“Il luogo ideale per me è quello in cui è più naturale vivere da straniero”. Lo scriveva Italo Calvino, come una professione di fede, una vocazione all’alterità che lo condusse, oltre a perdersi nei meandri della letteratura e nei tanti e verdeggianti sentieri dei boschi narrativi, anche tra le strade di Parigi, città che lo accolse nel suo spleen e che elesse a seconda patria.
A pochi giorni dalla mia partenza dalla Francia, che coincide fortuitamente con la fine dell’anno, mi risparmio i bilanci, le liste, le cose fatte e i desideri ancora da realizzare. Metto in un cassetto i biglietti della metropolitana, l’abbonamento ai mezzi, la cartina della città, ormai inutilizzata da anni. Lascio da parte la voglia di camminare, disperdendomi in inevitabili compiti burocratici, il lavorio quotidiano, gli armadi da svuotare, le ultime lettere da inviare. Occupo la mente, costruisco piste di treni e torri altissime, racconto storie su mondi inventati, sforno torte alla cannella e soffio sulle bolle di sapone.
Mi rinchiudo in casa, perché ho paura di volare via anche solo aprendo la finestra. Correre verso la linea 6 della metropolitana, quella che passa dalla Tour Eiffel, e che mi portava a casa otto anni fa. Una folata di vento e mi ritrovo affacciata al Pont Neuf, con improbabili compagnie. Una nuvola passeggera e ritorno sulle gradinate di Montmartre, gli occhi chiusi, la musica sparata nelle orecchie, con un raggio di sole sulla faccia. Gli infiniti sipari di velluto rosso, gli scherni di Chagall, il cielo che si colora di rosa all’imbrunire nelle sere d’estate, la cupola della Sorbona e i suoi anfiteatri stanchi, gli alberghi che coprono i tramonti, i ristoranti annoiati e le loro cucine, i segreti che ho scritto sui tavolini dei caffè di Belleville, un appartamento all’ultimo piano dietro la Bastiglia, la gentilezza degli sconosciuti, la Basilica che esplode quando giro l’angolo e torno a casa. Tutta una vita nello zainetto, in un viaggio durato anni, domicili abbandonati ogni mese, indirizzi sempre nuovi, il solito caffè ordinato a un bar sempre diverso.
Imparare a diventare grandi in una lingua che non è la mia, il primo contratto di lavoro, un atto di nascita da firmare, lettere d’amore scritte con il dizionario, in un francese che mi è rimasto incollato al palato e che filtra i pensieri e la fantasia. La stazione della gare du Nord, dove tutto è cominciato e dove oggi tutto finisce.
Qui “dove anche le rondini si fermano il meno possibile, qui dove tutto mi sembra indimenticabile”.
Chiudo tutto in una scatola, insieme ai libri, ai giocattoli e ai quaderni. Le lacrime, la solitudine, la voglia di farcela, la voglia di scappare, i detriti e le pietre preziose di una città che mi ha trapassato come una lancia e mi ha restituito alla vita, diversa. Lascio a Parigi i sogni e le illusioni, i miei ventidue anni, le fughe e l’incapacità di restare ferma e aspettare che il vento cambi. Porto con me nelle tasche la libertà di sentirmi straniera anche dove sono nata, l’abilità di provare meraviglia per i luoghi della vita, la forza di fermarmi e lasciar passare la tempesta. I miei trent’anni e la voglia finalmente di riporre le valigie nell’armadio e scrivere il mio nome sulla cassetta delle lettere.
Lascio Parigi con un arrivederci, dicendole una bugia.
Faccio in silenzio e in punta di piedi i preparativi per la prossima vita. Lascio andare quello che è stato, senza nostalgia e senza emozioni in esubero. Chiudo la valigia e sbatto la porta.
Migrazioni interne, o internazionali. Alla fine, poco cambia.
Soundtrack: 40 KM, Le Luci della Centrale Elettrica
Images: Laurent Chéhère
V., Cara V.,
Hai detto tutto tu, ora cerco le parole, non so se le troverò. Ci penso e mi chiedo, insieme a te, cosa riserverà per voi il domani. Ma sarà bello, e di questo ne sono sicura.