Confessioni di una hostess

UNA STORIA VERA

Ho iniziato a fare la hostess a Parigi, in un periodo di profonda stasi occupazionale, quando il mio futuro aveva il colore giallo del grembiule del ristorante ebraico dove servivo pizze kasher alle porte della città. Dopo i primi eventi, anzi “missioni”, mi sono ritrovata incredula a chiedermi perché non avessi cominciato prima. In pochi mesi, sono passata da un’agenzia all’altra con una facilità che avrebbe potuto, da sola, sollevare il tasso di mobilità giovanile in Europa. Le hostess più navigate mi presentavano ai loro datori di lavoro, lodando il mio savoir faire. Ho scoperto di saper infilare i badge negli astucci di plastica con uno stile invidiabile. Riempio i moduli alla velocità giusta, non troppo lenta per non far annoiare il cliente, non troppo veloce per non fargli credere di essere liquidato. Ho un sorriso che accoglie, ma non invade. Un modo di fare competente, ma non arrogante. Una lunga carriera si è aperta davanti a me. In poco meno di due mesi, ho infilato quattro convegni, da quello dei surgelati a quello dei nuovi materiali per l’idraulica. Non solo, lavorando dieci giorni ho pagato due mesi d’affitto a Parigi, ma soprattutto ho guadagnato i favori delle persone che contano. “Metto io una buona parola per te”, mi aveva detto una delle hostess, convincendomi ad accettare l’unica raccomandazione della mia vita per un’importante agenzia. 

“Colloquio informale”, avevano scritto sulla mail di convocazione. Colgo l’occasione e mi precipito nel cuore della Parigi borghese, XV arrondissement. Arrivo, vestita di tutto punto, jeans informali, camicetta informale e un tacco discreto, per far capire che sui tacchi, anche se informali, ci so stare. Mi ritrovo in un cenacolo illuminato al neon con una serie di pretendenti in tailleur. Insomma, io e i miei jeans potremmo anche andarcene a casa, visti gli sguardi commiserevoli degli altri. Ma decido di restare. Nel mio curriculum, avevo messo in evidenza la mia esperienza da giornalista culturale, pensando fosse l’asso nella manica per un posto in tutti i musei e le istituzioni della città di Parigi. Aspettavo solo una conferma. “Qui c’è un problema”, mi dice la ragazza delle risorse umane, che avrà avuto più o meno cinque anni in meno di me. “Quale?”, rispondo con garbo. “Lei scrive di essere una giornalista culturale”, contrattacca. “Beh, sì, diciamo che è l’argomento di cui scrivo più spesso”, replico. “Vede, non posso permettermi di assumerla”. Lo sapevo: erano i jeans. “Sa, immagini se io la facessi lavorare in un museo o per una mostra, della quale poi lei scriverà magari nei giornali nazionali”, mi spiega, “c’è un evidente conflitto di interessi, non trova? E poi lei ha già un lavoro, perché vuole fare la hostess?”. Silenzio. Avrei voluto rassicurarla e dirle che le mie recensioni letterarie pagate 20 euro lordi dopo 90 giorni, punta massima delle mie entrate da giornalista, non avrebbero causato alcun conflitto di interessi se avessi avuto la possibilità di distribuire cuffie e audioguide al Musée d’Orsay. E che il mio reportage sulla gentrificazione nei quartieri di Parigi, frutto di ricerche durate due mesi, non retribuito, si sarebbe perfettamente conciliato con l’idea di registrare i biglietti ridotti per scolaresche e over 65. Ma non ce l’ho fatta. Ho mantenuto le sembianze da giornalista culturale di successo e ho abbandonato il colloquio. Ero al centro di una situazione paradossale: il mio lavoro non retribuito da giornalista mi aveva fatto perdere la possibilità di averne uno vero da hostess. 

