L’avvento

“Il luogo ideale per me è quello in cui è più naturale vivere da straniero”. Lo scriveva Italo Calvino, come una professione di fede, una vocazione all’alterità che lo condusse, oltre a perdersi nei meandri della letteratura e nei tanti e verdeggianti sentieri dei boschi narrativi, anche tra le strade di Parigi, città che lo accolse nel suo spleen e che elesse a seconda patria.

A pochi giorni dalla mia partenza dalla Francia, che coincide fortuitamente con la fine dell’anno, mi risparmio i bilanci, le liste, le cose fatte e i desideri ancora da realizzare. Metto in un cassetto i biglietti della metropolitana, l’abbonamento ai mezzi, la cartina della città, ormai inutilizzata da anni. Lascio da parte la voglia di camminare, disperdendomi in inevitabili compiti burocratici, il lavorio quotidiano, gli armadi da svuotare, le ultime lettere da inviare. Occupo la mente, costruisco piste di treni e torri altissime, racconto storie su mondi inventati, sforno torte alla cannella e soffio sulle bolle di sapone.

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Paris, jardin Shakespeare

Tre giorni consecutivi di sole a Parigi, la temperatura sale sopra i 15 gradi e da domenica c’è anche il cambio dell’ora. Fa buio intorno alle 8 di sera e dagli alberi si levano cori di pennuti allegri. Ormai è definitivamente primavera, devo farmene una ragione. Fatta eccezione per lo scorso anno, quando me ne andavo in giro per la città con il mio pancione da 16 chili e sorridevo beata, e beota, a ogni bocciolo, la primavera parigina mi ha sempre provocato un po’ di tristezza, il sole in città mi fa venire voglia di tirare le tende e fare finta che fuori sia grigio, restare sul divano con un libro e una tazza di tè, illudermi che sia ancora autunno, la mia stagione preferita, o almeno inverno.

Quando fuori è solo “pioggia e Francia”, è come se Parigi mi piacesse di più. Da buona meridionale, con il sole e il caldo, cerco l’ombra e le prime tiepide giornate primaverili mi piace godermele al fresco di un albero o, se proprio non c’è verde intorno, almeno sotto un ombrellone o un porticato. Di conseguenza, la psicosi collettiva per accaparrarsi un posto al sole non m’ha mai contagiata. Senza contare che primavera a Montmartre fa rima con strada di casa ingolfata di turisti che ti guardano storto se temporeggi sul marciapiede per trovare le chiavi di casa; concerti di fisarmonica e chitarra spagnola sotto la finestra dalle due del pomeriggio al tramonto (e il tramonto, ahimè, arriverà sempre più tardi); autobus e funicolare sempre pienissimi; cori di viandanti ubriachi e bottiglie rotte a notte fonda.

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Insomma, amo Parigi in autunno, con il colore caldo delle foglie, con l’aria fresca e il profumo d’erba, le prime piogge, il vento che solletica le narici, le giornate corte e i pomeriggi languidi. Il tepore primaverile mi abbatte e mi spegne.

Premesse polemiche a parte, per sopravvivere alle orde di parigini galvanizzati dall’inizio della bella stagione, e per sfuggire agli insopportabili pomeriggi en terrasse, stretti al tavolino di un caffè, spesso a pochi metri dal manto stradale e sommersi dalle chiacchiere dei vicini, c’è qualche rifugio a portata di metropolitana, ovvero i boschi. Da Montmartre, il più vicino, a una decina di fermate, è il Bois de Boulogne, enorme distesa verde alle spalle dell’Université Paris 7. Non che il bosco non sia preso di mira dalla fauna cittadina, ma è sufficientemente grande e abbastanza selvaggio da consentire di dimenticarsi di essere a Parigi, almeno fino a quando non spunta il profilo della Tour Eiffel, poco lontana.

Da un paio d’anni il Bois de Boulogne è una destinazione fissa, almeno una volta a settimana, eppure ci sono angoli sempre nuovi, sentieri che ancora non abbiamo esplorato, intere porzioni di foresta dove non abbiamo mai messo piede o, se l’abbiamo fatto, la vegetazione è talmente cambiata da confonderci e da sembrare sempre nuova. In fondo, è grande circa tre volte Central Park! La scorsa settimana, eravamo alla ricerca della Fondation Louis Vuitton, alla quale non siamo mai arrivati, ma abbiamo trovato il Jardin du Pré Catelan, un giardino botanico situato tra il lago inferiore e il parc de Bagatelle, almeno secondo le carte.

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La storia dice che a dare il nome a questo giardino fu il capitano di caccia di Luigi XIV, Théophile Catelan. Un altro personaggio, tuttavia, un trovatore di nome Arnault Catelan, sembra avervi trovato la morte, nell’atto di portare a Filippo il Bello dei doni d’amore da parte di Beatrice di Savoia, contessa di Provenza. Un tempo splendido parco d’attrazione, con la latteria che spillava latte fresco, le giostre, i concerti, le passeggiate in velocipede, il giardino non è sopravvissuto alle scorrerie di rivoluzionari e soldati e si spense a fine Ottocento.

Oggi, il parco ha le sembianze di un giardino incantato. Quasi troppo perfetto per essere vero. Tulipani, narcisi, viole del pensiero, sono diligentemente disposti a formare sentieri e vialetti, geometrie floreali, coreografie di verde, tutto è minuziosamente piazzato per comporre un quadro estetico simmetrico e perfetto, sebbene un po’ inquietante. Ci si aspetta che, da un momento all’altro, un tulipano possa esplodere o una viola del pensiero mutarsi in pianta carnivora. La latteria oggi è uno chalet, vuoto, una sorta di rifugio di pianura, dove non c’è più nessun concerto, né velocipedi. Qui è la natura a offrire lo spettacolo più impressionante, perché tra i graziosi recinti di fiori e le aiuole squadrate, svettano alberi magnifici, araucaria, sequoie, magnolie, uno splendido faggio color porpora.

E, poco prima di ritornare alla porta d’ingresso, un angolo di verde fa bande à part. È il Jardin Shakespeare, arena scavata nel verde, ispirata a cinque opere del bardo, composta da cinque giardini tematici e un anfiteatro fatto d’erba, e c’è perfino una cavea per i musici di scena. Arrampicandosi su un lato del teatro, cortine di cespugli, profumo d’erbe aromatiche, Puck il folletto soffia e ti scompiglia i capelli, Titania e Oberon ti sussurrano all’orecchio filastrocche incantate: siamo in un Sogno di una notte di mezza estate. Basta cambiare direzione e ci si ritrova tra brughiere, il tasso che s’infittisce e un ruscelletto che scivola tra le pietre e piange la sorte di Ofelia, è il decoro di Amleto, mentre una vegetazione più selvatica, densa e scura evoca la foresta di Arden e le scenografie di Così vi piace. Prospero, Lady Macbeth, Calibano, sono gli altri personaggi che popolano queste frasche, nascoste nel cuore del bosco.

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Una delle cose positive della bella stagione a Parigi è che questo giardino diventa un vero teatro, dove si recita, soprattutto Shakespeare, ça va de soi, all’aria aperta e al fresco. Altrimenti, il giardino è aperto tutti i giorni, dalle 14 alle 16, per le contemplazioni solitarie, di gran lunga le mie preferite, nel silenzio dove Parigi può ancora mostrarsi per quella che è, una città di sorprese, all’angolo della strada o semplicemente nascoste dietro il tronco di un albero.

