Random thoughts of a fashion editor

know I said I had no other practical skills, but I don’t think I’ll ever be as good at anything as I was at selling clothes. Or enjoy anything as much. I was in my element. I would recommend it to any writer. Not just because of the number of people you get to meet, but because it forces you out of your shell. Because writing is so inherently solitary, it is nice to balance it with a job that involves some other socialization.”

parisreview

“I always felt like material success meant that you had one of those guys who meet you at the airport with a sign with your name on it. To not have to think about getting anywhere after a flight seemed to me the height of luxury. Being able to abdicate responsibility like that seems the height of luxury.”

“In New York everything is so strange. You can’t think in normal terms. If you think, One day I’d like to have a baby, then you immediately think, How can I live in an apartment that would accommodate a child? If we talk about getting married, we don’t know where we could afford to do a reception in the city. It would be nice to have those things not be a source of anxiety one day.”

“Be kind to everyone. Not because people can help you but because…it will pay dividends. It is the way you will have wanted to live your life in a couple of years and in a few more years even more so, I am sure. And, on a practical level, this is a small city and a small business and a small world. You see a lot of people being unkind for a cheap laugh or for a few page views. And it’s not a way to live your life.”

 

Sadie Stein, Deputy Editor at The Paris Review, on her days as a young unknown writer living between Paris and New York.

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Home is a place in the mind

Even after more than twenty-five years the long-winded lady cannot think of herself as a ‘real’ New Yorker. If she has a title, it is one held by many others, that of a traveler in residence. A a traveler she is interested in what she sees, but she is not very curious, not even inquisitive. She is not a sightseer, never an explorer. Little out-of-the-way places have to be right next door to whatever she happens to be living for her to discover them. She has never felt the urge that drives people to investigate the city from top to bottom. Large areas of city living are a blank to her. She knows next to nothing about the Lower East Side, less about the Upper East Side, nothing at all about the Upper West Side. She believes the small, inexpensive restaurants are the home fires of New York City. She seldom goes to theater or to the movies or to art galleries or museums. She likes parades very much. She wishes we could have music in the streets – strolling violinists, singers, barrel organs without monkeys.

maevebrennan

She thinks the best view of the city is the one you get from the bar that is on top of the Time-Life Building. She also likes the view from the windows of street-level restaurants. She hates being a shut-in-dinner. She wishes all the Longchamps restaurants would come back with all their oranges and mosaic Indians and imitation greenery. She wishes TIm Costello hadn’t died. She likes taxis. She travels in buses and subways only when she is trying to stop smoking. When a famous, good old house is torn down she thinks it is silly to memorialize it by putting a plaque on the concrete walls of the superstructure that takes its place. She regrets Stern Bros. department store, and Wanamaker’s, and all the demolished hotels, including the Astor. When she looks about her, it is not the strange or exotic ways of people that interest her, but the ordinary ways, when something that is familiar to her shows. She is drawn to what she recognizes, or half-recognizes […]. Somebody said, “We are real only in moments of kindness.” Moments of kindness, moments of recognition – if there is a difference it is a faint one. I think the long-winded lady is real when she writes, here, about some of the sights she saw in the city she loves.”

Maeve Brennan

More about a long-winded traveler in residence.

Closing Time

As one of my favorite cartoonists said: “When you haven’t talked to someone in a long time, it’s hard to know where to start updating them so sometimes it’s just easier not to”.

My New York City time is going to end.

There are so many things to do I don’t have so much time to write about. As someone used to sing: “There’s such a lot of world to see”. And I just can’t stop.

Well, I was waiting around the bend for my Huckleberry friend. But I think this time is over.

I have so much to tell that I am not going to do it. Simply, I don’t know where to begin for now.

People say I have so much to ask as well but I got sick of it. So far, I think it is easier not to. I’d rather stay after another rainbow’s end. On my own.

And, to tell the truth, I am no more interested in some people’s updates.

It was only a bad habit. And I am so much better without.

See you around_ Au vent le plus mauvais_

Just a drawing

“Non esiste alcun modo di stabilire quale decisione sia la migliore, perché non esiste alcun termine di paragone. L’uomo vive ogni cosa subito per la prima volta, senza preparazioni. Come un attore che entra in scena senza aver mai provato. Ma che valore può avere la vita se la prima volta è già la vita stessa? Per questo la vita somiglia sempre a uno schizzo. Ma nemmeno «schizzo» è la parola giusta, perché uno schizzo è sempre un abbozzo di qualcosa, la preparazione di un quadro, mentre lo schizzo che è la nostra vita è tutto uno schizzo di nulla, un abbozzo senza quadro.