Appena arrivata a Milano, in ricordo dei successi parigini, in previsione del Salone del Mobile e con il primo affitto da pagare, ho spedito il mio curriculum, con tanto di foto “richiesti un primo piano, un mezzobusto e una a figura intera, specificando bene misure, taglia e numero di scarpe”, a quasi tutte le agenzie della città. Invio l’ultima mail e mi stendo sul divano. Apro un libro ma non riesco a leggere. Il telefono squilla dopo trenta minuti. Poi di nuovo. E un’altra volta ancora. Dopo mesi passati a inviare candidature all’inaccessibile cupola dell’editoria e del giornalismo italiano, nella speranza che qualcuno volesse farmi scrivere anche solo la sua lista della spesa, essere richiamata dopo poco meno di tre ore per almeno cinque lavori come ragazza immagine e promoter mi ha fatto vacillare non poco sulle mie scelte professionali. 

Per la mia prima “missione” da hostess a Milano, sono stata assunta come guardarobiera in una serata di gala per la presentazione di una nuova collezione di orologi di un noto brand italiano. Mi aspettavo, ingenuamente, che ai negletti orologi fosse dedicata almeno una breve introduzione, ma non avevo fatto i conti con l’open bar accessibile dalle 18 e la giovane fauna umana della Milano da Bere che, per l’occasione, si fregiava anche della presenza di Barbara D’Urso. Con la stessa ingenuità, noi hostess tutte abbiamo pensato che almeno avremmo beneficiato di una cena d’eccezione, non appena scorto il nome di Carlo Cracco, chef della serata. 

“Le hostess andranno in pausa per mezz’ora, a turni di due, a cominciare dalle 20”. Queste erano state le consegne. “Per la cena di là, fuori, sotto il gazebo bianco”, ci dicono i due guardiani, due giovincelli di 20 anni, assunti dalla stessa agenzia. Usciamo, guardiamo a sinistra, nulla, guardiamo a destra, nulla, o per lo meno, nulla che assomigli a un risotto con cannella e gamberetti o a un cestello di formaggio con ripieno di verdure di stagione, come scritto da menù. Guardiamo di nuovo a destra. Troviamo la nostra cena. Quella che, da lontano, ci sembrava una colonna di sostegno dell’impalcatura dell’edificio, si rivela una pila di una trentina di pizze d’asporto, che ci aspettavano lì da circa mezz’ora, al freddo. Elaboriamo in fretta un metodo per raggiungere la pizza, “io mantengo una decina di cartoni e tu ne sfili due, ok?” e poi decidiamo di concederci una pausa lunga almeno 40 minuti e all’interno, nascondendoci nei camerini al piano di sopra. Di minuti ce ne bastano 15: ci avventiamo affamate sul primo trancio, il resto è completamente immangiabile. 

Quando, tra le mie amicizie, viene fuori la parola ‘hostess’, le reazioni sono varie. C’è chi è dovuto passare per lo stesso tipo di gavetta e finisce per darmi quasi una pacca sulla spalla e dritte per il mal di piedi da tacco 12. C’è chi mi chiede, sinceramente, cosa faccio e cosa voglia dire. Le reazioni più problematiche sono quelle dei miei amici giornalisti, quelli con cui stupidamente ho sempre sentito il dovere di giustificarmi, di dirlo e poi di aggiungere subito dopo “però solo ogni tanto, quando ho bisogno di soldi, non sempre” oppure di specificare quanti zeri avesse il mio stipendio e che “sarei una stupida a non accettare”. Guardandomi metaforicamente dall’alto di una scrivania, in una redazione, loro sono quelli che, in un modo o nell’altro, mi hanno fatto sempre sentire peggio. 

