Tornare

Ci sono libri, e storie, che stanno là, in uno scaffale della libreria, in un angolo del soggiorno. Sai di cosa parlano, ti sembra quasi di averle già lette, perché sono opere conosciute, il momento di prenderle in mano viene sempre rimandato. Poi, arriva anche il loro turno e, per una strana forma di serendipità o di corrispondenza con le ere della tua vita, quasi sempre il momento è quello giusto.

Così, a un mese dalla nostra partenza, tra valigie da fare, documenti e preparativi, quell’algoritmo analogico che è la letteratura, che da un libro conduce a un altro, senza soluzione di continuità, mi ha messo tra le mani “Revolutionary Road” di Richard Yates, acquistato d’istinto in quel luogo mitico che è la libreria I volatori a Nardò e terminato proprio ieri.

“Capolavoro ineguagliato”, come viene definito dalla critica, da cui Sam Mendes ha tratto un film apprezzato e di successo con Kate Winslet e Leonardo Di Caprio. La storia, in poche righe, è questa: siamo nel 1955 e i Wheeler, una giovane coppia con figli, sentendosi intrappolata nel quotidiano di una periferia nel Connecticut, a qualche miglio di treno da New York, prende la decisione di ritornare a sentire l’ebbrezza della vita trasferendosi a Parigi. L’esistenza, il logorante e incessante chiedere della quotidianità, li riacciuffa e, piccolo spoiler, non va a finire bene.

“Non possiamo continuare a fingere che è la vita che volevamo…avevamo dei progetti, tu avevi dei progetti… guarda noi due, siamo cascati nella stessa ridicola illusione… l’idea che devi ritirarti dalla vita, sistemarti nel momento in cui hai dei figli…era una bugia”, dice April Wheeler, “Per anni ho pensato che noi condividessimo un segreto: che noi due saremmo stati meravigliosi nel mondo”.

In questa girandola di personaggi tesi a mantenere uno status quo invidiabile, solo John Givings, matematico e figlio dell’agente immobiliare, un cinquantenne che ha subito 37 elettro-shock e vive internato nella clinica di Greenacres, intuisce e sente risuonare nelle corde del cuore il desiderio di cambiamento dei Wheeler: “Il vuoto disperato… Ora l’ha detto, molte persone sono coscienti del vuoto ma ci vuole un gran fegato per vedere la disperazione”.

Quanto questo libro abbia avuto un’eco in questo mese di preparativi è facile capire. I compromessi della vita a due, l’idea di avere sempre e solo rinunciato a qualcosa da qualche anno a questa parte, la sensazione che Parigi, in un certo qual modo, avrebbe rimesso tutto a posto. E, d’altro canto, il conforto delle piccole abitudini, delle distanze che si riducono, del sentirsi al riparo da un’incontrollabile idea di mondo che se ne va per conto suo, mentre ci lascia qui.

Si può avere le farfalle nella pancia prima di incontrare una città? Si possono avere i brividi al pensiero di prendere un treno metropolitano? Avere le mani che tremano facendo un check-in?

L’ultima volta che ho messo piede in Francia è stato nel mondo di prima. Appena prima dello scoppio della pandemia, negli ultimi mesi del 2019. Un mese di giugno caldissimo, una gravidanza appena sbocciata, il pensiero che sarebbe stato solo un arrivederci, che ci saremmo visti regolarmente, come ci si dice tra vecchi amici che stanno solo cambiando quartiere. “Ci sentiamo”, “poi ci aggiorniamo”, “alla prossima”.

La prossima volta non c’è stata. La nascita di due bambini, un mondo stravolto da un virus, cambi di lavoro, case e prospettive, e un’insolita paura, di quelle che non provavamo da tanto tempo, a prendere un biglietto aereo. “Adesso non è il momento”, “con loro come facciamo?”, “e se succede qualcosa?”. Nel frattempo, la ricerca spasmodica di una casa, letterale e metaforica, di un luogo dove sentirsi protetti e al sicuro. Il tentativo, ogni giorno da ricominciare, di rimettere tutto in piedi, in equilibrio, di avanzare, fosse anche di un passo solo. Una sosta doverosa per dirsi che di strada ne era stata fatta tanta, che ci si poteva sedere e respirare un po’, e ricordarsi che “fermarsi è correre ancora di più”.

E poi, un giorno, in una primavera piovosa come quella di quest’anno, ci siamo decisi a prendere un volo, a regalarci quello che per noi significa davvero un ritorno a casa.

Qualche giorno fa una persona mi ha detto: “Vedrai che i luoghi ti saluteranno come dei vecchi amici”. Ho pensato che rimettere piedi a Parigi sarebbe stato come sentirsi dire un “come va?” da una vecchia conoscenza. Una di quelle domande che vogliono dire tante cose. Che vogliono dire, se hai voglia, mi puoi raccontare tutto, o niente. Come sono andati questi anni? Hai trovato quello che cercavi? Quanto hai perso alle scommesse? Quanti progetti infranti? E quanti e quali incendi hanno preso fuoco dalle ceneri? Quante medaglie? Quanti silenzi?