 

Qui il sito del teatro, con il programma degli spettacoli.

 

 

 

 

 

 

 

Storie di una ferrovia

Era un confine ogni albero che il treno varcava
spogliando i rami del loro fogliame di corvi,
e quel delirio d’ali nere nell’aria
arsi frammenti erano d’una lettera
che tenteremmo invano di ricomporre.

Legno, bulloni e metallo. Sedili di pelle scura e tendine consunte che svolazzano fuori dal finestrino. Fuori, terra rossa, grano arso, muretti a secco, l’immancabile discarica personale dei soliti ignoti e poi, all’improvviso, ogni tanto, fa capolino anche il mare. I vecchi binari delle Ferrovie Sud Est sibilano nelle campagne più aride e rocciose, spuntano improvvisi, tra una duna di sabbia e un mandorlo, ricoperti di olive schiacciate o di fichi troppo maturi, nascosti dietro i profili delle vele nel porto di Gallipoli, camuffati dalle spighe lungo le tratte ormai abbandonate.

Prendere il treno nel Salento è una predisposizione dell’anima. Sceglierlo di proposito, poi, negandosi alle mostruose corriere e alle automobili personali, è quasi una filosofia di vita. Perché sul treno è più facile leggere, e c’è più spazio per le gambe, anche se d’estate, nei vecchi vagoni delle Ferrovie Sud Est, le cosce restano incollate sui sedili di pelle e il gancio per fermare la tendina della finestra spesso è rotto e il vento te la fa svolazzare sulla testa. Nel treno di ritorno da Lecce, ad agosto, ci si addormenta per il caldo, per illudersi di sfuggire alla liquefazione. E il posto te lo devi contendere con i venditori ambulanti e i loro sacchi di merce a poco prezzo e gli innumerevoli alunni di liceo e scuole medie, con cartella annessa e squadrette sporgenti fuori dallo zaino.

Sì, ma il treno. Il treno da Matino a Lecce è una passeggiata nella campagna, un quadro che scivola fuori dal finestrino. Arrivati alla stazione di Aradeo, a circa metà strada, gli alberi sono talmente rigogliosi da avere l’impressione che bussino alla finestra e ti sfiorino le guance. E poi ci sono le stazioni, tutte uguali eppure una diversa dall’altra. C’è quella minuscola di Zollino, persa nella Grecìa Salentina e, inspiegabilmente, snodo principale di numerose tratte. Quella di Nardò centrale che, in barba al nome, è un mondo sparito di palme e d’ulivi e di spighe di grano. Quella di Novoli, dove, secondo una logica sconosciuta, arriva il treno diretto a Lecce, si cambia vagone e si torna indietro.

Ci sono case cantoniere che diventano presidio del libro, che cominciano ad accogliere viaggiatori, dove il controllore e il guardiano sono sempre gli stessi da anni e, quando torni a casa, stravolta, cresciuta, con i capelli di un altro colore, ti riconoscono sempre. Vittima di una reputazione che le fa torto, la ferrovia salentina è dimenticata dai più, mentre è talmente capillare da poter essere usata anche come fosse una metropolitana. Conosco almeno una decina di persone che prendono il treno per andare in palestra, andare a cena da un’amica e tornare, fare la spesa.

Con un treno sgangherato, si andava a Lecce al liceo, quando si marinava la scuola. Un taccuino, una penna e il libro di Chatwin sulla Patagonia, e qualche spicciolo per i biglietti, quello che avevo in tasca quando sono andata in treno a Galatina, perché il professore Luigi Mangia, non vedente, mi spiegasse, con una rara intensità, lo spettacolo degli affreschi della Basilica di Santa Caterina d’Alessandria, per uno dei miei primi articoli. Sono tornata a casa, leggendo le fughe di Alice Munro, in treno, un pomeriggio d’estate, il giorno dei funerali di mia nonna. Mille lunedì mattina ho preso il treno per Lecce, ai tempi dell’università. Insieme ad una persona speciale, ho attraversato quasi tutta la penisola in treno e una volta, approfittando della desolazione dei vagoni, abbiamo chiuso il finestrino e ignorato lo spettacolo del paesaggio.

In treno
(Biglietto a N. e a V.)

Quanto manca d’azzurro a questo cielo
starò forse vivendolo con voi
mentre diagonalmente il finestrino
riga la pioggia, formandovi labili
topografie in cui il primo pensiero
è quello di trovare un luogo per collocarvi
coi vostri mille volti.
Dell’angoscia la servizievole tela
così si sperde mentre percorre vie
labirintiche e vengo in cerca di voi
in cangianti città di gocce d’acqua. 

Da decenni, nel Salento, la littorina avanza a 50 km all’ora, “piena di ruggine lenta, come qualcuno pensa a un treno”, canta Paolo Conte. Si ferma in tutte le stazioni, una carrozza si stacca, si cambia vagone all’ultimo momento, i controllori sbuffano, imprecano in dialetto e quasi nessuno sa dirti in che direzione si va e a che ora si parte. E io, arrabbiata, sudata fino alle dita dei piedi o infreddolita per l’aria condizionata che in carrozza segue ritmi circadiani incomprensibili, salgo a bordo per un viaggio immaginario, piccole ordinarie emancipazioni, minuscoli momenti di libertà, con l’unica ottima compagnia della solitudine del paesaggio, lo zaino in spalla e il fischio del capotreno.

Ecco perché mi sembra di esserci stata anche io su quei due convogli esplosi in piena campagna. Mille volte. E di aver avuto, ogni volta, la fortuna di arrivare a destinazione. E oggi ho una voglia insensata di tornare a casa e prendere un treno qualsiasi, di sentire quel vecchio rumore di ferraglie e guardare fuori dal finestrino. E Parigi, con i suoi treni ad alta velocità, gli autobus precisi e affidabili, le mostre di fotografia concettuale nella metropolitana, oggi la sopporto a malapena.

Le poesie sono di Vittorio Bodini.

Soundtrack: Il treno va, Paolo Conte

 

 

L’analfabeta

Quando nel 2010 sono atterrata in Francia, la mia prima coinquilina è stata una ragazza di Marsiglia, studentessa in Infermeria. La sua cadenza del Sud, il ritmo più lento, le vocali più aperte, mi hanno illuso di poter afferrare con facilità, sin dal primo giorno, ogni conversazione nella lingua d’oltralpe, idioma che ho studiato con passione per quasi tredici anni. L’incontro con i parigini, invece, è stato sconfortante. Tra il verlan e l’argot, e la velocità tipica della parlata della capitale, sono tornata a casa più volte con la coda fra le gambe e il sogno infranto di una mancata integrazione linguistica.