“La prossima settimana vado a seguire un convegno su Kafka e la problematica della metamorfosi nel teatro contemporaneo, ti potrebbe interessare farne un pezzo, vieni con me?”, di solito, iniziava così. “No, durante quella settimana sono impegnata al Salone del Mobile”, parole che scivolavano così, quasi sottovoce, nella speranza che il dialogo potesse fermarsi lì. “Bene, io non sono riuscita ad avere gli accrediti quest’anno, per chi scriverai?”, era la replica più diffusa. “No, lavoro come hostess”. Qui seguiva di solito una manciata di secondi di silenzio. “Va bene, dai”, sbottavano poi, come se mi accordassero il permesso di farlo, “fa sempre comodo arrotondare un po’”, continuavano, ignari, o forse no, che non si trattava propriamente di arrotondare, ma di raggiungere, anzi, di dare vita, a un salario minimo per vivere autonomamente e dignitosamente a Milano. Dopo un po’, per evitare malintesi, ero io a dirlo all’inizio, “lavoro al Salone del Mobile come hostess”, così tutto d’un fiato. Qualcuno cambiava discorso, pochi mi sorridevano, altri, in privato, mi chiedevano a quali agenzie mi fossi rivolta. Però, i migliori sono sempre stati quelli che non sapevano dire altro che “in fondo, un po’ ti invidio, tu sei libera, puoi fare quello che vuoi, io ho un contratto a tempo indeterminato, sono legato al mio ufficio”. 

E poi la settimana del Salone del Mobile arrivò. Io avevo già comprato le calze nere coprenti e lucidato le scarpe con il tacco, comprate due anni fa a Parigi, e indossate solo in occasioni simili. Prima, ci toccò il famigerato “briefing con il cliente”. Appuntamento domenica pomeriggio, intorno alle 14, all’uscita della metropolitana Rho Fiera, alle porte di Milano, per un incontro informativo della durata di quasi tre ore. Ovviamente non retribuite. I clienti ci spiegano chi sono, cosa fanno e soprattutto cosa dovremo fare noi. E poi ci dividono in gruppi alle varie postazioni, tre alla reception, due al guardaroba, un paio nello stand a “sorvegliare i mobili”. Data l’arbitrarietà della ripartizione dei ruoli, deduco che la scelta di una hostess o di un’altra sia avvenuta in base al colore dei capelli. Io sono nei ranghi delle brune, addetta alla sorveglianza dei mobili, almeno per i primi due giorni. La reception è solitamente monopolio delle bionde, mi riferiscono quelle più esperte.

Dopo due ore passate in un non luogo ancora in costruzione, tra addetti ai lavori, altri nugoli di hostess in lontananza e schiere di creativi, il capo dell’agenzia, una donna sui cinquant’anni, vestita di leggings, scarpe da ginnastica fosforescenti e maglietta larga da ragazzina spigliata, ci raduna tutte, ci urla per l’ennesima volta l’obbligo di arrivare in anticipo e di truccarci bene e ci saluta con un “Ora le hostess fuori dai maroni, ci vediamo martedì!”. Io torno a casa per la prima volta con il passante ferroviario. Avevo voglia di sperimentare un mezzo di trasporto diverso. Forse almeno quel pomeriggio non mi sarebbe sembrato vano, avrei visto i cantieri di Expo all’orizzonte. Forse perché improvvisamente avevo voglia di piangere e, sul passante, da Rho a Garibaldi, la domenica pomeriggio alle 17, non c’è quasi nessuno. 

Il Salone arriva. Il mio compito è fare la guardia a una camera da letto di design. Per sei giorni, devo fissare nell’ordine: un letto matrimoniale, uno specchio, una scrivania in cuoio, una sedia ergonomica, una poltroncina e un paio di complementi d’arredo intagliati in legno in edizione limitata. Non solo. Devo accorrere e sprimacciare i cuscini qualora qualcuno li avesse spiegazzati, rassettare le coperte, rimettere le sedie e le poltrone nella disposizione originale. E sorridere, of course. Il giorno dopo ricevo una promozione. Ora appartiene alla mia area anche il soggiorno, quindi, insieme alle mansioni del giorno prima, devo anche: allineare i vasi sul tavolo di marmo, continuamente spostati da tutti i visitatori, rimettere le sedie sotto il tavolo, assicurarmi che il tavolino girevole sia sempre orientato nella stessa direzione, tirare colpi decisi alle poltrone di pelle per far sparire le pieghe ogni volta che ci si siede qualcuno. Tutto questo in tacchi e vestitino nero. 