Poi i francesi, quando dicono “ça va?”, raramente vogliono sapere davvero come stai. È una delle prime cose che s’impara mettendo piede in Francia: a rispondere con un altrettanto “ça va, et toi?” e a chiudere i convenevoli, senza approfondire.

A domani, Paris. Qui non vediamo l’ora.

Foto di copertina: “View from Notre-Dame”
Paris, 1955.
Ernst Haas

Incendiare il buio

È stato, questo, un anno di nascite. Di chiusure del cerchio. Di epifanie e ritrovamenti. Di voglia di restare in compagnia di quanto si ha e di quanto si ha avuto, di fermarsi a mettere un punto. L’uscita di “Incendiare il buio” per le edizioni indipendenti Collettiva è per me la fine importante di un capitolo. Quella che mi sembra un’era, fatta di letture, di scavo, di studio, di ricerca, di confronto con voci femminili, con testi di donne, teorie femministe, storia italiana, europea e mondiale. Quando ho iniziato a scrivere ero a Parigi, mamma inesperta di un primo bimbo. A mettere la parola fine, sicuramente, è stata un’altra persona. Oggi, queste pagine, che hanno vissuto metamorfosi e trasformazioni, proprio come me, sono pronte per andare per la propria strada e io a imboccarne una nuova.

Qui un estratto.

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Il “manzano”

I primi giorni di gennaio non sono solo l’inizio del nuovo anno in casa nostra. Si celebrano altre ricorrenze, altri giri di boa. Cose lasciate andare con incertezza e smarrimento, come la nostra vita di Parigi, il nostro rifugio nel cuore del mondo eppure lontano da tutti, la libertà e l’anonimato che solo la grande città può regalare.

Il profumo della casa di mia nonna, andata via il 2 gennaio, quell’inverno che c’è stata la neve, con gli aerei bloccati a terra, le strade una terra di nessuno, io nella mia stanzetta di adolescente, con un bimbo di sei mesi accanto e i fuochi d’artificio del Capodanno scoppiati tra le lacrime. La casa di mia nonna, un odore che mai più risentirò, come la sua voce, i suoi proverbi allegri, i suoi scoppi di risa, i trebuchi nel cassetto e i quadri pesanti del salotto.

I primi giorni di gennaio degli scorsi anni sono stati per noi anche l’inizio di nuovi cammini professionali, incontri fertili e tanto tantissimo studio, strade di cui oggi finalmente intuiamo l’arrivo. Cerchi che si chiudono, e che si riaprono più grandi, con un respiro più ampio, regalandoci spazio e tempo, per fare progetti, immaginare, costruire, non essere schiavi di nessuno. Nemmeno del proprio talento. Mai più.

Il due gennaio a casa nostra si festeggia anche e soprattutto la nascita di André, il nostro secondo bimbo, la seconda deflagrazione della nostra vita familiare. André, tre primavere oggi, e già fratello maggiore. Da quest’anno, sei tu il “manzano” di casa, con tutta la pesantissima eredità dei secondi figli sulle spalle. La felpa che indossi in questi giorni, con la scritta “Emile” sul petto, la dice lunga.

André, cocco di mamma, occhi di bosco e testa di grano. La tua nascita mi ha restituita al mondo come mamma. Prima mi muovevo nell’incertezza, con il piede in bilico tra due esistenze, come se fosse possibile tornare indietro. Dal tuo arrivo, mi sono sentita immersa nella maternità, con uno potevo farcela, ma con due no. Niente sarebbe più stato come prima e infatti non lo è ancora. Le sfide più difficili sono quelle che ho vissuto dentro le mura di casa e le battaglie più logoranti quelle combattute per ritrovare me stessa, anche se con le mani sempre occupate a stringere dita piccoline.

André cuor di leone, che non ha paura di niente. Appassionato di ragni grandi, lupi neri, altezze vertiginose, e di ogni cosa che fa spavento. È con te che sono riuscita a pronunciare quel “no, adesso basta”, che mi aspettava da anni. È con te che non mi sono più guardata indietro ma solo avanti, per la mia strada, che era diventata la nostra. Con te ho smesso di cercare e ho iniziato finalmente a trovare.

Per il tuo compleanno, oggi che il tempo solo per te spesso non c’è, la mamma ti augura la gioia impigliata sempre nelle tue ciglia lunghe, la curiosità delle tue manine, l’abbraccio forte di tuo fratello più grande e i bacini acerbi della tua sorellina, l’amore fortissimo che abbiamo tutti per te.

Image: Julie Morstad

Soundtrack: This night has opened my eyes, The Smiths

Feste comandate

Era una mattina fredda di gennaio, quando abbiamo salutato una vita e, salendo su un aereo, non ci siamo più girati indietro. Parigi, in questi anni, è tornata a farci visita tante volte, nelle coincidenze, nei sogni, nei desideri, nei ricordi. Noi, complici una pandemia e numerose rivoluzioni personali, mai.

Difficile resta sempre mettere a fuoco la mancanza, l’assenza. Solo di recente ho realizzato che quello che mi manca di più di Parigi ha a che fare con la parola grandezza e la parola infinito, con l’orizzonte, con le possibilità, con il salto nel buio, il mio sport preferito per almeno una decina di anni.

