco. Penna eclettica, che ha scritto di arte, economia, politica, antropologia, con pagine che vanno dall’attivismo ambientale contro gli esperimenti nucleari nel deserto del Nevada al ruolo del fotografo inglese Eadweard Muybridge nella cultura contemporanea. È lei a firmare il libro “A Field Guide to Getting Lost”, una guida al perdersi, in tutte le sue accezioni, dove, in un capitolo meravigliosamente intitolato “The Blue of Distance”, analizza il legame tra il colore blu e le distanza, nel tempo e nello spazio, passando dal blu di Yves Klein ai Nativi Americani ai nomadi, quelli veri, che non vagabondano senza meta ma hanno rotte ben precise.

Solnit è il mio autore feticcio da un po’ di tempo a questa parte. Come si definisce lei stessa, è una scrittrice indipendente dal 1988 e, sul suo blog, lascia ai suoi lettori un indizio per immaginare dove nascono le sue storie: una foto del suo studio.

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Definirsi “scrittrice indipendente”, poterlo fare da una finestra affacciata sull’Oceano Pacifico, potersi guadagnare da vivere scrivendo e donando se stessi nella scrittura, sono privilegi che Solnit riconosce consapevolmente di avere. Fosse vissuta in un’altra epoca, o forse semplicemente altrove, probabilmente non sarebbe andata così.

In questi giorni di malattia, di vita domestica coatta, ho scritto a una velocità di due articoli al giorno. Dal mio studio, che non si affaccia sull’oceano ma sulle cime verdeggianti del Père Lachaise, ho mandato mail in tutta Europa per articoli a venire, per prendere contatti, per avere informazioni, dettagli, conferme. Ho proposto nuove idee, ho discusso l’angolo degli articoli da scrivere, ho risposto a deadline urgenti per “stare sul pezzo”. Ecco, se solo potessi farlo tutti i giorni, se solo fossi pagata degnamente, se solo vivessi in un mondo non necessariamente ideale, ma giusto, semplicemente, non avrei bisogno di togliermi lo smalto colorato, infilarmi tacchi alti e tailleur e andare a distribuire badge e formulari ai convegni. Non avrei bisogno di vendere sciarpe, gioielli e bijou alla clientela snob del Marais. Non avrei avuto bisogno di indossare un grembiule verde fluorescente e servire pizze e pasta scotta alla periferia di Parigi.

Sì, è vero. Quando non c’è lavoro, ci si adatta e si fa il possibile. Ma il problema è proprio questo. Io un lavoro ce l’ho. Lavoro, dalla mattina a sera. E ne ho talmente tanto che si accumula, sulla scrivania, piena di libri iniziati e appunti, sul desktop del computer, sulla casella di posta, con le mail a cui faccio fatica a rispondere. Quando leggo, lavoro. Quando vado in giro per la città a raccogliere spunti, lavoro. Quando passo il giorno e la notte a scrivere, correggere, verificare, limare, lavoro. Io un lavoro ce l’ho. Ma non sono pagata per farlo.

Viviamo giorni strani. Tra un centinaio di anni, agli occhi delle generazioni future, verremo ricordati come quelli che, da un giorno all’altro, non sono più stati retribuiti. L’Italia (e non solo) sarà descritta come il paese in cui, all’improvviso, è stato deciso che certi lavori, pur continuando a essere richiesti, non saranno più pagati. Chi scrive non è pagato. Chi scatta fotografie non è pagato. Potrei continuare elencando almeno un’altra decina di mestieri scomparsi. Le professioni sono state divise in lavori di serie A (soprattutto manuali o estremamente tecnici, ci serve assolutamente una persona, stipendio superiore al salario minimo e giorni di ferie assicurati) e serie B (puro lavoro intellettuale e creativo, di cui si può fare a meno o se proprio lo vuoi fare fallo, ma non ti aspettare grandi cose…). E parlo soprattutto dell’Italia non per infierire, non per lodare le altre nazioni europee. Semplicemente perché è il paese con cui ancora continuo a lavorare per la maggior parte del tempo, e in cui noto, ahimè, una certa attitudine, un certo dare per scontato che “tanto non ti paghiamo”, la sicurezza, mentre si scrive una mail, di non avere una risposta, e in ultimo una certa idea di “selezione per nuova gente” che si traduce in: mandateci dati completi, cv e lettera di motivazione via mail, tanto non vi rispondiamo neanche per dirvi che ci fate schifo ma vi sommergiamo di spam e pubblicità.