Domenica m’imbarco sulla metro rossa, direzione Rho Fiera, con un nodo in gola. Oggi è l’ultimo giorno di apertura al pubblico del salone, minacciano un’invasione di profani. Il cambio di pubblico non tarda a farsi riconoscere, soprattutto quando alle orecchie arrivano domande tipo “ma Le Corbusier è già passato o ancora deve venire?”, oppure “ma voi che fate? ah, mobili pure voi? ma che hanno di speciale i vostri?”. Tuttavia, constato con non poca sorpresa che il pubblico di non addetti ai lavori è molto più gradevole dei tanti “creativi” dei giorni precedenti. Qualcuno si ferma anche a scambiare due chiacchiere, una signora mi chiede addirittura se ho bisogno di andare in bagno e si offre di sostituirmi per una decina di minuti. Ovviamente, in cambio, aumenta spropositatamente il numero di selfie a cui sono costretta ad assistere o a contribuire: selfie con il bracciolo di una poltrona, selfie con un tavolo in marmo, selfie con il nome del brand come sfondo, selfie con il cuscino di un divano, selfie adagiati sulla chaise-longue di Le Corbusier (un grande classico). In ultimo, ahimè, selfie con la hostess. 

Tutte le immagini sono di Witchoria

Colonna sonora: tutto l’album Portamento dei The Drums

Quello che resta

Ci passo spesso

due volte al giorno

la porta è chiusa

nessuno intorno

 

Ma se rallenti

se guardi bene

le vedi ancora

le stanze piene

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Ci passo spesso

due volte al giorno

la porta è chiusa

nessuno intorno

 

Ma se rallenti

se guardi bene

le vedi ancora

le stanze piene

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Solo un chicco di caffè

Dormono le case
Dorme la città
Solo un orologio suona e fa tic tac;
Anche la formica si riposa ormai,
Ma tu sei la mamma e non dormi mai

C’è una ninna nanna che, con un ritmo lento e una melodia dolcissima, racconta di una mamma che non dorme mai, per la quale le scodelle del re sono quasi sempre vuote e la sola cosa rimasta è un chicco di caffè. La cantava una bimba allo Zecchino d’Oro e, nella mia fantasia, me la sono immaginata scritta davvero da una mamma esausta, che la mattina si alza, dopo una notte, l’ennesima, passata in bianco, e nel barattolo trova solo un chicco sparuto di caffè.

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La ripetizione

Quest’estate, ho trascorso molti pomeriggi a svuotare un secchiello pieno d’acqua su uno scoglio. Io lo riempivo, lo passavo ad André, 20 mesi, lui ne riversava il contenuto sulla roccia, ci facevamo una bella risata e ricominciavamo. Ogni mattina, ripetiamo gli stessi giochi. Émile, cinque anni quasi e mezzo, ama guardare il suo cartone preferito a ripetizione, la sera leggiamo lo stesso libro per mesi.

È noto ormai che la routine faccia bene ai bambini. Che la ripetizione di gesti, giochi, frasi, esperienze, ritmi, rassicuri e conforti, ed è la base sicura dalla quale prendere il volo per affrontare quella straordinaria avventura che si chiama crescita, le prime volte, la scoperta del mondo.

C’è un’altra fascia d’età, che ama ripetere ed è confortata dai gesti sempre uguali e dai ritmi che non riservano mai sorprese, ed è quella degli anziani. Durante i primi mesi di pandemia, in seguito alle tragiche notizie di quanto avveniva nelle case di riposo, ho letto numerosi articoli sulle case di cura e le loro abitudini. In particolare, un’inchiesta del The Economist, tradotta da Internazionale, che raccontava del Green House Project, dove vige una sorta di abolizionismo delle case di riposo.

