Italo Calvino diceva di risiedere a Parigi come se fosse la sua casa di campagna, avendo conservato i principali interessi di lavoro tutti in Italia. I lunghi viali, l’umanità della metropolitana, i quartieri impregnati di se stessi, erano come campane di vetro, nelle quali si sentiva protetto, vivendo perennemente nel sogno dell’invisibilità, un miraggio che aveva realizzato con il suo cavaliere inesistente, voce e spirito tenuti su da una lucida armatura vuota.
Mi capita spesso di avvertire il bisogno di rileggere Calvino, ma soprattutto di riascoltarlo in un vecchio reportage televisivo, in cui si descriveva come un uomo invisibile, circondato da una metropoli indifferente, e per questo amica, “eremita a Parigi”, per ricordare il titolo di uno dei suoi libri. Mi succede soprattutto adesso, in questi mesi di transizione, in cui una nuova vita mi è esplosa tra le mani e non riesco ancora a maneggiarla bene.
Forse perché anche io vivevo a Parigi protetta dal mondo esterno, in una geografia che ormai possedevo nel pugno della mano, grazie alla metropolitana, straordinario labirinto sotto terra, con le cartine della città inutilizzate nei cassetti, in una lingua che mi faceva da strumento e da corazza, con una burocrazia che non riusciva più a mettermi i bastoni tra le ruote. Una latitudine che vivevo come se fosse la mia dimensione domestica, aggirandomi tra parchi, ludoteche e asili, tra teatri e musei, finendo la giornata a raccontare fiabe dentro una tenda da indiano.
“È delle città come dei sogni: tutto l’inimmaginabile può essere sognato ma anche il sogno più inatteso è un rebus che nasconde un desiderio, oppure il suo rovescio, una paura. Le città come i sogni sono costruite di desideri e di paure, anche se il filo del loro discorso è segreto, le loro regole assurde, le prospettive ingannevoli, e ogni cosa ne nasconde un’altra” – Le città invisibili, Italo Calvino
Oggi, invece, ho l’impressione che il mondo mi abbia catapultato in strada, con responsabilità nuove, una vita tutta da costruire e da imparare. Oggi, che risiedo nella periferia del continente, stazione d’arrivo e capolinea dei treni, sono costretta a rimettermi al centro, a cambiare abitudini e rituali, a erigere da zero nuove corazze e nuovi ponti, ad abbandonare il mio personale sogno dell’invisibilità.
Sono finita da un giorno all’altro al centro di una vita senza più silenzi, senza più solitudine né isolamento, senza più quella distanza dal mondo, che mi consentiva di fare un punto su di me, sulla realtà esterna, sul mio domani e quello delle persone a me vicine. Sono tornata in provincia, eppure mi sembra di aver accelerato la velocità e di aver perso quella coltre di distacco che mi permetteva la libertà del pensiero. Quell’invisibilità dello spirito, che non era altri che leggerezza. Non a caso, Parigi fu per Calvino terra fertile di invenzioni narrative e, nel suo appartamento a sud della città, nella sua casa isolata nel cuore della metropoli, inventò i tratti delle sue città invisibili. Parigi, “la città dove il passato rimane a ridosso del presente”, “album del nostro inconscio”, scenario interiore, o meglio, interiorizzato, proprio perché vissuto non con gli occhi del sognatore, ma con quelli dell’uomo comune, che vi deve trovare un posto e far sopravvivere la sua vita domestica.
“La forza dell’eremita si misura non da quanto lontano è andato a stare, ma dalla poca distanza che gli basta per staccarsi dalla città, senza mai perderla di vista”. – Il castello dei destini incrociati, Italo Calvino
È forse questo il punto d’arrivo di una nevrosi geografica durata anni, fatta di desideri pressanti d’altrove, di quell’esigenza, come diceva Calvino, di ritrovarsi isolati in un posto in grado di rendermi invisibile, insieme alla biblioteca ideale, che poi non esiste, essendo tutti i miei volumi sparsi ancora in varie residenze. Le scosse d’assestamento di un treno, che arriva forse a un primo capolinea e decide di restare a riposo per un po’.
L’esigenza di alterità e l’abitudine all’isolamento, difficili da ritrovare in una città che sembra sfarinarsi tra le dita, in cui pare strano non conoscere tutti e le storie di tutti, in una quotidianità in cui restare soli è impossibile. Una città in cui vivo lavorando da narratrice e da guida turistica e dove, paradossalmente, spesso ho l’impressione di perdermi.
E allora mi ritrovo ad avanzare, ancora una volta, costruendo ipotenuse su grigi cateti, a unire i puntini a modo mio, a trovare soluzioni, a inventarmi personali parentesi di invisibilità, senza smettere di cercare quella città a cui tende il mio viaggio, “discontinua nello spazio e nel tempo, ora più rada ora più densa, tu non devi credere che si possa smettere di cercarla”.
Di seguito, il documentario “Italo Calvino: un uomo invisibile”, girato nel 1974 a Parigi, un mio personalissimo rifugio dai mali del mondo, quando mi piacerebbe immaginarmi seduta su quella poltrona rossa, tra i libri, di fronte alla grande vetrata del suo ufficio, a inventare città invisibili.
Cover image: © Witchoria