   «Einmal ist keinmal». Tomáš ripete tra sé il proverbio tedesco. Quello che avviene soltanto una volta è come se non fosse mai avvenuto. Se l’uomo può vivere una sola vita, è come se non vivesse affatto.” (da L’insostenibile leggerezza dell’essere di Milan Kundera)

Nello studio di Eugène Delacroix, a Parigi, furono ritrovati più di seimila schizzi. Il più tragico dei pittori francesi dipingeva senza sosta, disegnava ogni giorno, fregiandosi del tocco rapido e veloce della sua matita.

Se non sei capace di fare uno schizzo di un uomo che cade dalla finestra prima che dal quinto piano arrivi a terra, allora non sarai mai capace di produrre lavori monumentali. Si dice fosse tra le sue sentenze preferite.

Oggi i disegni più belli, gli schizzi più intensi di Delacroix, direttamente dal Louvre di Parigi, sono a New York per l’esposizione allestita presso la Morgan Library sugli artisti francesi e la Rivoluzione.

Faccio, disfaccio, ricomincio e non raggiungo mai il risultato che cerco”, scrive in una lettera del 21 febbraio 1821 indirizzata a Charles-Raymond Soulier.

Per ogni tela commissionata, Delacroix scriveva incessantemente, tratteggiava profili, curve, movimenti, e li trascriveva nelle lettere che spediva ai suoi amici pittori. Riversava il tormento dell’incompiutezza in un foglio bianco, sfogava il perenne senso di insoddisfazione che lo perseguitava, fino alla realizzazione finale, inevitabilmente superba, di ogni sua opera.

Stuck in a moment. Molti degli schizzi di Delacroix non sono mai più stati ripresi. Intrappolati in una sfumatura del carboncino, semplici testimoni di genesi controverse, restano immobili su fogli ormai ingialliti, racchiusi in un movimento sviluppatosi altrove. Primo passo a cui non è mai seguito un secondo.

Einmal ist keinmal. Ciò che succede una sola volta non è mai accaduto. Lo diceva Kundera. Se questo è vero, gli schizzi del pittore che usava colori dolenti sono scaramucce, come diceva Alexandre Dumas a fine Ottocento parlando di Delacroix. Bagatelle di poco conto, di cui la storia potrebbe fare a meno.

“Guai a chi in un bel quadro vede soltanto un’idea precisa e guai al quadro che a un uomo dotato d’immaginazione non fa veder nulla al di là del finito. Il pregio del quadro sta nell’indefinibile: è proprio ciò che sfugge alla precisione”, scriveva Delacroix nel suo diario.

Questi giorni a New York assomigliano a uno “schizzo di nulla”, un “abbozzo senza quadro”. Scappano a ogni pianificazione. A ogni tentativo isterico di dare un appuntamento alle meraviglie della città, nell’idea vana di non mancarne neanche una. Procedono senza la preoccupazione di prendere sempre e necessariamente la decisione migliore o seguire l’itinerario consigliato, alla ricerca costante del bello nell’imprevisto.

Io debutto ogni mattina. Vivo New York come se fosse la mia città e, allo stesso tempo, cerco di abituarmi alla temporaneità. Mi calo nella dimensione di uno schizzo.

“In pittura l’esecuzione deve sembrar sempre improvvisata, e in ciò sta la differenza capitale da quella dell’attor comico. L’esecuzione del pittore sarà bella soltanto se egli si sarà lasciato andare un po’, se ricercherà nel corso dell’elaborazione. Prendo esempio da Delacroix e improvviso a ogni risveglio. Ho la matita sempre in mano e imbastisco leggerezze più o meno sostenibili. E cerco di trattenere il carosello di facce che mi volteggia intorno.

Se tutto quello che ho fatto solo una volta non fosse vero e reale, secondo Kundera potrei non aver mai visto i ballerini di tango del West Village sulla riva dell’Hudson, teatro malinconico della domenica pomeriggio, la notte stellata di Van Gogh o quella tagliata dalle punte dei grattacieli che disegnano la High Line. Non ho mai sfiorato l’oceano a Coney Island e rubato le conchiglie giganti alla marea. Non ho mai cercato, e trovato, il duello tra gli angeli di Delacroix nella chiesa di Saint-Sulpice a Parigi, un giorno freddissimo di novembre.