Per arrivare a intervenire e conversare in ogni registro, con ogni tipo di interlocutore, ci sono voluti anni. Anni di “Pouvez-vous répéter, s’il vous plait ?”, di letture con la matita tra le mani per sottolineare i vocaboli sconosciuti, di film con i sottotitoli e, come scriveva Emil Cioran, “lettere d’amore scritte con il dizionario” in un’avventurosa educazione sentimentale che, per me, iniziava da un libro di grammatica. Ho corteggiato la lingua francese con testardaggine e abnegazione, senza essere sempre ricambiata. “Un desiderio non è altro che un bisogno folle. […] Ci sarà sempre qualcosa di squilibrato, di non corrisposto. Mi sono innamorata, ma ciò che amo resta indifferente. La lingua non avrà mai bisogno di me”, è quanto scrive Jhumpa Lahiri, scrittrice di origini indiane, cresciuta in America, innamorata dell’italiano, in esilio linguistico a Roma per essere circondata dal suo idioma straniero preferito.

L’ebbrezza di sentirsi analfabeti e di poter riscrivere la realtà, in altre parole. È come svegliarsi la prima mattina in una nuova città, mettere i piedi in un aeroporto sconosciuto, fare qualcosa per la prima volta, ritrovarsi in una situazione di disagio, certo, di scomodità, di voluta precarietà, ma anche di eccitazione, stupore, meraviglia. “Mi piace lo sforzo. Preferisco le limitazioni. So che mi serve, in qualche modo, la mia ignoranza. Nonostante le limitazioni, mi rendo conto di quanto l’orizzonte sia sconfinato”, scrive ancora Lahiri, “quando scopro un modo diverso per esprimermi provo una specie di estasi. Le parole sconosciute rappresentano un abisso vertiginoso, fecondo. Un abisso che contiene tutto ciò che mi sfugge, tutto il possibile”.

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Oggi, il francese è diventata la lingua principale della mia quotidianità: i miei pensieri sono in francese, sogno in francese, quando discuto a tu per tu con lo specchio il più delle volte lo faccio in francese, per chiamare e giocare con gli animali di casa uso il francese, la persona che amo parla francese nonché la maggior parte dei miei autori preferiti. È come un’altra parte della mia personalità, la possibilità di un’altra versione di me stessa, che ho voluto salvaguardare anche quando Parigi, e con lei tutti i francesi, erano, pensavo, un capitolo chiuso. E non solo. Quando parlo con la mia famiglia, il francese è sempre dietro l’angolo, s’infila nelle frasi, inventa vocaboli nuovi, cambia gli accenti, stravolgendo il mio italiano e dando vita a una sorta di linguaggio ibrido, fatto di calchi, prestiti, adattamenti spesso improbabili.

Se, come diceva Rudolf Steiner, “ogni lingua dice il mondo a modo suo”, chi ne possiede più di una gode sicuramente di un mondo più intenso, un orizzonte più ampio. Oggi che un esserino di nome Émile è entrato nella mia vita, mi piacerebbe potergli insegnare la mia lingua, vorrei che domani avesse un mondo più grande, e almeno due aggettivi per descrivere ogni cosa, due nomi da poter dare a ogni emozione, esperienza, ricordo. Crescere un bambino bilingue, nella mia testa lo immaginavo già da tempo. Quello che non sapevo è che sarebbe stato così difficile. Tornare all’italiano ogni giorno, per raccontare le cose più semplici, dire ad alta voce il nome degli oggetti, contare fino a dieci, mi riesce più arduo di quanto pensassi. La voce risuona artificiale, quasi non la riconosco. Le parole scivolano, sono inadeguate, approssimative. Percepisco la stessa precarietà del muovermi nel buio in un continente sconosciuto. Non credevo ci si potesse sentire analfabeti nella propria madrelingua.

Agota Kristof, scrittrice ungherese, naturalizzata svizzera, racconta la precarietà di essere stranieri e incapaci di esprimersi nella breve autobiografia L’analfabeta, undici scarni e intensi episodi dove la lingua francese uccide lentamente la sua madrelingua, incuneandosi nella memoria, nelle abitudini, sul foglio bianco, stravolgendo le parole, l’udito, la percezione della realtà. Una lingua da imparare per necessità, per sopravvivere all’esilio e alla solitudine, per poter scrivere e salvarsi da un abisso inevitabile. Tuttavia, una lingua acquisita, che non si parlerà mai correttamente e non si scriverà mai senza errori: “Questa lingua , il francese, non l’ho scelta io. Mi è stata imposta dal caso, delle circostanze. So che non riuscirò mai a scrivere come scrivono gli scrittori francesi di nascita. Ma scriverò come meglio potrò. È una sfida. La sfida di un’analfabeta” , così scrive Agota. Una sfida che riuscirà a vincere: oggi Agota Kristof è considerata una delle più grandi esponenti della letteratura francofona, ma negli ultimi anni della sua vita non riusciva più a utilizzare l’ungherese, che aveva relegato a lingua della memoria.

Oggi torno indietro nel tempo a quando l’italiano era l’unica lingua che potessi immaginare, a quando gli oggetti, le emozioni, i colori avevano tutti un solo nome. Ho preparato un elenco di libri, di cartoni animati, di canzoni, di poesie, per tornare a studiare la mia lingua, per riportarla in vita e poi riuscire a insegnarla. La sfida dell’analfabeta. O meglio, ancora una volta una lettera d’amore che ha bisogno di un dizionario. E che non vedo l’ora di scrivere.

Soundtrack: Sharon Van Etten, You know me well

Ho stilato una piccola sitografia a uso dei neofiti del bilinguismo per bambini. Consigli, dritte e suggerimenti di altri siti o libri sono i benvenuti!

Sostiene Pereira

A settembre, di ritorno dalla Grecia, sono partita per la Francia, per ritrovare quello che mi sembrava perso per sempre, per ritornare sulla strada di casa e verificare che ci fosse ancora il mio nome sulla cassetta delle lettere. Lo zaino sulle spalle, una valigia, un cuore gonfio di attese. E in tasca due biglietti per il Portogallo, un viaggio da cui non siamo forse più tornati.

Il Portogallo è stato una parentesi irreale tra una partenza e l’altra, venti giorni di viaggi, treni regionali, azulejos, sardine, oceano, luna blu, fado, fiumi, porto. Tornata a casa, non ho nemmeno fatto in tempo a svuotare le valigie, a soffiare via la sabbia dai libri, a segnare sulla guida cosa avevo scoperto. Di capire cosa avessi perso e cosa avessi finalmente guadagnato. Un nuovo decollo, una nuova vita improvvisa si faceva già largo senza chiedere il permesso.

oceano

La musica di Coimbra, la malinconia di Porto e il sole di Lisbona, sono tornati a farmi visita nottetempo, in questi giorni d’insonnia, richiamati forse dai libri di Tabucchi sul mio comodino. Il rumore delle onde è venuto a svegliarmi, come le notti trascorse in riva all’oceano, in rua do Oceano Atlântico, nella regione di Salgado, Portogallo centrale, nella Casa Azul di Fernanda, 80 primavere impregnate di salsedine.

Pereira traduceva romanzi francesi dell’Ottocento, curava la pagina culturale del Lisboa, giornale indipendente, parlava al ritratto di sua moglie e pensava a Monteiro Rossi e alle sorti dell’Europa e all’imminente avanzata del fascismo, davanti a lui un piatto di omelette alle erbe aromatiche e una limonata senza zucchero. E io intanto, ai piedi della Basilica di Montmartre, torno a salutare gli studenti di Coimbra, ammantati da una cappa nera, a inseguire il vento che spettina il fiume Douro a Porto, la brezza che increspa il Tago, ad aspettare il sole sulla sabbia fatta di minuscole conchiglie a Nazaré.