In questi tre anni ho fatto i conti con le mie scelte e con le mie direzioni. Con il cambiamento che mi ha portato dal voler possedere il mondo nel palmo di una mano a vedere la casa della mia infanzia dalla finestra. Ho chiuso i cerchi, ho unito i puntini, anche se il disegno, talvolta, è rimasto impreciso, il tratto incerto, la matita meno sicura.

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Quattro candeline

Quattro anni fa, sei nato tu, in una notte di pioggia forte in un cielo di Francia. E sono nata anche io. Abissi si sono svelati, e un universo è venuto fuori, raccontandomi di contrade inesplorate, di umani che sbagliano, di un amore troppo forte per essere perfetto. La tua vita è la mia nostalgia di Parigi, è il mio aggrapparmi con le unghie e con i denti all’infanzia, siamo io e il tuo papà che ti regaliamo un pezzo di noi, sono le fiabe della pioggia, sono i brividi sulle braccia quando mettiamo i piedi nell’acqua il primo giorno d’estate.

Abbiamo attraversato insieme il paese dei mostri selvaggi, la foresta di Riccioli d’Oro, un oceano, le strade di una capitale europea, i corridoi di un aeroporto, le corsie di un ospedale, le notti più irte e le giornate uggiose, sempre mano nella mano. Tu, primo amore e compagno di giochi, mi hai insegnato come fare le cose una alla volta, ad avere sempre fiducia nel giorno che comincia, a rimboccarmi le maniche anche quando sono stanca, a sentirmi all’altezza di accompagnarti.

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Il sogno dell’invisibilità

Italo Calvino diceva di risiedere a Parigi come se fosse la sua casa di campagna, avendo conservato i principali interessi di lavoro tutti in Italia. I lunghi viali, l’umanità della metropolitana, i quartieri impregnati di se stessi, erano come campane di vetro, nelle quali si sentiva protetto, vivendo perennemente nel sogno dell’invisibilità, un miraggio che aveva realizzato con il suo cavaliere inesistente, voce e spirito tenuti su da una lucida armatura vuota.

Mi capita spesso di avvertire il bisogno di rileggere Calvino, ma soprattutto di riascoltarlo in un vecchio reportage televisivo, in cui si descriveva come un uomo invisibile, circondato da una metropoli indifferente, e per questo amica, “eremita a Parigi”, per ricordare il titolo di uno dei suoi libri. Mi succede soprattutto adesso, in questi mesi di transizione, in cui una nuova vita mi è esplosa tra le mani e non riesco ancora a maneggiarla bene.

Forse perché anche io vivevo a Parigi protetta dal mondo esterno, in una geografia che ormai possedevo nel pugno della mano, grazie alla metropolitana, straordinario labirinto sotto terra, con le cartine della città inutilizzate nei cassetti, in una lingua che mi faceva da strumento e da corazza, con una burocrazia che non riusciva più a mettermi i bastoni tra le ruote. Una latitudine che vivevo come se fosse la mia dimensione domestica, aggirandomi tra parchi, ludoteche e asili, tra teatri e musei, finendo la giornata a raccontare fiabe dentro una tenda da indiano.

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L’avvento

“Il luogo ideale per me è quello in cui è più naturale vivere da straniero”. Lo scriveva Italo Calvino, come una professione di fede, una vocazione all’alterità che lo condusse, oltre a perdersi nei meandri della letteratura e nei tanti e verdeggianti sentieri dei boschi narrativi, anche tra le strade di Parigi, città che lo accolse nel suo spleen e che elesse a seconda patria.

A pochi giorni dalla mia partenza dalla Francia, che coincide fortuitamente con la fine dell’anno, mi risparmio i bilanci, le liste, le cose fatte e i desideri ancora da realizzare. Metto in un cassetto i biglietti della metropolitana, l’abbonamento ai mezzi, la cartina della città, ormai inutilizzata da anni. Lascio da parte la voglia di camminare, disperdendomi in inevitabili compiti burocratici, il lavorio quotidiano, gli armadi da svuotare, le ultime lettere da inviare. Occupo la mente, costruisco piste di treni e torri altissime, racconto storie su mondi inventati, sforno torte alla cannella e soffio sulle bolle di sapone.

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Lo scontro quotidiano

Ormai una decina d’anni fa, scrissi il mio primo post su un blog. “Il vento cattivo” non era ancora nato, ma al suo posto c’era “Lo scontro quotidiano“, uno spazio tutto dedicato ai fumetti o, come si chiamano adesso, alle graphic novel, nato durante i primi mesi a Parigi, dove le librerie dedicate ai comics sono un universo a parte e molti fumetti si trovano nel reparto letteratura.