Soltanto l’esperienza può dare, anche all’ingegno più grande, la fiducia d’aver fatto tutto quello che poteva esser fatto. Solo i pazzi e gli impotenti si tormentano per l’impossibile“, (dal diario di Delacroix).

Forse New York necessita un piano. Una strategia. Una seconda volta da programmare. Forse mi sto sbagliando. Ma, in fondo, questo è il mio schizzo, la mia brutta copia. Rimarrà una bozza, incapace per natura di colmare un’inquietudine. Ma nel migliore dei casi, sarà sublime come un disegno dimenticato di Delacroix. Come una scaramuccia. Un tormento da narratore contemporaneo imbevuto di ansie metropolitane, che non accenna a svanire, anche a costo di andare incontro a ogni rischio di incoerenza.

Images © Eugène Delacroix

Soundtrack: The Tempest, third movement, Beethoven

New York City and… Hélène Pé

New York City and… incontri nella Grande Mela.

In una domenica pigra di fine novembre, a Brooklyn, dove anche la linea L della metropolitana è eccezionalmente ferma nella città che non s’arresta mai, da Williamsburg ci vuole solo un quarto d’ora per raggiungere a piedi tutti i vintage store intorno a Bedford Avenue, aperti solo durante il fine settimana. Dirigendosi verso l’Hudson e l’East River State Park, lungo la 7th strada, una tappa da non perdere è sicuramente l’Artists and Fleas Market, brulicante mercatino di artigiani, illustratori, designer e stilisti, una coloratissima miniera di antichità, storie e creazioni originali, dove perdere intere mattinate e avventurarsi in cacce al tesoro senza fine.

“A lot of cool stuff”, ammucchiata in quel di Williamsburg dal 2003, intorno alla quale si è creata una vera e propria comunità di artisti indipendenti. È qui che Hélène Perenet, 29 anni, da Parigi, ha trovato il suo place-to-be. “A Parigi non esiste un posto del genere”, dice Hélène, “decisamente friendly and fun, dove chiunque abbia un’idea originale possa farsi conoscere divertendosi e condividendo lo stesso spazio insieme ad altri artisti, senza le pressioni di una galleria”.

Tutte quelli che arrivano in questo delizioso mercatino di Williamsburg hanno lo stesso entusiasmo delle persone che approdano a New York per la prima volta. Hanno la voglia di realizzare un sogno e di cambiare qualcosa. To make it happen. 

Hélène è a New York da un anno e mezzo. “E dopo un anno qui, la mia ricompensa preferita è ancora il sorriso delle persone che entrano e s’imbattono in uno dei miei personaggi”. Illustratrice e jewelry designer, mescola passato e presente in una fusione naïf di vintage e contemporaneo, tra i colori accesi dei suoi personaggi disegnati a mano e i toni un po’ sbiaditi dei pezzi unici recuperati negli antiquari.

Hélène comincia a disegnare da subito, prediligendo l’acquarello e, dopo un corso di design del gioiello all’Ecole Boulle di Parigi, alle illustrazioni affianca i bijoux, ciondoli, collanine, braccialetti. Collezionista di antichità, ma anche di tutto ciò che è vecchio e ha tante storie da raccontare, Hélène è una frequentatrice assidua dei mercatini d’antiquariato, di quelli che in Francia si chiamano “vide-grenier”, alla ricerca di carte e quadri antichi, di ciondoli e vecchi gioielli. E poi regala un nuovo passato agli oggetti dimenticati, popolandoli di gufi, onde di mare, uomini in cilindro, nuvole, piloti svagati e la sua gatta Moustache, musa prediletta. Un universo di bizzarri personaggi che brulica sullo sfondo di quadri recuperati dai mercatini, vecchi diari di demoiselle ottocentesche, fogli di antiche partiture, che si muove sulla scenografia di colori pastello e pagine ingiallite.

Una volta arrivata a New York City – sarà l’effetto degli States  – Hélène passa al grande formato, alla pittura su legno con il colore acrilico. Accanto agli acquarelli, spuntano le tele, e i quadri su legno di pero e quercia. Gli orizzonti bucolici diventano linee metropolitane. Compaiono i ponti metallici, i grattacieli, le strade. Ma il metodo resta lo stesso. Hélène prima crea un personaggio e poi ne inventa la storia.