Come racconta Tabucchi nelle ultime pagine del libro, i personaggi che aleggiavano nell’etere da troppo tempo prendono forma davanti agli occhi di notte, ologrammi di autobiografie altrui, “un baule pieno di gente”, che si apre magicamente al tramonto e popola le mie giornate, infischiandosene dei primi scampoli di primavera a Parigi.

“La smetta di frequentare il passato, cerchi di frequentare il futuro”, consiglia il dottor Cardoso a Pereira, eppure, a volte ci si lascia semplicemente naufragare in una stupida nostalgia, “di cosa non saprebbe dirlo, sostiene Pereira”, di qualcosa di vago. Di un semplice altrove. Di una vita passata e di una vita futura.

Image © Adams Carvalho

Soundtrack: Rodrigo Amarante, Tardei

Racconto del Portogallo anche nell’articolo La mia Coimbra scritto per Q Code Magazine e letto a voce alta per l’emissione radiofonica argentina Vieni via con me

A cena sulla Place du Tertre

Abito a circa trenta metri dalla Place du Tertre, il quadrilatero più celebre di Parigi, regno di pittori e musicisti di strada, assediato dai venditori di souvenir e preso d’assalto dai turisti. Chi mi conosce, sa che spesso ai rumori della piazza, alla rue Norvins intasata, all’ennesima fisarmonica sotto la finestra che strimpella la colonna sonora del fantastico mondo di Amélie per tutto il pomeriggio, ai turisti che ti si sbattono contro nel tentativo di trovare l’inquadratura perfetta, sono più che insofferente. E, in un periodo di scarsa mobilità, le salite di Montmartre mi dissuadono anche dalla minima passeggiata.

Nonostante gli inconvenienti, tuttavia, il villaggio di Montmartre (attenzione a chiamarlo quartiere, gli abitanti storici potrebbero correggervi) riserva un suo particolare fascino, sconosciuto a chi ci si perde solo per il tempo di trovare il Moulin Rouge. Di notte, nelle strade cala il silenzio, la Basilica diventa quasi spettrale e, sabato scorso, per la prima volta dopo tanti anni a Parigi, ho sentito le campane annunciare la Pasqua a mezzanotte. Lungo la rue Lamarck, che abbraccia il Sacro Cuore, oppure più giù, seguendo la rue Caulaincourt, all’improvviso si aprono squarci d’incanto su tutta la città. Le strade disertate dai turisti nascondono i segreti più belli, come la rue Saint-Vincent, che costeggia i vigneti di Montmartre (sì, c’è un piccolo vigneto e ogni anno si producono circa 300 bottiglie di rosé), ospita alcune delle residenze più belle dell’intera area e cela un giardino selvatico, aperto solo due volte l’anno.

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Per sopravvivere forse alla concentrazione anomala di curiosi e viaggiatori, gli abitanti di Montmartre sono più inclini alla socialità del resto dei parigini, secondo la mia esperienza personale e dopo circa un anno di vita nei quartieri, almeno geograficamente, “alti”. Per preservare l’antico villaggio di un tempo, o salvaguardarne l’atmosfera, ci si saluta per le strade, i commercianti diventano conoscenti, nascono appuntamenti spontanei che diventano piacevoli abitudini, come il rendez-vous dei cani del quartiere, tutti i giorni dalle 18 in poi di fronte al celebre cabaret del Lapin Agile, sulla rue des Saules.

A volte, tra gli stessi parigini, ci si chiede se ci siano persone normali che abitano i dintorni della place du Tertre e se gli appartamenti con le travi a vista e i fiori alle finestre che ammiccano dalle viuzze di Montmartre non siano in realtà costosissime camere disponibili su AirBnb. Ecco perché, per dimostrare che, sì, ci sono normalissimi individui, dalla routine più che ordinaria, domiciliati nei dintorni della piazza, ma soprattutto per farli incontrare, nasce, dalla mente vulcanica di Frédéric Loup, farmacista di Montmartre nonché presidente dell’associazione dei commercianti della collina ai piedi della Basilica, l’iniziativa dei diners des riverains, ovvero la cena tra vicini.

A fare da padroni di casa, i ristoratori della place du Tertre, famigerato quadrilatero dove gli indigeni non osano avvicinarsi o, se proprio devono, lo fanno a occhi bassi e passo svelto (sottoscritta inclusa) per non essere avvicinati dal caricaturista di turno e schivare i selfie stick dei turisti ipnotizzati. “L’idea è quella di rimediare alla brutta reputazione della piazza e dei suoi esercizi commerciali”, spiega Frédéric, “di far sì che gli abitanti del quartiere si riapproprino di un luogo collettivo e, perché no, se hanno voglia di cenare fuori, senza prendere la funicolare, scoprire i tanti ristoranti e trattorie del posto”.

Un aperitivo in farmacia, a saracinesca mezza abbassata, inaugura la prima cena. Imbarazzi, risate, bicchieri di rosato dalle vigne di Montmartre e presentazioni per tutti. La prenotazione al Cadet de Gascogne, il ristorante prescelto per cominciare, è per 15 persone, ma alla fine siamo in 35, una lunga tavolata allestita al piano di sopra, con vista sulla piazza e atmosfera da chalet di montagna. Durante la cena ci si mescola e ci si conosce ancora di più. Scopro che nel palazzo che chiude la rue du Mont-Cenis, gli inquilini s’invitano a cena a vicenda già da tempo, si lasciano i croissant caldi sul pianerottolo e si conoscono tutti. Alexander, d’origini libanesi, seduto di fronte a me, abita nell’appartamento più alto di tutta Parigi, con un panorama a 360 gradi su tutta la città. Oggi commerciante di pietre preziose, è stato attivista in Libano, fisioterapista e, per un indimenticabile anno italiano, membro della giuria delle selezioni regionali di Miss Italia.

Accanto a me, invece, padre Sonnier, curato della piccola chiesa di Saint-Pierre che, ignota ai più, si nasconde discreta dietro le cupole imponenti della basilica. Da cinque anni padrone di casa, il curato conosce tutti gli abitanti del quartiere, ma soprattutto tutti conoscono lui, grazie al “footing del curato”: ogni domenica, durante la bella stagione, padre Sonnier raduna un gruppo di amici e corre intorno alla Basilica e nelle strade meno trafficate del quartiere, un itinerario aperto a tutti e per tutti.

“Restiamo solo per l’aperitivo e poi andiamo via”, ci siamo detti a casa prima di partire. Siamo rimasti fino a mezzanotte inoltrata. Perché, a volte, per riappropriarsi di uno spazio collettivo basta semplicemente andare a cena.

Per iscriversi e partecipare, bisogna recarsi alla farmacia di Frédéric, all’angolo tra rue du Mont-Cenis e rue Cortot (oppure passatemi parola). La prossima cena è giovedì 14 aprile, al ristorante Chez Eugène

Soundtrack: Chilly Gonzales, Gogol

Illustration © Sergey Kravchenko

Parigi, o la Nuova Atene

Esistono angoli di Parigi che ho attraversato per anni, di corsa, stazioni della metropolitana dove non ho mai avuto l’occasione di fermarmi, interi quartieri che vivono all’ombra di uno scorcio più celebre, offuscati dalla reputazione di un paio di strade e boulevard, viali anonimi, immersi nel silenzio dell’esistenza quotidiana, che non ha niente da spartire con gli itinerari turistici, li week-end nella Ville Lumière, e che assomiglia spesso a un tentativo di resistenza, più o meno originale, in una città in grado di fagocitare sogni, progetti ed energie. È il caso del nono arrondissement, ultima scoperta di uno di questi pomeriggi d’inverno.