Mi sono ritrovata a vivere in un’epoca in cui la scrittura raramente valica i confini dell’hobby, del tempo libero, nell’epoca in cui si sono diffusi sinonimi di compenso che suonano come “visibilità”, “contatti”, “passaparola”. Mi sono ritrovata a lavorare in un periodo in cui, nel migliore dei casi, per un pezzo di 8.000 battute sarò retribuita con 30 euro lordi (vale a dire 24 euro che arrivano sul conto corrente dopo 90 giorni). Di tutto questo, ne sono ben consapevole, si parla da anni. Non sono la prima a essermi svegliata e scoprire che, come si diceva in un vecchio articolo, questo non è un paese per giornalisti. Ho attraversato alti e bassi. Momenti di rigetto al solo avvicinarmi alla tastiera di un computer. Poi periodi di gloria in cui macinavo una decina di articoli a settimana. Per poco più di un mese, ho deciso di dire basta. E, quando ho iniziato a lavorare in un ristorante, e con le sole mance riuscivo a vivere degnamente (affitto escluso, ovviamente), ho sinceramente pensato di appendere penna e taccuino al chiodo. Poi ho iniziato a fare la hostess e sono passata da un’agenzia all’altra con una facilità che potrebbe, da sola, sollevare il tasso di mobilità giovanile in Europa. Sui saloni, le hostess più navigate mi presentavano ai loro datori di lavoro per nuove funzioni, lodando il mio savoir faire. Ho scoperto in pochi giorni di saper infilare i badge nelle fodere di plastica con uno stile invidiabile. Riempio i moduli alla velocità giusta, non troppo lentamente per non far annoiare il cliente, non troppo velocemente per non fargli credere di essere liquidato. Ho un sorriso che accoglie ma non invade. Un modo di fare competente ma non arrogante. Una lunga carriera potrebbe aprirsi di fronte a me.

Ma scrivere mi manca. E non è il solo atto di comporre periodi gradevoli, per quello c’è il blog. Ma è il contatto con le redazioni, il discutere del taglio di un articolo, il recarsi sul posto, il conoscere nuove persone, fare entrare in contatto il loro mondo con il mio, il momento della pubblicazione, le reazioni, il confronto. Ecco perché penso che la cosa peggiore che si possa dire a un giovane giornalista che cerca di farcela è “Se non ti pagano che scrivi a fare?”. Sul blog di un quotidiano più o meno conosciuto dove ho il piacere di scrivere, commenti di siffatta lega si sprecano. I blogger non sono pagati e vengono accusati di narcisismo. Ipocriti che vogliono combattere un sistema, ma poi fanno di tutto per sguazzarci dentro. Ecco, avete ragione. Vorrei tanto che il sistema fosse diverso, vorrei essere pagata onestamente per quello che faccio, ma non voglio tagliarmi fuori, non voglio rinunciare a farne parte. So che il massimo che una redazione possa darmi in questo momento (i 30 euro lordi di cui sopra) comunque non mi aiuteranno a pagare neanche i croccantini dei gatti. Ecco perché ho deciso di continuare. Per quel che mi riguarda, smettere di scrivere sarebbe cedere a un ricatto ancora più grave.

Sylvia Plath, sui suoi diari, scriveva “Voglio scrivere perché ho bisogno di eccellere in uno dei mezzi di interpretazione della vita”. Con le dovute differenze, è un po’ come mi sento anche io. Scrivo, nella speranza che un giorno possa diventare il mio lavoro a tempo pieno. Di riuscire, prima o poi, a liberarmi dalla tirannia dei clic e del “mi raccomando, non più di 5.000 battute altrimenti i lettori on-line si rompono le palle”, dei “non essere troppo didattica” e “usa parole più facili”. Lo farò finché avrò l’energia di scrivere nei ritagli di tempo e nelle giornate libere. Quando mi stancherò, chiuderò per sempre e abbandonerò ogni velleità. Un lavoro fuori, di quelli di serie A, lo troverò sicuramente.

 

Of getting lost

field_guide“I love going out of my way, beyond what I know, and finding my way back a few extra miles, by another trail, with a compass that argues with a map, with strangers’ contrary anecdotal directions. Nights alone in motels in remote western towns where I am, nights with the strange paintings and floral spreads and cable television that furnish a reprieve from my own biography, when in Benjamin’s terms I have lost myself though I know where I am. Moments when I say to myself as feet or car clear a crest or round a bend, I have never seen this place before. Times when some architectural detail or vista has escaped me these many years says to me that I never did know where I was, even when I was home. Stories that make the familiar strange again, like those that revealed the lost landscapes, lost cemeteries, lost species around my home. Conversations that make everything around them disappear. Dreams that I forget until I realize they have colored everything I felt and did that day. Getting lost like that seems like the beginning of finding your way or finding another way, though there are other ways of being lost.”

“Never to get lost is not to live, not to know how to get lost brings you to destruction, and somewhere in the terra incognita in between lies a life of discovery.”

“The people thrown into other cultures go through something of the anguish of the butterflies, whose body must disintegrate and reform more than once in its life cycle.”

“[…] the places are what remain, are what you can possess, are what is immortal. They become the tangible landscape of memory, the places that made you, and in some way you too become them. They are what you can possess and what in the end possesses you.”

“I wondered then and now how I could give all this up for what cities and people have to offer, for it ought to be less terrible to be lonely than to have stepped out of this sense of a symbolic order that the world of animals and celestial light offers, but writing is lonely enough, a confession to which there will be no immediate or commensurate answer, an opening statement in a conversation that falls silent or takes place long afterward without the author. But the best writing appears like those animals, sudden, self-possessed, telling everything and nothing, words approaching wordlessness. Maybe writing is its own desert, its own wilderness.”

“It’s okay to realize that life has a mysterious quality to it, it has an element of uncertainty, it’s okay to realize that we do need help. that calling out for help is a very generous act because it allow others to help us and it allows us to be helped. Sometimes we’re offering help, and then this hostile world becomes a very different place.”

Rebecca SolnitA field guide to getting lost

Some other worthy readings: On a windy night I follow Yves into the void.