E se le chiedete la storia della ragazza che guarda New York, pensando ad altri orizzonti, vi risponderà semplicemente “Beh, sono io”. E la genesi di quel disegno è già di per sé un racconto. Che inizia sul ponte di Brooklyn con un suo amico. Anzi non un amico qualunque, ma Lapin. Che, un giorno per caso a New York, la trascina a Dumbo, quartiere in residenziale ai piedi del ponte, insieme agli Urban Sketchers per un’estemporanea en plein air. Vincendo un’innata reticenza all’improvvisazione, Hélène butta giù lo schizzo di un ponte. Dopodiché ci si è messa anche lei. Nasce così la cartolina preferita dai newyorchesi. E non solo.

(c) Hélène Pé

“I love you more than New York”, gocce di colore e un pizzico di homesickness. Perché New York è una cascata di idee. Uno schizzo di adrenalina. Un picco di energia. Incontri inaspettati. Progetti da cominciare. Ma quello che manca, a volte, è solo un po’ di malinconico spleen, questo tutto europeo.

La Parigi di Hélène resta rannicchiata in un angolo, nascosta nelle note dei vecchi spartiti, con il suo incedere snob tutto francese, ma anche con la sua spensieratezza, con le ore perse nei bistrot dove, almeno per il tempo di un caffè, ci si concede una beata insouciance.

Thank you Hélène. Et bonne chance!

Tra Parigi e New York, questi gli indirizzi preferiti di Hélène:

New York City:
Artists & Fleas Market, sabato e domenica (10-19), 70, North 7th street, Brooklyn, NY
Soho Arts & Materials, 7 Wooster St., New York, NY
Junk, 197 North 9th St, Brooklyn, NY
Metropolitan Museum of Art, 1000 5th Avenue, New York, NY

Paris:
L’art de Rien, 48 rue d’Orsel, 75018, Paris
Centre Pompidou, Place Georges Pompidou, 75004, Paris
Marché aux Puces de Clignancourt, Avenue de la Porte de Clignancourt, Saint-Ouen

An Ukulele Anthem


A child’s dream came true last night. Amanda Palmer – whose songs I used to listen to in my small bedroom when I was sixteen – in a solo performance with her “small and forceful” ukulele at the New Gowanus Space in Brooklyn for the Winter Festival, among old furniture, New Orleans food and apple and cinnamon pie.

Used to piano’s virtuosities, Amanda has chosen ukulele as her new favorite instrument. The beautiful piano half of The Dresden Dolls duo played Radiohead covers, ukulele adaptations of her songs and her new personal Ukulele Anthem, a declaration of love to her Ukulele, a song that has been performed first during the Occupy movement in Liberty Square.

Amanda turned her wonderful four-stringed music machine into a symbol of individuality. The lyrics of her Ukulele Anthem are the result of a peculiar campaign that Amanda started on Twitter. She asked her followers to tell her about an empowering three-syllable object they are not allowed to take to work. They feed her ideas and she wrote this five-minutes song, built around three descending chords, going from Sid Vicious to John Lennon. An ode to a peaceful ukulele that would save the people, banish evil and make your day.

This is a “so fucking special” Amanda Palmer performing Ukulele Anthem in New York City in front of a very crowded Zuccotti Park.

So play your favorite cover song!

Everyone you know

Mercoledì 16 novembre, al Symphony Space, teatro dell’elegante Upper West Side, una platea di newyorchesi, ma non solo, aspetta l’entrata in scena di Miranda July. Dopo un’esilarante presentazione dello spettacolo, si spengono le luci e lei entra. Calze verdi, colori pastello, riccioli rossi spettinati e sguardo timido e intenso. Per il ciclo “Selected Stories”, il teatro ha scelto il suo ultimo libro “It chooses you”, pubblicato da McSweeney’s, casa editrice di San Francisco – la stessa della rivista The Believer, tra i più interessanti titoli in edicola- raccolta di interviste faccia a faccia con sconosciuti della East Coast, incontrati per caso tra le righe degli annunci di un comune giornaletto gratuito.