Per inoltrarsi nel quartiere, basta prendere la giusta traversa, lasciarsi alle spalle i rumori e le boutique della rue des Martyrs, per immergersi nell’atmosfera della Nouvelle Athènes, la nuova Atene, una parte della città, alle spalle dello sgangherato boulevard de Clichy, a pochi metri dalle insegne chiassose di Pigalle e ritrovare il piacere di camminare nel passato, in una dimensione sospesa, dialogare con gli inquilini di una Parigi che fu, escludersi, per lo spazio di un quartiere, dalla contemporaneità.

Sulla soglia della square d’Anvers, alzando lo sguardo, si scorgono ancora le cupole della Basilica del Sacro-Cuore ma Montmartre, insieme ai suoi trenini turistici, le crêperie di dubbio gusto, i negozi ammiccanti, sembra lontanissima. Qui la vita di quartiere rallenta, alcune strade sono addirittura vuote e si può avanzare, da un isolato all’altro, seguendo le travagliate vicende delle residenze storiche, le targhe che indicano dove un tempo abitava uno scrittore o un musico, tuffarsi in un altro secolo e dimenticarsi del presente.

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La Basilica del Sacro-Cuore, vista dalla Square d’Anvers

È ai piedi del monumento allo scultore Paul Gavarni, cuore della place Saint-Georges, che si contano già tutti gli elementi tipici dell’architettura del quartiere: le residenze sontuose, le eleganti statue da strada, la presenza delle lorette, figura tipica, eufemismo da gentiluomini per definire le cortigiane del quartiere, ai tempi di Luigi Filippo, durante la Monarchia di Luglio, personaggio immortalato da Émile Zola nel suo romanzo Nana. Il busto di Gavarni fronteggia con irriverenza l’Hôtel Tiers, oggi centro di ricerche umanistiche e biblioteca, un tempo dimora di Adolphe Thiers, primo presidente della Terza Repubblica Francese, e l’Hôtel della marchesa di Païwa, celebre lorette, più fortunata delle sue consimili, a cui gli amanti dedicavano palazzi e pietre preziose, come questa residenza ricamata d’angeli, profili leonini e statue gotiche e rinascimentali.

Scendendo lungo rue Notre-Dame de Lorette, dove abitarono Eugène Delacroix e Paul Gauguin, si arriva alla chiesa omonima, dove Gauguin e Monet furono battezzati. Da qui si può iniziare a vagare nel quartiere, un tempo palpitante di guinguette e cabaret, che ha raggiunto il suo culmine tra il 1820 e il 1860 quando architetti e artisti lo hanno eletto come dimora, puntellandolo di splendide residenze e accendendolo di inediti slanci culturali, salotti letterari, una frizzante vita intellettuale di cui oggi resta una piccola eco nel Musée de la Vie Romantique, in rue Chaptal.

La calma delle strade invita a conversare con gli abitanti di una volta e, tra una residenza e un prospetto neoclassico, si può perdere la concezione del tempo e pensarsi come un’ospite, che si reca a fare visita a Chopin e George Sand, domiciliati a square d’Orléans, al civico 80 di rue Taitbout (aperta solo il sabato mattina). Sand aveva raggiunto Chopin ma, ben in anticipo sui dettami di Virginia Woolf, aveva preteso un appartamento tutto per sé, e la possibilità, non da poco, di vivere una vita in famiglia, ma con l’uscita di sicurezza e la propria solitudine sempre a portata di mano. Ci si può mettere in fila alla boutique del signor Tanguy, venditori di tele e pennelli e tra i primi mercanti di opere impressionniste, reso celebre dalla tela di Van Gogh, al civico 14 di rue Clauzel, oggi scarna galleria di stampe asiatiche.

Passa quasi inosservata, la rue de la Tour des Dames, ma un tempo doveva creare scompiglio se, come racconta la leggenda, almeno tre attrici di teatro si contendevano i favori degli inquilini e il domicilio nelle residenze, ancora oggi conservate in ottimo stato. Al civico 9, la dimora di Talma, attore del teatro tragico, mentre ai numeri 1 e 3 vivevano Mademoiselle Duchesnois e Mademoiselle Mars, capricciose teatranti. A pochi passi, la casa-atelier di Gustave Moreau è oggi un bellissimo museo, nonché un’occasione per entrare e osservare da vicino gli interni di una dimora ottocentesca nel quartiere più romantico di Parigi. Infine, tra le tante salite che riportano a Montmartre, scegliete la rue Rodier, tra antiquari, atelier e il piccolo rifugio della Baleine Bleue, un curioso atelier blu oltremare, dove l’arte della terracotta è accessibile a tutti.

Per ritornare al grigiore di una domenica pomeriggio d’inverno, basta poco, una breve salita e compaiono i bar fumosi di quella parte del quartiere ribattezzata infelicemente SoPi, South Pigalle, le boutique hipster di vinili, i bar un po’ tutti uguali, le gallerie stucchevoli di Montmartre, la solita vecchia Parigi, troppo impegnata a imitare se stessa, a farsi caricatura, mentre il tempo le scorre accanto.

Soundtrack: Malcolm Holcombe, Another Black Hole

Immagine: la sottoscritta

 

 

 

Fuga in Bretagna

Imparo in questi mesi come il viaggio sia soprattutto un ritorno, come scriveva Magris, “che insegna ad abitare più liberamente e poeticamente la propria casa”. Tornare in Francia, ricominciare da zero, riscoprire un posto già conosciuto, accorgersi di quello che ci era sfuggito. Per me, Parigi è diventata di nuovo una caccia al tesoro. Lo diceva anche Saramago, che non si arriva mai, che non c’è viaggio che finisca: “Bisogna vedere quel che non si è visto, vedere di nuovo quel che si è già visto, vedere in primavera quel che si era visto in estate, veder di giorno quel che si era visto di notte, con il sole dove prima pioveva”. Tuttavia, abbandono Parigi sempre più volentieri e comincio a scoprire una terra che avrei dovuto esplorare già da tempo: tutto il resto della Francia.

Da Parigi, ad esempio, bastano meno di tre ore per raggiungere Saint-Malo, punta bretone affacciata sulla Manica, città corsara abbracciata da possenti bastioni, dal litorale sfiorato dall’Atlantico ed esposto alle maree. Proprio come quello di Gallipoli, il centro storico di Saint-Malo è racchiuso in un’isola collegata alla città e, come ogni cittadina di mare che si rispetti, d’inverno è come un campo al riposo, un borgo in sordina, dal fascino austero e malinconico.