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In viaggio con Giovanna

Ricordo con fortissima intensità, e anche un pizzico di nostalgia, quel momento in cui le poche certezze dell’esistenza hanno vacillato. Avevo perso completamente il centro, andato in frantumi, un giorno freddo di gennaio, lontanissimo da casa, qualsiasi cosa volesse dire allora questa parola. Non me ne rendevo certamente conto all’epoca, ma avevo il mondo nelle mie mani e, non avendo più nulla da perdere, avrei potuto prendere qualsiasi strada e diventare qualsiasi cosa.

Lasciai Parigi alla velocità della luce e trovai riparo in quel di Padova, che divenne per pochi mesi la mia base, prima di trasferirmi a Milano. Di quel periodo, ho impresso tutto sulla pelle, anche i dettagli minuscoli, le ombre della mia bicicletta in giro per la città, il teatro la sera, i pomeriggi in libreria, il traghetto per Burano, le passeggiate sotto i portici con la pioggia, i caffè nei bar, il treno per Milano ogni due settimane. E poi una figura, passata nella mia vita come una meteora, che è rimasta nella mia memoria. “Vai da lei, anche solo per parlare un po’”, mi aveva consigliato un amico, al quale confidavo di passare ogni fine settimana in una città del Nord Italia diversa e che sperava di portare un po’ di conforto a quella nevrastenia geografica di cui ero vittima. E io bussai alla porta di Giovanna, in un appartamento poco fuori dal centro di Padova, dove mi recavo in bici al pomeriggio, un giorno di inizio primavera.

Capelli corti, occhi dolcissimi, maglioni morbidi a collo alto, una macchina piena di libri. Giovanna mi ha accolto nella sua macchina con cui perlustravamo la città, usando verso di me la gentilezza, l’autenticità e la verità che solo i perfetti sconosciuti sanno offrire. Ho subito e accolto tante volte il fascino delle persone più grandi, come compagni di strada. Ho avuto amiche donne e prossimità molto intense con persone che spesso avevano venti o trent’anni di più, alle quali mi avvicinavo come ci si avvicina a una sorgente, per sapere sempre di più, vivere, fare esperienze. Col tempo ho imparato che quanto ricevuto aveva un prezzo altissimo, che ha a che fare con parole che si chiamano libertà e crescita. E forse Giovanna è stata la sola a darmi tantissimo, senza chiedere nulla in cambio.

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Una casa bianca in mezzo al blu

Qualche tempo fa, per gioco, un’amica interrogò i tarocchi per me. Uscì l’arcano del sole. Ricordo che vedere quei due bambini biondi sulla carta, nonostante ancora non ci fossero nella mia vita, mi emozionò molto. Chi mi conosce bene, ovvero almeno da una ventina d’anni, sa che da sempre ho desiderato dei bambini, sin dai tempi del liceo, anche prima. Volevo viaggiare e avere figli, lavorare ed essere una mamma presente, inseguire le mie ambizioni e leggere libri di favole. Volevo tutto, e lo voglio ancora. Ma, dietro i due bambini, nel mazzo originale dei tarocchi di Marsiglia, sull’arcano del sole, c’è anche un muro in costruzione. “Questo è quello che ti manca di più e che otterrai con fatica”, disse la mia amica, “una casa“.

All’epoca, ero reduce dagli ultimi due traslochi, infilati, uno dietro l’altro, in poco più di dodici mesi. Ma la casa ancora non c’era. Abitavamo in un appartamento di fortuna, che stava cadendo a pezzi sulle nostre teste, eravamo insofferenti, increduli e, da lì a poco, la pandemia ci avrebbe chiuso là dentro per un bel po’.

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La mia scuola

In questo strano anno pandemico, dove la casa è diventata rifugio, prigione, raccoglimento, luogo di timori e di pace, di sconvolgimenti e riposo, sono state tantissime le prime volte. Ho messo piede in ambienti, paesi, case, persone, ambiti, mestieri, in cui non m’ero mai cimentata, e tanti di questi primi incontri mi hanno sicuramente aiutata a restare a galla nei mesi in cui la seconda maternità e un’epidemia di quelle che si raccontano solo nelle storie di santi e vergini miracolose mi imponevano di restare tra quattro mura.