Il libro “It chooses you” nasce dalla voglia di riavvicinarsi alla mortalità, alla normalità delle vite che si srotolano dietro quegli usci banali con cui nell’immaginario comune siamo soliti figurarci quella grande America fatta di praterie, autostrade e spazi immensi. Scrivendo la sua ultima pellicola, “The Future”, uscita da poco nelle sale americane, Miranda July aveva quasi abbandonato l’orizzonte terreno. Due trentenni, che adottano un gatto randagio, lasciano il lavoro e mettono in discussione la loro stessa vita alternando lo scorrere del tempo.

Distrazione, pigrizia, l’abitudine al procrastinare. Su tutto, le musiche di Jon Brion, quello del film di Gondry, per una sceneggiatura nebulosa, rarefatta. Forse troppo. Non è un caso che l’ispirazione non sempre raggiungesse livelli così alti per permettere una continuità di scrittura.

Tra una pausa e un lunch break. È lì che si è insinuato il Penny Saver.

Il Penny Saver è un periodico gratuito, recapitato nelle cassette della posta di tutto il Nord America, solitamente ogni settimana oppure ogni mese. Come anticipa il nome stesso, è pieno di annunci per fare dubbi ma ottimi affari, aggeggi usati svenduti a poco prezzo, curiosità dimenticate in un cassetto pronte a tornare a nuova vita.

Allora, tra una scena e l’altra della sua screenplay, le pause cominciavano ad allungarsi sempre più, scandite dagli annunci del Penny Saver.

Per ripiombare nella normalità, nella speranza di imbattersi in storie leggere e ben più ordinarie, Miranda s’immerge nella lettura compulsiva del Penny Saver. Ansiosa di leggere di vite reali, comuni, di un quotidiano e silenzioso svolgersi di esistenze. Questa diventa l’attività che dà senso alle sue giornate. “Il Penny Saver era diventato autonomo”, confessa. Come se avesse una vita propria, la intimoriva, puntualmente lo ritrovava accanto alla sedia, sul tavolo, insieme alla sceneggiatura ancora in corso d’opera. E ci ritrovava parole che andavano contro ogni sua aspettativa. Come se Miranda fosse, per natura, incline a imbattersi nelle stranezze. Come se la normalità, in fondo, non esistesse. Catapultata nel mondo reale, di chi non usa il computer. “Altrimenti avrebbe messo l’annuncio su craigslist”, dice alla platea. Di chi cerca un acquirente per cartoline d’auguri di Natale già usate. O per una raccolta di ritagli e foto appesi nelle stanze del fratello.

Lo stesso Penny Saver era recapitato per posta a tutti gli abitanti di Los Angeles. Perché Miranda era stata la sola ad essere attratta da tutta questa vita incasellata in un centinaio di caratteri? Ormai quegli annunci l’avevano scelta. Era rimasta incollata alle offerte più strampalate. C’era davvero qualcuno in California che aspettava di essere chiamato per vendere un album di foto di sconosciuti? Sì, a quanto pare. Allora quel telefono doveva squillare. E all’altro capo della cornetta doveva esserci lei. Per raccogliere quella storia, per conoscerne il perché.

“The Future” sembrava appartenere sempre più al passato. Il presente adesso era entrare a far parte di quel mondo, ritrovare storie di uomini e donne comuni, intervistarli, chiedere quando è stata l’ultima volta che sono stati davvero felici nella loro vita e com’è la loro giornata. Se usano il computer, se ne sentono la mancanza e cosa farebbero se ne avessero uno nella loro camera da letto. Cercare di afferrare qualcosa che è vicina ma invisibile. Come i pensieri della donna che è in fila prima di te alla cassa, del ragazzo che ti siede accanto in metropolitana. Questa la causa, questo il fine della battaglia a cui si vota Miranda. Come in una ricerca, “a quest”. Per riguadagnare quell’empatia con gli umani che si sbriciola nel lavorio dell’esistenza, nel quotidiano tirare avanti.

Miranda abbandona la screenplay, si infila nella macchina con in mano una copia del Penny Saver – e con accanto la fotografa Brigitte Sire, autrice degli scatti presenti nel libro – e va a bussare a casa di sconosciuti. Per tredici volte. Incontra Domingo, Dina, Joe, “creepy people”, in cui si riconosce. Discende nel mondo, si guadagna un affaccio sulle vite degli altri per scoprire come la gente se la cava, come riesce a trovare il suo posto dentro il corpo che si ritrova, quella gente che per caso non avrebbe mai incontrato, persone di cui non avrebbe mai saputo il nome.