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Lucy, il cocker di casa sulla Grande Plage di Saint-Malo

Nonostante le rivendicazioni dei maluini, il bretone non è stato mai parlato in questo angolo selvaggio della Bretagna, dove invece si usava discorrere in gallo, antico dialetto neolatino, ma oggi entrambi gli idiomi sono insegnati nelle università locali e tenuti in altissima considerazione, così come tutte le altre tradizioni culturali della regione, dalla cucina, con l’onnipresente galette con la farina di grano saraceno (attenzione, a non confonderla con la crêpe, che è dolce e dall’impasto più chiaro), alla storia e la musica celtica fino agli eventi più recenti, come Quai des Bulles, celebre festival di fumetti in riva all’oceano, e la Route du Rhum, regata che ogni quattro anni vede salpare dal porto di Saint-Malo navigatori diretti verso le Antille in solitaria.

Prima di diventare una destinazione turistica, punto d’approdo di velisti e appassionati di cure termali, Saint-Malo, terra natale tra gli altri dello scrittore romantico Chateaubriand, era un forte in mano ai corsari, che lavoravano al servizio del re in lotta contro l’Inghilterra. Tra di loro, Robert Surcouf, la cui sagoma fronteggia ancora l’oceano dai bastioni, indicando il paese nemico. Pescatori di merluzzo e fedeli al sovrano, i corsari di Saint-Malo hanno fatto della città un importante polo commerciale, padrone dei traffici marittimi nei Mari del Sud e in quelli delle Indie Orientali, una prosperità che finisce nel 1713 con il Trattato di Utrecht e il ritorno della pace in Europa.

A febbraio Saint-Malo ha il piglio di un marinaio che si riposa in silenzio, davanti al tavolo di un’osteria, placida e calma come la bassa marea, ma imprevedibile come l’umore oceanico. Attraversare la spiaggia, eccezionalmente pulita, raccogliere conchiglie, cercare di contare gli scogli e le isolette che appaiono e scompaiono tra le onde all’orizzonte, immaginare le storie racchiuse nel maestoso Fort National che si scorge nei pressi del centro storico è un antidoto a ogni mal di mare emotivo, e se anche Baudelaire riusciva a distendersi alla vista del Mediterraneo, non c’è spirito che non riesca a rasserenarsi al rumore delle onde di Saint-Malo.

Dalle rive di Saint-Malo, inoltre, è possibile partire alla volta della scoperta della Bretagna, verso la magica foresta di Brocéliande o ancora Lorient, oppure affacciarsi in Normandia e visitare il Mont Saint-Michel. “Raggiungere il Mont Saint-Michel è un attimo”, ci assicurano all’ufficio Turismo. E anche con un cane, fatta eccezione per gli inflessibili autisti degli autobus di Saint-Malo, tutto il percorso è fattibilissimo anche con uno scanzonato cocker al seguito, dal treno alla navetta che porta fino ai piedi del monte. Inoltre, dato che il nostro fine-settimana coincide con i giorni lavorativi del resto del mondo, spesso usufruiamo di: meno code, più spazio nel treno, meno attesa, ristoranti liberi senza bisogno di prenotare, ma anche itinerari più difficili. In settimana, infatti, per arrivare al Mont Saint-Michel occorre cambiare tre mezzi diversi, con una sosta a Dol-de-Bretagne. Se siete fortunati, la coincidenza diretta al monte arriverà non più di mezz’ora dopo. Giusto il tempo di prendere un caffè al bar albergo della stazione, l’Hôtel de la Gare, uno sgangherato bar dello sport, con gli habitué in pensione, intenti a scommettere sui cavalli con un bicchiere di calva già dalle 11 del mattino.

Una volta arrivati, potete scegliere di proseguire a piedi lungo la passerella di legno che conduce ai piedi del monte oppure aspettare la navetta (anche questa dog-friendly) e giungere a destinazione in poco meno di cinque minuti, bypassando tutto l’apparato turistico che circonda l’abbazia, ristoranti giapponesi, brasserie un po’ scarne, trattorie di dubbio gusto, una scenografia che poco si adatta alla maestosità dello scenario.

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San Michele dall’alto della torre abbaziale sorveglia il flusso incessante di visitatori, lì dove un tempo era la ferrovia a condurre monaci e viaggiatori all’ingresso della cittadina. Annoverati nella lista dei beni patrimonio dell’Unesco, la spiaggia, il comune e l’abbazia sono tra i siti più visitati in tutta la Francia. Da qui l’efficace macchina turistica che circonda l’abbazia, tra negozietti di souvenir, ristorantini e fast food aperti 24 ore su 24 e pensioni con vista sull’oceano, frequentate anche d’inverno. Pare che ben poco sia lasciato ai soli 41 abitanti del villaggio, che ormai sembra essere costruito a misura di viaggiatore. Tuttavia, il proliferare di menu e promozioni non intacca il fascino del Mont Saint-Michel, terra di pellegrini e avamposto selvatico della natura, che incanta da secoli viandanti, letterati, monaci e artisti.

All’ingresso della cittadella, prendetevi un po’ di tempo per guardarvi intorno, per lasciarvi incantare dalle maree, dalle sabbie mobili, dai giochi dei gabbiani a filo d’acqua. Seguite la traiettoria del vento fino ai bastioni. Qui non serve affannarsi a rispettare un itinerario, il villaggio è talmente piccolo che si corre il rischio di rifare più volte le stesse viuzze. Divertitevi a salire, a scendere, a circumnavigare l’abbazia (avrete tempo per visitarla, alcuni ambienti non sono accessibili e la visita completa dura meno di un’ora) e a scoprire la vera storia della mère Poulard, catena alimentare che ha ormai il monopolio nell’intera cittadina, fondata dalla signora Poulard in persona, geniale imprenditrice, al secolo Anne Boutiaut, quando giunse nel 1872 ai piedi del monte. Le spoglie della signora Poulard riposano nel piccolo cimitero in cima al monte, pochi metri quadri di antichissime sepolture, un gioiello gotico con vista sui moti perenni delle maree.

Consacrato a San Michel nel 708, insieme al Santuario nel Gargano, quello del Mont Saint-Michel è tra i più antichi luoghi di culto in Europa, secondo la leggenda fatto erigere dal vescovo Aubert per ordine dell’Arcangelo. Dal romanico al gotico flamboyant, l’abbazia mescola gli stili architettonici, le altezze, i volumi, in un magistrale gioco di geometrie, vuoti e pieni, linee rette e curve. Poter ancora aggirarsi tra i corridoi vuoti, tra gli antichi refettori è sublime, tanto quanto affacciarsi alle terrazze che si allargano sui quattro angoli dell’abbazia, a strapiombo sulle sabbie, e immaginare un tempo altro, fatto di lenti pellegrinaggi, silenzi leopardiani, altre epoche dove ci si permetteva il lusso di escludersi dal mondo e ignorare cosa ci fosse al di là dell’orizzonte.

Il ritorno a casa, per una strana legge spazio-temporale, è sempre più breve. E Parigi ci mette poco a riguadagnare terreno, con le sue metropolitane affollate, gli orizzonti tagliati dagli ultimi piani in ardesia, l’andatura imbronciata di chi ha sempre qualcosa di meglio da fare.

Un paio di indirizzi testati:

  • a Saint-Malo, Le Chalut: nel centro storico, Intra-Muros, decoro semplice, pareti azzurre e un acquario dove vengono recuperati in tempo reale i crostacei serviti nel piatto, ottimo ristorante di pesce.
  • al Mont Saint-Michel, La Confiance: dal nome della nave del corsare Robert Surcouf, alle porte della cittadella, questa brasserie vi regalerà un’ottima accoglienza e galette buonissime, nonché un posto al caldo se avete la fortuna di accaparrarvi il tavolo vicino al camino.