Il titolo è la traduzione di una storia su quattro tomi di Manu Larcenet, ormai illustre fumettista francese, che nel suo “scontro” racconta un tormento personale, quello di Marco, ex reporter di guerra assediato dall’angoscia e dagli attacchi di panico, ma anche il rimosso e il travaglio di un paese in cui sta rifacendo capolino l’oscurantismo di Le Pen e non tanto antichi principi nazionalisti. La versione originale, “Le combat ordinaire”, forse rende ancora di più il senso di quello che mi sembra di vivere in questi giorni. Una lotta che più che quotidiana è ordinaria, normalizzata, necessaria.

Fa freddo. E non solo perché, dopo un’inaspettata lunghissima estate, Parigi è stata spazzata via da raffiche di freddo glaciale. Non solo perché in Italia i paesini del Salento cadono a pezzi sotto i nubifragi e le alluvioni. Fa freddo, dentro. Nelle ossa. Nella testa. Anche qui nel mio appartamento in città, dove il puntuale ed efficace riscaldamento automatico è già in moto dai primi di ottobre.

fuocoartificio

Tra i miei buoni propositi d’autunno, c’era quello di ritrovare una certa empatia che pensavo aver perso. I come e i perché li racconterò in un’altra storia, ma i risultati non si sono fatti aspettare. Sento su di me anche la solitudine dei sassi. Non so se è un bene ma a volte mi sembra di percepire la rotazione della terra. Mi sento sulle spalle tutta l’ingiustizia del mondo. Quando mi affaccio metaforicamente dalla mia finestra, guardo le informazioni, assisto all’ennesimo episodio di violenza, mi sento coinvolta, ferita. Soffro regolarmente di insonnia, non capisco più in che direzione va questo pianeta. E io con lui.

Qualche tempo fa lessi un articolo di Marina Petrillo, sul suo bel blog Alaska. Il titolo è Il Grande Rancore. Proverò a riassumerne qualche concetto, ma vale la pena prendere cinque minuti per leggerlo e sentirsi meno soli nel mondo. Qui uno stralcio:

Un giorno mi sono svegliata e il rancoroso era ovunque. È al bar, è sul tram, e non c’è inibizione sociale o principio di educazione civica che lo trattenga. Gli piace l’ordine ma non si ferma sulle strisce pedonali, è il commentatore seriale pieno d’odio e frustrazione, l’aspirante vigilante di quartiere. Prova un senso di ingiustizia ma non dà mai la colpa ai veri potenti – che invece invidia e cerca di imitare.

Il rancoroso – come la signora con le perle al collo e gli ori alle dita che sul tram ho sentito pronunciare il fatidico “vengono qui a rubarci il lavoro” – è raramente un vero spodestato, ma più spesso un deluso; ha perso del tutto contezza dei propri piccoli privilegi ed è convinto di essere assediato da qualcun altro – il senzatetto, il “negro”, il forestiero, per non parlare dei “rompipalle che li difendono”.

Il desiderio d’ordine del rancoroso è uno specchio del disordine che percepisce dentro di sé. Il rancoroso confonde i diritti con la capacità di consumo, percepisce chiaramente che c’è qualcosa che non va, che gli hanno venduto una fregatura (il televisore gigante, il Suv, il figlio all’università, la villetta con le telecamere, il rottweiler, la fabbrichetta, le tasse, il centro commerciale, la mentalità vincente, il lifting, e in genere il comprare come protezione da ogni cosa), ma non sapendo con chi prendersela – e annaspando in cerca di un mondo che in realtà non è mai esistito – nel dubbio se la prende con te.

Petrillo parla del fenomeno dell’erosione della cultura, descrivendone in poche righe i tratti comuni, tracciandone l’evoluzione (o involuzione) sociale e cronologica, che ha portato alla perdita di quello strumento che ci permetteva di collegare i fatti, comprenderne le cause, chiederci il perché delle cose. La cultura, che “tiene insieme memoria e presente” e che ci consente di esprimerci pienamente e nel rispetto di ogni forma vivente. Basta aprire un giornale, mettere un piede su Facebook, leggere malauguratamente qualche scriteriato commento, per rendersi conto di come tutto ciò sia diventato inevitabilmente minoritario.

 

fate

Non solo. Oltre ai conati di rabbia dell’umanità intera, ci sono le tragedie, quelle dell’umano e quelle della natura, a ricordarci, qualora non ce lo fossimo “segnato” da qualche parte, che non siamo imperituri. Che dall’altra parte del mondo, la vita non è un bene di prima necessità.

Mentre cerchiamo di andare avanti con le nostre giornate, ci interpella di continuo la povertà di qualcun altro, la disperazione che spinge ad attraversare il mare anche a prezzo della vita, la vastità dei mondi più poveri del nostro, l’effetto delle scelte dei nostri governi sulla vita di persone in altri paesi, l’abisso dell’ingiustizia sociale, le emergenze climatiche, le iniquità del mercato, l’ansia della competizione, i bambini degli altri, i guai degli altri, gli attentati che colpiscono gli altri.