E mentre Miranda incontra i venditori del Penny Saver, dall’altra parte della sua testa “The Future” prende forma, un nome, diventa un copione in cerca di un finanziatore che voglia fare sua la causa di una film-maker indipendente. Miranda si sposa, continua a misurare la sua vita e quella delle persone che la circondano in anni, giorni, secondi. In figli. Magari farne uno allungherebbe la vita, soprattutto adesso che sposandosi, ha promesso ad un uomo di aspettare la morte insieme. Si è promessa alla morte davanti a tutti.

Tra una storia e l’altra, tra una vita e l’altra, tra un atto e l’altro – nella pausa è servito per l’occasione il “Penny Saver Cocktail” – Miranda racconta anche la sua di esistenza, quella che s’intreccia ai costanti processi creativi di casa a Los Angeles e quella che va in autostrada alla ricerca disperata di alterità, di quotidianità lontane, di ombre dietro le finestre. E a volte può capitare che queste due vite s’incrocino e che una di queste identità invisibili finisca dentro una pellicola. È quello che è successo a Joe, arzillo vecchietto finito nelle scene del film della July, nella parte di sé stesso.

Se “The Future” è un’ascesa, “It chooses you” ritorna verso il basso, per bussare alla porta di esistenze normali. Per scoprire, alla fine, che queste non esistono.

“It chooses you”, in virtù di una multiforme opera d’adattamento, diventa non solo spettacolo teatrale, ma anche un negozio. Miranda ha infatti aperto uno store a Soho, un punto vendita temporaneo dove trovare tutti gli articoli comprati da lei su Craiglist, tra cui colori ad olio rubati, bambole giapponesi, quadretti ricamati, una videocassetta con la storia di Los Angeles e non solo. Tutti rivenduti allo stesso prezzo, accompagnati dall’intervista al venditore. Subito esauriti.

Performer, video-maker, regista, scrittrice, Miranda July vive a Los Angeles. È suo il film “Me and you and everyone we know”, opera prima con cui ha vinto il premio Caméra d’Or al Festival di Cannes nel 2005, e la splendida raccolta di storie “No one belongs here more than you”. Il suo ultimo film, “The Future”, nonostante il Penny Saver, è uscito quest’estate negli Stati Uniti.

Qui tutto quello che scrive, crea, gira, pensa, disegna.

All – Points of view

(Lo stesso articolo, e molto altro, è sul sito di Prendi il Largo)

Quello che si dice del Guggenheim Museum di New York è che la struttura stessa del museo, simile ad un alveare perfettamente simmetrico, offuschi la pur nutrita collezione permanente al suo interno.

Effetto questo che lusingò alquanto l’architetto Frank Lloyd Wright, artefice dell’aspetto originale del museo, inaugurato nel 1959, così diverso dallo skyline geometrico di Manhattan e dalle facciate classiche degli altri musei, che impreziosiscono quello che a New York si chiama il Museum Mile. Siamo, infatti, in quella parte della Fifth Avenue che va dall’82esima strada alla 104esima e racchiude una delle più dense concentrazioni di cultura del mondo, un intero pezzo di Upper East Side fitto di musei, esposizioni, gallerie, ad un passo da Central Park.

Ma questa volta, a rubare la scena alla spirale in cemento armato bianco più famosa di New York, è l’irriverenza di Maurizio Cattelan, il controverso artista italiano originario di Padova ma ormai di casa nella Grande Mela, che ha scelto il Guggenheim di New York per “All”, la sua prima, e a quanto pare ultima, retrospettiva: 130 installazioni, tutte le sue opere, dai bambini impiccati che scandalizzarono Milano al pietoso Hitler in ginocchio, riprodotte e appese al soffitto del Guggenheim, dal punto più alto della galleria circolare, che scende a spirale in modo tale da far scorgere, ad ogni girone, che si percorra in salita o in discesa, un dettaglio, un altro personaggio, una scritta, un punto di vista non ancora colto. Il vuoto si riempie di colpo di un allestimento che diventa esso stesso opera d’arte.

