A Chiara, Mino e Lucia,
i bambini della spiaggia di Baia Verde
Andare al mare senza farsi il bagno. Cucinare “di più” e congelare le porzioni. Tenere sempre i fazzoletti nella borsa. Avere voglia di legumi. Diventare una di quelle mamme che dicono “se non la smetti ce ne andiamo a casa”. Perdere la fiducia nell’amore. Andare a letto presto la sera. Non so quale azione, esigenza, vizio, mi abbia fatto capire che forse sono diventata grande. M’aspettavo di guardarmi un giorno allo specchio e scoprire che non sono più quella di una volta. O forse sarebbe stata una lucida constatazione, che m’avrebbe impregnato giorno dopo giorno, di una consapevolezza nuova.
Dopo incalcolabili traslochi, tre asili cambiati, lavori che vanno e vengono, ho capito di essere diventata grande quando non ho potuto più sottrarmi all’obbligo della reperibilità. All’obbligo del telefono sempre acceso, tenuto accanto. Un obbligo che è diventata anche una pessima abitudine, o viceversa. Potrebbe chiamare la scuola, o il primo lavoro, o il secondo lavoro, o gli inquilini di casa, o il proprietario dell’altra casa, e poi l’idraulico, l’amministratrice del condominio. E poi i messaggi di quelli a cui hai dimenticato di rispondere, di quelli a cui non hai mandato un cuore o uno smile, di quelli che ti chiedono perché non hai chiesto come stavano. E poi i commenti da moderare, i post da approvare, gli aggiornamenti sugli articoli da inserire in tempo reale. E, in ultimo, il vizio di “controllare” il telefono.
Qualche anno fa me ne andavo per le strade di Milano appesantita solo da uno zainetto sulle spalle. A volte lasciavo di proposito il telefono a casa, per sentirmi più libera e leggera. Anzi, avevo anche accantonato nell’armadio tutte le borse. Avevo solo un cappotto rosso, e nelle tasche una banconota da dieci euro e le chiavi di casa, che cambiavano ogni tre mesi. Ecco, questo è un lusso della gioventù e io penso di averlo perso.
Ho cominciato a sentirmi a mio agio e tranquilla solo nelle prime ore del mattino o nottetempo, quando posso leggere senza essere interrotta, quando sono sicura che il cellulare non squillerà per un messaggio, una richiesta, un’ennesima perdita di tempo. Ho avuto un attimo di vertigine quando ho preso la scheda nuova, un numero sconosciuto al mondo intero, ma sono bastati pochi secondi per capire che le notifiche mi avrebbero trovato in ogni dove. E che io mi sarei lasciata trovare.
E allora ho cominciato ad apprezzare le traversate in macchina, quelle dove a guardarmi c’erano solo i fiori perplessi, attaccati al ciglio di una rotatoria, le gazze ladre appollaiate sui rami abbrustoliti, e la musica alta, altissima, per coprire ogni rumore di fondo e asciugare le lacrime, come quando avevo 18 anni.
Ma soprattutto, il tempo passato al parco o in spiaggia, solo con i bambini, piccole parentesi di pace riservate agli umani non più alti di 1 metro e 50, che mi hanno gentilmente ammesso nei loro fiabeschi circoli di giochi. Ecco i momenti più belli di quest’estate sono stati quelli dove ho guardato il cielo distesa su uno scivolo, quelli passati a svuotare il mare con un secchiello o a fare una buca, quelli trascorsi insieme a Mino e a Chiara sulla spiaggia di Baia Verde, a costruire per tre quarti d’ora la montagna di sabbia più grande del mondo, solo perché la loro sorellina Lucia potesse distruggerla con un calcio in un secondo. I pomeriggi nei parchi desolati della Lecce agostana, con Émile, ad annusare i fiori e accarezzare i cavallucci di metallo ipnotizzati dal caldo. Con il mondo lontano, rinchiuso dentro ad un telefono, a riempirsi di sabbia in una borsa, sotto il sole.
Ho cercato di regalare ai bambini l’unica cosa di cui hanno bisogno, il tempo e l’attenzione, e loro in cambio mi hanno insegnato tanto: che si chiama scivolo, ma oltre che a scivolare, sullo scivolo ci si può arrampicare, giocare a nascondino e anche coricarsi per guardare le stelle; che dire una bugia a un bambino è un peccato mortale; che è buona educazione dire arrivederci alle dita dei piedi prima di infilare i calzini; che “dopo”, “poi”, “tra poco”, “domani” sono parole vere e che “se una cosa la facciamo domani”, domani quella cosa si deve fare. E poi che il tempo è prezioso, ma si può anche passare un’ora a guardare un filo d’erba, o a costruire un castello di sabbia da distruggere in un secondo con un bel calcio. Che se qualcuno ti dice di non gridare, gridando, allora non merita di essere creduto. Che provare a fare le cose da soli, in autonomia, è un diritto, a tutte le età. E soprattutto che se ci si fa tutta la strada legati a un seggiolino per andare al parco, e poi al parco non si può correre, non si può sudare, non ci si può sporcare, non si possono mettere i piedi nelle pozzanghere d’acqua e le mani nella terra, la vita ha talmente poco senso che abbiamo tutto il diritto di pestare i piedi, di urlare e di piangere. E che restare con loro è il modo migliore per non diventare mai grandi.
Acquarelli © Alessandro Sanna
Soundtrack: Una storia del mare, Dimartino feat. Francesco Bianconi
Sei tornata, con colori e acquarelli e parole e storie. Ci sei mancata moltissimo. Grazie.