Per me, l’ultima volta è stata sabato sera, guardando un documentario sulla salute del nostro pianeta, sulla discarica a cielo aperto che è diventato il Bangladesh, sull’inizio della sesta estinzione di massa nell’indifferenza generale. Non ho chiuso occhio per tutta la notte. E di fronte a quello che Petrillo chiama “Il Grande Rancore”, che sia quello dell’umanità o della natura, ho scoperto di non sapere esattamente come reagire. Ho tentato la fuga, con goffe e brevissime evasioni dai social. Ho ceduto anche io alla tentazione dell’attivismo da tastiera, pensando di cambiare il mondo rispondendo a un commento. Spesso, mi sono messa sotto le coperte e ho pianto. Lei ha descritto tutto questo così e io non potrei scriverlo meglio:

ho scoperto che ho un limite. Non posso gestire, elaborare, processare più di una certa quantità di informazioni al giorno – soprattutto se contengono sofferenza, morte, sangue, ingiustizia, sopruso – senza perdere la lucidità, la calma, e in fin dei conti, la capacità di comprenderle e di inserirle in un sistema di collegamenti, senza la quale le informazioni non servono a niente, né a me né agli altri.

Allora, ho eretto anche io le mie protezioni del cuore, quelli che chiamo piccoli atti di resistenza quotidiana, il mio “combat ordinaire”, che, per quanto mi riguarda, avviene soprattutto IRL, ovvero off-line, a schermi spenti. Li ho buttati giù, in una sorta di piano di battaglia, mentre seguivo una lezione poco avvincente sulle tecniche di narrazione del marketing (chi mi conosce sa che sono allergica alle pubblicità, ho tre AdBlock sul computer e nessuna televisione blaterante in casa).

albero

E allora, eccole qui, le mie modeste tattiche di contrattacco, minute, semplici, attuabili anche con poche risorse, con l’ambizioso obiettivo di “restare umani”:

  • abolire il multitasking: per una poderosa dissertazione sul tema rimando al bell’articolo pubblicato su  Soft Revolution, io mi limito a non consultare il telefono quando cammino (salvo emergenza), togliere gli auricolari e smettere di fare altro quando mi chiama un’amica, restando semplicemente ad ascoltare; concentrarmi su quello che dico e faccio, cercare di vivere nel presente
  • parlare con gli sconosciuti: non sono molto dotata per il cosiddetto “small talk”, l’arte della conversazione spicciola, per discettare del tempo in ascensore, ma non ho paura se qualcuno si avvicina a me per strada. Mi fermo e lo ascolto: se posso lo aiuto, se non posso rispondo educatamente e vado avanti. “Mi dispiace, non ho soldi con me” o ancora “sono di fretta, per oggi non posso” sono sempre meglio che tirare avanti, senza neanche girarsi a guardare. L’indifferenza fa sempre male, anche a chi ci è abituato
  • rinunciare all’overdose di notizie: ho selezionato accuratamente newsletter e fonti neutre e affidabili, cerco di informarmi leggendo anche gli articoli, non solo i titoli ed evito di cliccare sulla cascata di post della mia bacheca su fb
  • i commenti sono il MALE: evito di leggerli, di commentare, di rispondere, di reagire con emoticon, li ignoro più che posso, perché aprono uno spaccato umano con cui non riesco a interagire
  • finanziare e sostenere la piccola editoria (sì, sono un po’ di parte ma tant’è): quando ero piccolina, al primo anno di università, pensavo che se non fossi andata a vivere a Parigi, sarei sicuramente andata a Portland. Non so il perché ma ero innamorata dell’idea di questa città sull’oceano nell’Oregon, dall’altra parte del mondo. Ero anche sostenitrice, con le mie modeste finanze, di una rivista locale: stampa radicale e femminista, The Bitch Magazine, detto il titolo, non c’è bisogno di aggiungere altro. Sono tornata tra i suoi lettori, tra i suoi sostenitori, perché in tempi oscuri come questi, c’è bisogno di ascoltare le donne un po’ di più e dare loro voce. Un motivo in più? Articoli interessanti, grafica user-friendly, etica di ferro: di recente hanno anche detto di no a una offerta di sponsor dalla Coca Cola.
  • non seguire più i miei amici: ovvero, ho preso in prestito il trucchetto di una preziosa conoscenza e anche io ho smesso di seguire la maggior parte dei miei contatti su Facebook e… che dire? si vive meglio senza le foto delle vacanze, i post arrabbiati contro il meteo, i video improbabili, le gif, i servizi del matrimonio, gli sproloqui pseudo-politici e i reportage su infelici exploit culinari.
  • avere speranza: un’amica mi ha detto un giorno “a volte l’unico modo per eliminare qualcuno è guardarlo all’opera”. Oggi mi sono svegliata con un fascistoide impazzito eletto in Brasile, che in confronto Trump sembra un gentleman. In Italia, la società va a rotoli, in Francia, la faccia pulita di Macron non è sufficiente per far dimenticare le scelte ultra-liberiste, i tagli alle associazioni d’integrazione sociale, la completa mancanza di provvedimenti sull’ambiente. Forse siamo solo in un periodo nero della storia, viviamo un’alternanza che rientra nell’ordine naturale delle cose, e forse ha il merito di mostrarci concretamente quello che, passati questi lunghissimi e durissimi quattro anni, speriamo non accada più.