“Questa retrospettiva rivoluzionerà il concetto di installazione nell’arte contemporanea”, si sussurrano i critici che vanno avanti e indietro lungo la galleria circolare, imbattendosi ad ogni passo in nuove e vecchie conoscenze. Come Charlie che non fa surf, inchiodato con le matite al banco, Papa Giovanni Paolo accasciato sotto il peso di un sasso e lo stesso Cattelan che sbuca curioso dal pavimento.

Tra lo stupore dei presenti anche il tubare dei “turisti”, così come li chiama Cattelan. E cioè i piccioni, tanti, in ogni dove, sulle opere, tra gli animali, gli stessi, sfacciati e criticati, che aveva esposto all’ultima Biennale di Venezia, imbalsamati e appollaiati sulle travi, caustica trasposizione della fauna umana che, secondo l’autore, rumoreggia e si trascina inconsapevole per le sale della mostra d’arte più famosa della penisola.

 L’intero concetto che sta alla base dell’installazione suona come uno sberleffo. Cattelan appende le sue opere come panni stesi ad asciugare. I cani imbalsamati guardano in faccia i muli appesi, i poliziotti a testa in giù si ritrovano di fronte agli scheletri. Sembra quasi di sentir risuonare le sue risate. Ma tra i musi tristi degli animali immobilizzati nella cera, le sagome intrappolate nel nastro adesivo e le vecchie impaurite nascoste nei frigoriferi, la gravità, quella fisica delle opere attirate verso il basso, e quella più labile e sottile, travolge ogni volto affacciato ai corrimano della galleria, investito da una miriade di piccole e grandi scene. Come se una costante presenza della morte, racchiusa tutta in un tristissimo Pinocchio che si suicida in uno stagno, aleggiasse tra i fili metallici dell’installazione, facendo, alla maniera di Molière, d’ogni risata un ghigno, d’ogni sorriso una smorfia.

Per l’occasione, il Solomon R. Guggenheim Museum di New York ha messo a punto, per la prima volta nella storia del museo, un’applicazione per smartphone, in grado di offrire ai visitatori, ma anche agli utenti non presenti fisicamente, una panoramica sulla retrospettiva, completa di spiegazioni su ogni opera d’arte, virtual tour e commenti degli artisti che hanno collaborato all’allestimento.

L’installazione è completamente appesa al soffitto. Non ci sono opere sul pavimento. Ma potrà capitarvi di scorgere una sagoma ridacchiante distesa a pancia in su: è il solito newyorchese strampalato che vuol vedere cosa si prova a guardare in faccia tutto l’estro di Cattelan. Sembra non ne possano fare a meno. Stranezze da grande mela.

Con questa retrospettiva, Cattelan dà il suo addio alle scene e si ritira dal palcoscenico dell’arte contemporanea. Tra i presenti, ci si chiede cosa significhi questo annuncio da parte di un tragicomico pittore dei nostri tempi, che ha abituato il suo pubblico alle sorprese. Il punto culminante della sua carriera coincide per ora con un saluto, quasi come se, ossessionato da sempre dalla paura del fallimento, Cattelan volesse abbandonare tutto e sparire nel pieno della sua fortuna.

Lui in fondo l’aveva detto. Nel titolo di una delle sue sculture. “Working is a bad job”.

Maurizio Cattelan: All, Solomon R. Guggehneim Museum, 1071 Fifth Avenue, New York, dal 4 novembre al 22 gennaio 2012.

Zuccotti Park memories

A poco più di una settimana dallo sgombero, Zuccotti Park resta vuoto. Neanche l’attesissima giornata campale del 17 novembre, con la marcia a Union Square e sul ponte di Brooklyn, è servita a ripopolarlo. Ad occuparlo adesso ci sono transenne e un manipolo di irriducibili clochard. E poliziotti. Tanti, forse troppi. Obbligati a fare la guardia al niente, al silenzio, agli echi di quella che era una ben più rumorosa protesta.

I tamburi, il patchwork di tende, i cartelli, la cucina. Non è rimasto più niente a Liberty Square. Solo la nostalgia di quello che sembrava un nuovo inizio per tanti, un gioco chiassoso per altri, spazzato via in una notte di gas lacrimogeni, urla e torce accese d’improvviso. Una certa amarezza che neanche le luci di Natale sugli alberi, generosa pensata del clemente sindaco Bloomberg, riescono a dissipare.