Note a margine: sullo sfondo, dietro di noi, una ragazza ha percorso lo stesso itinerario. Dal vecchio Bar Hôtel a Dol-de-Bretagne, fino al Mont Saint-Michel e ritorno, per finire con un bicchiere nello stesso sgangherato caffè, alla stessa ora, davanti alle solite incessanti corse di cavalli. Zaino in spalla, taccuino, libro e borsa leggera. E io, dall’altro lato, con un po’ di nostalgia per le mie zingarate in solitaria.

Soundtrack: Tame Impala, Endors-Toi

Immagini: la sottoscritta

Sulla strada

Qualche mese fa, di ritorno a Parigi, ho finalmente svuotato lo zaino che mi sono trascinata dietro per tutto l’ultimo anno. Sono partita dalla Francia lo scorso gennaio, diretta in Veneto. A marzo mi sono trasferita al settimo piano di un palazzo a Milano Sud, ma tornando ogni lunedì sera in quel di Piazza Napoli a Padova per il mio corso di teatro. A fine giugno sono sbarcata nel Basso Salento e sono ripartita a settembre, destinazione Grecia, poi Portogallo, Francia e infine una breve e onirica parentesi americana.

Ho passato un anno a incontrare nuovi amici, chi in classe, tornando dietro i banchi di scuola, il sabato e la domenica, chi in teatro, altri talmente fugaci che probabilmente non rivedrò mai più. Una lunga serie di arrivederci e partenze, mesi interi trascorsi nel reame ben familiare della temporaneità e del precariato esistenziale. A ripensarci, non vedevo l’ora di svuotare lo zaino, di usarlo solo per fare la spesa, almeno per un po’, di smettere di cercare casa, di poter fare progetti con respiro più ampio di un singolo trimestre. Allo stesso tempo, non mi sono mai sentita così bene e così libera. Per un po’, mi sono rifiutata di portarmi dietro qualsiasi tipo di fardello, lasciavo a casa anche la borsa, rimettendomi alla capacità delle tasche del mio cappotto.

GLORIA STEINEM

Per questo, quando a ottobre sono tornata a casa a Montmartre, ho svuotato lo zaino, ho riposto i libri, ho sistemato i vestiti nell’armadio, una volta per tutte, è come se qualcosa si fosse spezzato. A Pasadena, alla libreria Distant Lands, paradiso dei viaggiatori, avevo acquistato On Vagabonding, un vademecum per inguaribili nomadi, per sopravvivere alle urgenze pratiche e alla nostalgia, per portarsi dietro lo stretto necessario e prepararsi alle prossime partenze. L’ho conservato sullo scaffale più alto, rassegnandomi a qualche anno di sedentarietà, a mettere da parte le zingarate, la terra che manca sotto i piedi, quella strana sensazione di familiarità e di casa che si prova a sedersi da soli al tavolino di un bar. Ho cominciato a guardare con diffidenza ai libri di viaggio, come se d’ora in poi potessero solo farmi sentire inadeguata.

Così è stato anche quando ho preso in mano My Life on the Road, le memorie autobiografiche di Gloria Steinem, libro che per tutto il mese di gennaio, almeno a Parigi, è stato introvabile, grazie all’intervento di Emma Watson e del suo club letterario Our Shared Shelf. Attivista, giornalista e autrice, classe 1934, di recente alla ribalta per un intervento improbabile sulle presunte motivazioni delle supporter di Bernie Sanders, Gloria Steinem ha passato almeno cinquant’anni della sua vita attraversando gli Stati Uniti, sostenendo la causa dei diritti delle donne e organizzando conferenze, convegni, campagne, incontri studenteschi e soprattutto quelli che lei chiama “talking circles“, occasioni di dialogo in cui, come nelle assemble dei Nativi Americani o delle donne indiane, ci si siede in cerchio e si comincia a parlare, “tra le forme più efficienti di democrazia esistenti al mondo”.

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My Life on the Road racconta l’inizio dei suoi viaggi da quando, in camper insieme al padre, a pochi anni, senza aver mai messo piede in una scuola, lo accompagnava a smerciare antichità agli antiquari del MidWest. Racconta di come un medico le ha cambiato la vita, accettando di praticarle un aborto a 22 anni e permettendole di partire per l’India e iniziare un nuovo capitolo della sua esistenza. Di come lentamente, dall’essere una scrittrice nella sua torre d’avorio, si sia trasformata in una attivista in grado di parlare davanti a platee di migliaia di persone. Di come viaggiare l’abbia tenuta in vita e continui a farlo, insegnandole giorno dopo giorno a parlare con gli sconosciuti, ad ascoltarli, a far incontrare le persone, a organizzarle e aiutarle a far sentire la propria voce.

Ho sempre sostenuto, insieme a Maeve Brennan, che sentirsi a casa fosse uno stato d’animo. Che ci si può ritrovare anche in un posto in cui si mette piede per la prima volta, al tavolo di un caffè quando si arriva in anticipo in stazione, tra le braccia di qualcuno, in un’altra nazione, in riva all’oceano in Bretagna o in Portogallo. Gloria Steinem ci mostra come anche il viaggio possa diventare uno stato mentale, che in qualsiasi momento si può cominciare a vivere “in un on-the-road state of mind, senza andare alla ricerca di quello che ci è più familiare, ma restando aperti e ricettivi a quello che arriva. L’avventura può cominciare nel momento esatto in cui si chiude la porta di casa”. Come l’improvvisazione di un musicista jazz, come un surfista alla ricerca dell’onda, come un gabbiano che vola sulla corrente del vento. “Una dipendenza al viaggio, alla strada, può esistere dappertutto”, scrive Steinem. La rivoluzione inizia ascoltando gli altri, costringendosi a vivere nel presente, nell’immediato, come quando si è in viaggio e ogni coordinata spazio-temporale sembra ridursi al qui e ora.

Seguire Gloria nei suoi racconti è stato un succedersi di epifanie, di improvvise rivelazioni, di quei momenti in cui lasci il libro sulle ginocchia e resti dieci secondi con gli occhi incollati al muro. Insieme alle storie di Steinem, ci sono poi anche quelle di Florynce Kennedy, attivista afro-americana, della straordinaria Wilma Mankiller, prima donna eletta capo della regione Cherokee negli Stati Uniti, e poi i viaggi di suo padre, il suo improbabile senso degli affari, e la depressione di sua madre, pioniera del giornalismo d’inchiesta, che ha abbandonato il lavoro e il mondo esterno per seguire i sogni di suo marito, l’infanzia delle sue figlie e gli alti e bassi del suo umore. E ancora le coraggiose battaglie degli Indiani d’America nelle riserve, nelle scuole che ne vogliono cancellare la lingua, le tradizioni, la cultura.

Ogni storia individuale diventa di interesse generale. Nelle pagine di Gloria si succedono nazionalità, accenti, mestieri, facce, tutte con la propria esistenza. Come ribadivano le femministe nostrane negli anni Settanta, il personale è politico, e il più delle volte va raccontato in prima persona. E l’effetto collaterale di questo libro è stato anche quello di ricordarmi quale scrittura preferisco, quella dove ci sono io, a parlare, a registrare, illustrare la realtà secondo il mio punto di vista. E che forse a questa scrittura dovrei dedicarmici un po’ di più.