Coltivare umanità, lentezza, silenzio, ascoltare prima di rispondere, informarsi prima di parlare. Cercare di fare, e di fare bene. In un libro che ho letto di recente, si diceva che “il bene è contagioso” e, creandone ogni giorno, “magari il mondo si aggiusta un pochettino”. E se fosse davvero così semplice?

Soundtrack: Pink Moon, Nick Drake

Foto: Ellie Davies

Diventare grandi

A Chiara, Mino e Lucia, 

i bambini della spiaggia di Baia Verde

Andare al mare senza farsi il bagno. Cucinare “di più” e congelare le porzioni. Tenere sempre i fazzoletti nella borsa. Avere voglia di legumi. Diventare una di quelle mamme che dicono “se non la smetti ce ne andiamo a casa”. Perdere la fiducia nell’amore. Andare a letto presto la sera. Non so quale azione, esigenza, vizio, mi abbia fatto capire che forse sono diventata grande. M’aspettavo di guardarmi un giorno allo specchio e scoprire che non sono più quella di una volta. O forse sarebbe stata una lucida constatazione, che m’avrebbe impregnato giorno dopo giorno, di una consapevolezza nuova.

Dopo incalcolabili traslochi, tre asili cambiati, lavori che vanno e vengono, ho capito di essere diventata grande quando non ho potuto più sottrarmi all’obbligo della reperibilità. All’obbligo del telefono sempre acceso, tenuto accanto. Un obbligo che è diventata anche una pessima abitudine, o viceversa. Potrebbe chiamare la scuola, o il primo lavoro, o il secondo lavoro, o gli inquilini di casa, o il proprietario dell’altra casa, e poi l’idraulico, l’amministratrice del condominio. E poi i messaggi di quelli a cui hai dimenticato di rispondere, di quelli a cui non hai mandato un cuore o uno smile, di quelli che ti chiedono perché non hai chiesto come stavano. E poi i commenti da moderare, i post da approvare, gli aggiornamenti sugli articoli da inserire in tempo reale. E, in ultimo, il vizio di “controllare” il telefono.

mail

Qualche anno fa me ne andavo per le strade di Milano appesantita solo da uno zainetto sulle spalle. A volte lasciavo di proposito il telefono a casa, per sentirmi più libera e leggera. Anzi, avevo anche accantonato nell’armadio tutte le borse. Avevo solo un cappotto rosso, e nelle tasche una banconota da dieci euro e le chiavi di casa, che cambiavano ogni tre mesi. Ecco, questo è un lusso della gioventù e io penso di averlo perso.

Ho cominciato a sentirmi a mio agio e tranquilla solo nelle prime ore del mattino o nottetempo, quando posso leggere senza essere interrotta, quando sono sicura che il cellulare non squillerà per un messaggio, una richiesta, un’ennesima perdita di tempo. Ho avuto un attimo di vertigine quando ho preso la scheda nuova, un numero sconosciuto al mondo intero, ma sono bastati pochi secondi per capire che le notifiche mi avrebbero trovato in ogni dove. E che io mi sarei lasciata trovare.

E allora ho cominciato ad apprezzare le traversate in macchina, quelle dove a guardarmi c’erano solo i fiori perplessi, attaccati al ciglio di una rotatoria, le gazze ladre appollaiate sui rami abbrustoliti, e la musica alta, altissima, per coprire ogni rumore di fondo e asciugare le lacrime, come quando avevo 18 anni.

Ma soprattutto, il tempo passato al parco o in spiaggia, solo con i bambini, piccole parentesi di pace riservate agli umani non più alti di 1 metro e 50, che mi hanno gentilmente ammesso nei loro fiabeschi circoli di giochi. Ecco i momenti più belli di quest’estate sono stati quelli dove ho guardato il cielo distesa su uno scivolo, quelli passati a svuotare il mare con un secchiello o a fare una buca, quelli trascorsi insieme a Mino e a Chiara sulla spiaggia di Baia Verde, a costruire per tre quarti d’ora la montagna di sabbia più grande del mondo, solo perché la loro sorellina Lucia potesse distruggerla con un calcio in un secondo. I pomeriggi nei parchi desolati della Lecce agostana, con Émile, ad annusare i fiori e accarezzare i cavallucci di metallo ipnotizzati dal caldo. Con il mondo lontano, rinchiuso dentro ad un telefono, a riempirsi di sabbia in una borsa, sotto il sole.

Ho cercato di regalare ai bambini l’unica cosa di cui hanno bisogno, il tempo e l’attenzione, e loro in cambio mi hanno insegnato tanto: che si chiama scivolo, ma oltre che a scivolare, sullo scivolo ci si può arrampicare, giocare a nascondino e anche coricarsi per guardare le stelle; che dire una bugia a un bambino è un peccato mortale; che è buona educazione dire arrivederci alle dita dei piedi prima di infilare i calzini; che “dopo”, “poi”, “tra poco”, “domani” sono parole vere e che “se una cosa la facciamo domani”, domani quella cosa si deve fare. E poi che il tempo è prezioso, ma si può anche passare un’ora a guardare un filo d’erba, o a costruire un castello di sabbia da distruggere in un secondo con un bel calcio. Che se qualcuno ti dice di non gridare, gridando, allora non merita di essere creduto. Che provare a fare le cose da soli, in autonomia, è un diritto, a tutte le età. E soprattutto che se ci si fa tutta la strada legati a un seggiolino per andare al parco, e poi al parco non si può correre, non si può sudare, non ci si può sporcare, non si possono mettere i piedi nelle pozzanghere d’acqua e le mani nella terra, la vita ha talmente poco senso che abbiamo tutto il diritto di pestare i piedi, di urlare e di piangere. E che restare con loro è il modo migliore per non diventare mai grandi.