Tra queste prime volte, c’è la scuola. Quella con la S maiuscola, quella pubblica, delle circolari e delle indicazioni ministeriali, quella che leggi nei manuali e ti brillano gli occhi, quella che vai a vedere di persona e ti si stringe il cuore. La mia scuola è in un paesino di pochissimi abitanti circondato dalle campagne. Ci si conosce tutti (me esclusa, che sono tra le ultime arrivate). I cognomi sono ricorrenti e ci sono solo tre classi, riempite di fratelli, cugini e amici di famiglia. I bidelli (qui si fanno chiamare ancora così) sono anziani e più che operatori sembrano quasi gli zii o i nonni, che abbottonano i cappotti, sentono la febbre con la mano sulla fronte e aiutano ad andare in bagno.

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In tempi di pace

In tempi di pace, mi occupo di santi patroni, divinità e madonne. Raccolgo e scrivo storie di fede antica, preghiere dimenticate, tradizioni che, al telefono, comitati e sagrestani mi descrivono con banalità, e alle quali io continuo a stupirmi, dopo tanti anni. Rose che piovono dal tetto di una chiesa, l’asta che si consuma sul sagrato per portare un crocifisso sulle spalle, sante che si portano via chi va al mare il giorno della propria festa.

E, soprattutto, epidemie e calamità. Santi patroni che preservano il loro piccolo campanile e inviano, senza scrupoli, pestilenze e terremoti e uragani al paese vicino. Statue barcollanti portate in processione sotto grandine e fulmini. Maremoti che cessano al gesto benevolo di un busto di pietra posto su una colonna. Piaghe guarite, vista ritrovata, voti esauditi.

Mentre facevo l’ultimo giro di telefonate circa due mesi fa, mai avrei pensato di trovarmi a vivere anche io tempi di pandemia. Tempi di contagi inarrestabili, di esistenze che si perdono nella vertigine delle cifre del bollettino quotidiano, di cani senza più padroni, di uomini in tunica bianca che pregano da soli in piazze deserte, di arcobaleni alle finestre e rosari sul terrazzo, di un presidente che spicca nel bianco dell’altare della patria.

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Un giorno

Un giorno troverò una stanza

Virginia ci scrisse un libro intero

la affitto, la compro per davvero,

per farne biblioteca o sala danza.

 

Ci metto tutti i libri e i miei foglietti

la scrivania che non devo sistemare

sempre ingombra anche all’ora di mangiare

senza riporre tutto nei cassetti.

 

Un giorno ci metto pure il letto

a tre piazze e un solo comodino

lo voglio con un solo cassetto

ripieno di ogni tipo di spuntino

 

e se di notte ho fame, sete, dormo poco

accendo una luce grande come il sole

e non questo lumino fioco

fatto apposta per non disturbare.

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Milano – game over

“Allora, com’è Milano?”. Ho perso il conto di tutte le volte che mi è stata rivolta questa domanda nel corso degli ultimi mesi. Per un po’ di tempo, avevo anche pensato di registrarne tutte le intonazioni, da quella più sufficiente a quella più entusiasta, passando per il milanese che non sa cosa dire alla signora preoccupata che “è un po’ un trauma per te che vieni da Lecce”, ed è un trauma anche se le ho ripetuto che ho vissuto altre volte in città che superano il milione di abitanti e ha insistito, nonostante tutto, a volermi spiegare il funzionamento della metropolitana e ad accompagnarmi alla fermata, “non vorrei che ti perdessi tra i tanti corridoi”.

Milano, per me, era qui ancor prima di viverci. Era la stazione centrale almeno cinque volte al mese, quando ho iniziato a seguire il corso a Lotto, a venirci sempre più spesso per vani colloqui di lavoro. Erano i binari lunghissimi prima di arrivare a destinazione, il panorama dal finestrino di un treno, quasi sempre graffiato di pioggia. L’autostrada che ho imparato a memoria con i tanti passaggi in auto. Ritrovare, anche se per poco tempo, il calore di una redazione e quello di una classe. La certezza di poter vivere bene in una città che non fosse Parigi. Una nuova tessera dei trasporti. Qualche nuovo amico e altri che sono riuscita ad incontrare finalmente anche fuori dalla virtualità.