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Ma la parte più bella è il ritorno di Gloria. La costruzione di una casa, dove finalmente sparpaglia i suoi appunti per terra, conserva i libri in una biblioteca, uno spazio dove invitare gli amici, un indirizzo a cui raggiungerla facilmente, ma soprattutto la scoperta che essere domiciliata in un posto non le avrebbe impedito di viaggiare. Realizzare finalmente che non è necessario scegliere una vita polarizzata, o dentro o fuori, che, nonostante si sia nati di sesso femminile, non si è sempre costretti a un’alternativa, ma si possono avere entrambe le esistenze, il calore di un luogo al cui tornare e l’ebbrezza del viaggio, anzi “l’atto più rivoluzionario per una donna sarebbe tornare dai suoi viaggi e trovare tutto il conforto della sua famiglia“, restando libera di ripartire.

“Molto prima che nascessero queste divisioni tra la casa e la strada, tra il posto di una donna e il mondo dell’uomo, gli esseri umani seguivano i raccolti, le stagioni, viaggiando con le proprie famiglie, i nostri compagni, i nostri animali, le nostre tende. Costruivamo tende e ci spostavamo da un posto all’altro. Questo modo di viaggiare e di vivere è ancora scritto nella memoria delle nostre cellule”. Si può fare una tenda e poi smontarla e ripartire, e decidere in corso d’opera quanto tempo starci, un mese, un anno, tutta la vita. “Mio padre non avrebbe dovuto passare la vita da solo, vendendo porta a porta antichità, solo per la gioia di essere in viaggio. Mia madre non avrebbe dovuto abbandonare la sua strada per restare a casa. Nessuno dovrebbe farlo. Nemmeno io. Nemmeno tu”.

Con questo articolo, inizia una serie di appuntamenti mensili, considerazioni, spunti e riflessioni sui libri suggeriti dal club letterario di Emma Watson, al quale consiglio vivamente di aderire. Alla prossima, con Il colore viola di Alice Walker. 

Soundtrack: 4 Non Blondes, Spaceman 

 

 

Le città invisibili

Le descrizioni di città visitate da Marco Polo avevano questa dote: che ci si poteva girare in mezzo col pensiero, perdercisi, fermarsi a prendere il fresco, o scappare via di corsa.

Succede spesso di andare lontano per smaltire un carico troppo ingombrante di nostalgia, come il Marco Polo di Italo Calvino. Di riuscire a realizzare quanto buio c’è tutto intorno solo aguzzando la vista sulle fioche luci lontane. Partire quasi per abitudine, per inerzia, per inseguire un desiderio che non ha forma, se non quella astratta e vaga del cambiamento, della svolta, il colore mai visto di una pagina bianca, ma non vuota.

Puntare il dito sul mappamondo e scegliere una nuova destinazione, solo per avere la possibilità di scappare via di corsa, di cambiare identità, immaginare una nuova vita, di godere del privilegio di sentirsi straniero e del caldo abbraccio del ritorno a casa.

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Viaggiando ci s’accorge che le differenze si perdono: ogni città va somigliando a tutte le città, i luoghi si scambiano forma ordine distanze, un pulviscolo informe invade i continenti.

Può succedere anche di impregnarsi di quell’abitudine di paragonare le città, di ritrovarle, una nell’altra, di riconoscerne schemi, meccanismi, patologie. Di parlare di una mentre ci si ricorda di un’altra. E a volte, all’estremo di quest’insana mania, si finisce per vivere altrove, pur continuando a ritrovarsi in un vecchio appartamento di qualche tempo fa. “Tutto è mio, niente mi appartiene, nessuna proprietà per la memoria, mio finché guardo”, scriveva Wislawa Szymborska, “Parigi dal Louvre fino all’unghia si vela d’una cateratta. Del boulevard Saint-Martin restano scalini e vanno in dissolvenza.”

Una dissolvenza che continua, fino ad avvolgere tutto l’orizzonte, fino a creare una città invisibile, dove ci si muove, ci si sposta, si cammina, in una dimensione spazio-temporale altra, sconosciuta. Risalendo la rue Saint-Eleuthère, che dalle scale della Basilica del Sacro-Cuore porta alla Place du Tertre, se ci si ricorda di guardare a sinistra, lontana, nascosta tra la bruma del mattino, si scorge la Tour Eiffel. Seguendo la rue Caulaincourt, tra un caffè e una boulangerie, si aprono affacci improvvisi sulla città di Parigi, sulle mansarde, sulle mani alzate dei comignoli, sulla distesa di tetti grigi, sulle cupole dorate in lontananza. Cosa è reale e cosa non lo è?

Non riconosco nulla, eppure niente è estraneo, ricordo a memoria i nomi delle strade, i colori delle insegne dei negozi, le canzoni dei musicisti sulla rue Norvins. Come una città invisibile, Parigi ha un altro nome e un’altra forma, deriva la sua figura dal deserto a cui si oppone, dalla risposta che ha dato, finalmente, alle mie domande, al cambiamento, giunto all’improvviso, una mattina americana come tante.

È delle città come dei sogni: tutto l’immaginabile può essere sognato ma anche il sogno più inatteso è un rebus che nasconde un desiderio oppure il suo rovescio, una paura. Le città come i sogni sono costruite di desideri e di paure.

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Parigi non ha indirizzi, non ha strade, non ha fermate della metropolitana. Oggi si compone di desideri e di paure, di entusiasmi ingiustificati, di timore, di meraviglia insignificante, di facce che rivedo per la prima volta. Mi sveglio la mattina senza l’impulso di andare via, di rincorrere quella dissolvenza, senza la voglia di sparire il più presto possibile. Sono esattamente dove dovrei essere, forse.

Come un cambio nell’armadio dei ricordi, ripongo tutto quello che è stato per fare spazio al nuovo, che è arrivato senza chiedere il permesso, senza preavviso. Metto da parte quello che ho accumulato durante anni di viaggi, di domicili incerti, di lettere che continuavano ad arrivare nella buca sbagliata. Mi guardo indietro senza capire bene dove tutto sia cominciato, “per questi porti non saprei tracciare la rotta sulla carta, né fissare la data dell’approdo”, ma riesco ad intravedere una direzione. Un disegno che inizia a formarsi, unendo i puntini, finalmente.

Alle volte mi basta uno scorcio che s’apre nel bel mezzo d’un paesaggio incongruo un affiorare di luci nella nebbia, il dialogo di due passanti che s’incontrano nel viavai, per pensare che da lì metterò assieme pezzo a pezzo la città perfetta, fatta di frammenti mescolati col resto, d’istanti separati da intervalli, di segnali che uno manda e non sa chi li raccoglie. Se ti dico che la città cui tende il mio viaggio è discontinua nello spazio e nel tempo, ora più rada ora più densa, tu non devi credere che si possa smettere di cercarla. Forse mentre noi parliamo sta affiorando sparsa entro i confini del tuo impero.

Images © Thomas Campi

Soundtrack: Cat Power, No Sense

Quotes: Italo Calvino, Le città invisibili