Acquarelli © Alessandro Sanna

Soundtrack: Una storia del mare, Dimartino feat. Francesco Bianconi

Paris, rue Lepic

È la tortuosa scalata per arrivare a Montmartre, impietoso pendio che scala la collina, dal Moulin Rouge al Sacré-Cœur. Lunga arteria di quella che una volta era la comune di Montmartre, la rue Lepic è una delle strade più percorse in tutto il quartiere, consumata dai turisti che vengono a cercare un briciolo di magia del film di Amélie, dai camion delle consegne agli innumerevoli ristoranti, caffè e commerci dei dintorni, da chi ci abita ed è costretto a risalire a piedi, perché trasporti e mezzi pubblici, fatta eccezione per il piccolo bus che attraversa Montmartre, non vanno più in là della pianura.

Per i coraggiosi che sfidano il rumore, la salita, i chiassosi negozietti di souvenir e i capannelli di turisti incantati dietro la vetrina del negozio del Can-Can, la fatica di risalire la strada viene ripagata da piacevoli scoperte, se solo ci si ferma ad ascoltare quello che hanno da dire i muri, le vecchie abitazioni, le porte socchiuse. Lungo la rue Lepic, hanno vissuto Vincent e Théo Van Gogh, verso la fine dell’Ottocento, precisamente al civico 54, e si dice che qui, dalla sua finestra su Montmartre, Van Gogh abbia dipinto la serie di quadri sui tetti di Parigi. Poco più in alto, Louis-Ferdinand Céline, secondo la leggenda, occupava il secondo piano dell’immobile al numero 98. “Dalla rue Lepic si comincia a incontrare gente che viene a cercare la gaiezza sopra la città“, scriveva, “si mettono a guardare in basso la notte che fa un gran vuoto pesante (…) Noi eravamo arrivati alla fine del mondo, era sempre più chiaro. Non si poteva andare più lontano, perché dopo, oltre il confine, non c’erano che i morti“.

Quando Montmartre era ancora la periferia di Parigi, la rue Lepic contava almeno otto mulini, mentre adesso, con le pale immobili che dominano la rue Tholozé, si distingue solo il Moulin de la Galette, antico ristorante dove Renoir ha immortalato con il pennello il celebre ballo danzante. E se un tempo a popolare la strada c’erano gli habitué dei cabaret, come La vache enragée Chez Sardou, oggi il caffè preso di mira dai turisti è quello dove s’aggirava Amélie Poulain, al civico 15, mentre di fronte il bar Lux offre un’alternativa popolare, con una scenografia in legno istoriato e vetro, preferita dagli autoctoni.

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La rue Lepic dipinta da Gen-Paul, pittore parigino di fine Ottocento.

I ristoranti chic, le terrazze sofisticate, i negozi bio, stanno lentamente prendendo il posto delle vecchie botteghe che un tempo animavano la lunga strada, fino alla collina della Basilica, strada popolare per eccellenza, dove si vendeva à la criée, come si dice in francese, urlando ai potenziali acquirenti le offerte del giorno, come al mercato. Nella parte più bassa, che scende fino al Moulin Rouge, resiste ancora l’animo commerciale della rue Lepic, con la grande pescheria che fa angolo, il negozio di formaggi, la più antica cioccolateria di Parigi, À la mère de famille, chez Marthe, che vende i prodotti dell’Alvernia e del centro della Francia e, al civico 22, da cinquant’anni il bazar di spezie, pepe, erbe, té e caffè da tutto il mondo, dove lavoro anche io, da un paio di mesi.

Dopo circa un anno di vita domestica, lontana da ogni prospettiva professionale, un sabato di fine aprile ho finalmente messo piede in negozio, finendo catapultata in un mondo altro, io che in cucina usavo solo rosmarino, timo e, quando volevo un tocco esotico, un po’ di menta selvatica. E invece, in poco più di due mesi, ho imparato a fare il pollo alla creola, il couscous, la tajine, il taboulet libanese, il pollo tandoori, la carne marinata allo yuzu, dessert vietnamiti, punch e rum. Ma soprattutto so riconoscere le erbe e le spezie all’olfatto, al gusto, alla vista, solo sentendone il profumo so cosa consigliare ai clienti, invento ricette, miscugli, esperimenti. Ho imparato ad apprezzare le differenze tra i tanti té verdi e neri, affumicati e non, profumati e naturali. Conosco nomi e particolarità di almeno cinquanta tipi di pepe e, uno per uno, stanno tutti arrivando nella mia cucina e nei miei piatti.