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“Il bello di vivere in una città che non conosci è provare continuamente l’eccitazione dell’esploratore”, ha scritto di recente Cristiano de Majo, su RivistaStudio, parlando proprio di Milano. A questa eccitazione ci si può anche abituare, diventarne dipendenti, ma aiuta anche a preservare dalle lamentele, dal malcontento, dall’insoddisfazione. In questi mesi di stupidità collettiva a Milano, di crociate distruttive contro Expo, di attivismo con spugnetta e detersivo, mi sono sentita leggera come pochi, godendo di quel piacere che Pavese ha descritto meglio di chiunque altro, quello di “sfiorare innumerevoli scene ricche e sapere che ognuna potrebbe esser nostra e passar oltre da gran signore”.

Scene che si compongono una strada dopo l’altra, con la sensazione di mettere insieme i pezzi di una città: il pomeriggio al quartiere Maggiolina, tra le case igloo, le ville residenziali e la ferrovia; una sera al Piccolo Teatro e poi tornare a piedi lungo via dei Mercanti deserta; la scoperta dei vicoli dei Navigli e degli atelier di pittura; seguire la pista della Martesana fino alle porte della città; intrufolarsi nei teatri più piccoli e meno conosciuti; esplorare le viscere di Macao insieme ai ragazzi di Proprietà Pirata; i tarocchi per due dalla zingara di Brera; una panchina di Parco Sempione con i libri di Rumiz e poi il Bar Magenta; un sabato sera da sola a perdermi nell’Hangar Bicocca, sotto i palazzi celesti; il tram numero 9, da Porta Romana a Porta Genova; il bus diretto a Linate con il cuore in gola.

Sentirsi finalmente a casa, realizzare come si legano i viali, imparare le prime scorciatoie, essere in grado di rispondere quando qualcuno chiede indicazioni, come scrive sempre De Majo, “è bellissimo quando inizi a capire che quella strada porta in un posto dove sei già stato arrivandoci da un’altra parte, ed è rassicurante sapere che per un bel pezzo potrai permetterti una certa naiveté, che significa anche che ti lamenterai poco”.

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E poi Milano è stata una nuova casa, il piacere di essere sola, di addormentarmi con la musica, di costruire marionette di carta sul pavimento e lasciarle lì per giorni, di partire, di tornare, senza dover informare nessuno, di esplorare libri sconosciuti trovati nel soggiorno, di rientrare e chiudere il mondo fuori. Vivere quella solitudine che, quando c’è, come diceva De Andrè, aiuta “ad avere contatto con il circostante”, che non è fatto solo dei nostri simili ma comprende anche “tutto l’universo, dalla foglia che spunta di notte in un campo fino alle stelle”.

Mentre scrivo, Milano è deserta. Non arriva nessun rumore dalla finestra aperta di casa, al settimo piano e non è difficile pensarsi già altrove. Immagino lo stesso silenzio, tanti tanti chilometri più a sud, un altro vento, altri domicili, altre stanze, lontane da questo appartamento, che è il posto dove pensavo di aver scacciato definitivamente alcuni fantasmi, che invece s’erano solo nascosti sotto il letto e mi hanno teso un agguato all’improvviso, a pochi giorni dalla fine.

Provo a contrastarli con il solito antidoto: l’attitudine alla partenza, l’arte del bagaglio minimo, un biglietto di sola andata già pronto, “il senso della ferrovia”, l’istinto di sopravvivenza: cambiare decoro, per sfuggire al vero ignoto, quello di una domenica pomeriggio passata a fissare il soffitto di casa. La dimensione domestica, scriveva Magris, cela più insidie di un viaggio avventuroso e la spedizione da una stanza all’altra della propria abitazione non è meno ricca di rischi e pericoli.

Soundtrack: Mino De Santis, Sempre in viaggio

Image: © Witchoria