Mentre il mondo si interroga sul futuro di Occupy Wall Street, agli occupanti restano un pugno di speranze e tanti ricordi. Noi abbiamo provato a fermarne qualcuno su una pellicola.

Qui il link alla storia di Dan e Mia, un giorno, una notte, la pioggia e le attese di due ragazzi al centro della storia.

Qui il link a tutto il resto del documentario, Occupy Wall Street visto e raccontato da una tenda di Zuccotti Park e dai piani alti del Financial District.

New room, new home, New York City

Da Manhattan a Brooklyn, trasloco veloce e indolore, dai palazzi di vetro ai sobborghi della Grande Mela. I marciapiedi si allargano e i tetti si abbassano, scompaiono i taxi gialli. Il mio corre sul ponte di Brooklyn, si lascia alle spalle Manhattan. Si spegne Times Square e saluta Midtown.

Direzione il quartiere di Williamsburg, annunciato dal ponte che attraversa l’East River. New York rallenta il ritmo, riprende il respiro. Gli accenti portoricani convivono con i riccioli ebrei e le felpe della The North Face abbinate a cappucci calati sugli occhi. Le ruote frenano a Lorimer street.

Metto i piedi a terra. Chiudo anche io la porta, mi butto sul letto e guardo il soffitto della mia nuova ennesima stanza. Sposto lo sguardo un poco più oltre, guardo fuori dalla finestra, scivolo sugli alti e bassi dei grattacieli di Manhattan, che si arrampicano fino al quinto piano, ammiccano da lontano nella notte e quasi si nascondono durante il giorno tra le tende e la nebbia che affolla il cielo di una New York appena sveglia. Rispondo con un sorriso idiota all’Empire State Building che si affaccia nella mia stanza.

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Sono a casa. Di nuovo. Sul soffitto altre forme. Dalla finestra altri rumori, mai sentiti.

Tutti i traslochi e le case di questo strampalato 2011, le valigie sempre piene, da fare e disfare ogni mese, i taxi che non si fermano, i nodi in gola e quelli che alla fine sono venuti al pettine, gli sbuffi degli autoctoni pigri, i “can you repeat, please?”, i “j’ai pas compris”, le lacrime, le metro perse e quelle sbagliate, le etichette ambigue dei surgelati e le facce incredule davanti alle sedicenti marche italiane ai supermercati, le notti bianche, i portafogli rubati, la nostalgia banalissima del caffè e della pizza, le parole che non avrei mai voluto sentire e quelle scappate per sempre, le indicazioni incomprensibili e i marciapiedi ricoperti di ghiaccio.

Mi è bastato alzare gli occhi e guardare il soffitto per non sentirmi più stanca di tutto questo. Vederci un’altra vita che prendeva forma. Non più solo quella vecchia che ritornava insistente. Non più ricordi. O perlomeno non solo. Immaginarmi altre strade che ancora non ho attraversato. Le porte ancora da schiudersi. Gli indirizzi che imparerò a memoria. Le mani da stringere e i nomi da ricordare. Una nuova metropolitana da decifrare. Una geografia tutta da scoprire.

Niente mi è sembrato più faticoso al pensiero di poter avere sempre nuove stanze. E nuovi soffitti.

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Affacciandomi sull’East River, alla fine ho deciso di dare una chance a questa città: è troppo grande e troppo bella per lasciarle lo spazio di un paragone, per concederle solo le pause tra una nostalgia e un interrogativo. E ha la sola colpa di andare troppo veloce, di essere troppo sfuggente per poterla afferrare al primo colpo.

Sono in una città che si dilata. Ad ogni passo sembra espandersi sempre più. Si allarga e si allunga, rimanda ad atre altezze, ad altri ponti. Sembra infinita, come l’oceano che l’abbraccia. Le strade s’intrecciano formando un reticolato di numeri che si srotola lungo tutta Manhattan e continua a diradarsi in ogni direzione.

Come se tutto dovesse moltiplicarsi e imporsi, per sopravvivere alla velocità.

Ho deciso di attraversare il ponte e lasciarmi stupire, senza cercare a tutti i costi di comprendere. Solo per il gusto di perdermi in questa fitta rete di strade e verticali. Di lasciare che questa avventura, cominciata a due passi dai ribelli più famosi di tutto il mondo, provi a rivoluzionare le mie giornate.

E dal ponte di Williamsburg non è difficile dire addio a tutto il resto. O almeno un arrivederci.