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Le Comptoir Colonial esiste da circa mezzo secolo. Secondo i racconti di Josiane, la mia collega, in servizio dal 1973, prima il negozio era una graineterie, un negozio di semi, un vero e proprio bazar di prodotti al dettaglio dove si vendeva di tutto: pasta, ogni tipo di farina, sacchi di legumi, riso e semolino, formaggi, succo d’arancia appena spremuto, confetture artigianali ma soprattutto introvabili prodotti africani, come la carne di scimmia in conserva. Oggi, dagli scaffali del negozio, leggermente più imborghesito ma ancora inguaribilmente selvatico, si affacciano un centinaio di varietà di té, dal Giappone, dalla Cina e dall’India, sale dell’Himalaya, da Cipro, dalle Hawaii e dai bacini francesi e baschi, pasta italiana, olio d’oliva profumato al tartufo, al lampone, al peperoncino, una decina di tipi di curry, una ventina di mostarde, marmellate savoiarde artigianali, fiori di violetta in salamoia, pesche e pere sciroppate, rum e punch da tutto il mondo, tarama fatto in casa, humus, tzaziki, centinaia di olive al dettaglio, cipolle fritte, aglio in polvere, cardamomo, bianco, nero e verde, miele di foresta, d’acacia, al rosmarino, nigella, sumac, niora, zaathar, habanero, ciliegie al cointreau, zucchero di canna, nero, effervescente, pasta di pistacchio, aceto di pomodoro, di Champagne, farina per la tempura, salsa alle ostriche, pastella per involtini primavera, foie gras d’oca e d’anatra, escargot di Borgogna, angostura, amaretto, ouzo, menta piperita e al limone, calendula, capelli di diavolo, fiori di hibiscus, dukka. E, fiore all’occhiello, cinquanta varietà di pepe, dalla Tasmania al Madagascar, dal Nepal alla Cambogia, lungo, a coda, rosso, nero, muschiato.

Avvicinarsi alla cultura del fare, a quella conoscenza concreta di chi ha imparato le cose testandole con i propri sensi, mani, papille gustative, l’esperienza vera e onesta di chi conosce qualcosa per averla un giorno tenuta tra le mani, annusata, mangiata. Io che ho sempre studiato, letto, scritto, ragionato, elucubrato, oggi so fare, cucinare, mescolare insieme, pestare, cuocere. Questo è quello che mi piace di più del mio lavoro. E poi la possibilità di lasciare tutto alle spalle, i libri, i miei studi, i corsi all’università, i vasetti di verdura da preparare, i pannolini che stanno per finire, la lavatrice, i biglietti per l’Italia, le lettere della Caf, i sogni interrotti ogni tre ore, i primi dentini, la febbre a 40, la babysitter, il libro che mi trascino sul comodino da tre settimane, le parole non dette e quelle che non avrei dovuto dire, tutto resta a casa e io faccio il giro del mondo in un pomeriggio.

tavolo

E se la mia, di esistenza, resta ad aspettarmi a casa, quelle dei clienti aleggiano nell’aria, come il profumo delle spezie e del caffè appena macinato, che impregna il negozio. Questa è la tipica bottega di quartiere, dove ci si ferma anche, e a volte soprattutto, per aggiornarsi sulla vita del vicinato, per scambiare quattro chiacchiere e raccontare un po’ di sé. C’è una signora che ogni settimana corre a comprare tre bottiglie di sciroppo alla mora per il marito, che ne pretende due bicchieri al giorno in estate; una casalinga che si lamenta dei figli che si lamentano di lei e dei suoi piatti sempre uguali e ogni volta viene a trovarci con un blocchetto per gli appunti dove segnarsi le ricette; c’è una anziana del quartiere che ogni volta riparte con una bottiglia di punch e tre confezioni di ciliegie al Cointreau, tutte per lei; c’è un signore rimasto vedovo da poco, vestito elegante, con le spille all’occhiello della giacca, che mi ha raccontato d’aver conosciuto Churchill; il proprietario di una boutique di francobolli che ci riserva il peggio del suo senso dell’umorismo; un omone grande e grosso che prima di comprare un sacchettino di basilico ha chiamato la mamma per chiederle il permesso. E poi gli appassionati, quelli che conoscono ogni tipo di sale, quelli che vengono ogni mese ad acquistare un chilo di pepe, quelli che arrivano con dieci barattoli vuoti e i sacchetti già pronti da casa, per risparmiare sugli imballaggi. Tutti si fermano a raccontare gioie e sventure dell’esistenza quotidiana, i problemi dei vicini, cosa hanno visto e sentito dalla finestra, i litigi sul lavoro, la scelta del liceo per i figli adolescenti, il marito invecchiato che inizia a non ricordare le cose, la mamma troppo vecchia che controlla tutti gli scontrini.

E io sono lì, dietro al bancone, ad intrufolarmi in punta di piedi, in ognuna di queste minuscole vite, che per un poco diventano anche la mia, giusto il tempo di servire un sacchetto di té.

Soundtrack: Vashti Bunyan, Train Song