La torre dell’Alto a Portoselvaggio

È strano come un piccolo paese con un pezzetto di mare

e quattro casette bianche addormentate al Sole

bastino a placare un animo inquieto e a dissolverne le pene.

È per questo che qui mi precipito da anni, ormai,

quando mi pare di non reggere più alle continue prove della vita,

alle disillusioni, alla tristezza.

Qui sono al sicuro, mi ripeto, fuori dal mondo,

protetta quasi come ai tempi in cui erano gli altri

a decidere per me, a difendermi dalle contrarietà.

Renata Fonte

Impregnate della salsedine dello Ionio, le tre arcate della Torre dell’Alto spiccano all’orizzonte, ammiccano ai bagnanti di Santa Caterina e sorvegliano la splendida foresta del Parco Naturale Portoselvaggio e Palude del Capitano, di proprietà del Comune di Nardò, di cui la torre si fa fiera custode. Ai tempi dei cavalieri e delle invasioni dall’Oriente, la Torre dell’Alto, nota anche con il nome di Torre del Salto della Capra, comunicava a nord con Torre Uluzzo e a sud con la Torre di Santa Caterina.

Costruita per ordine del viceré spagnolo Don Pietro da Toledo, nella seconda metà del Cinquecento, la torre fu eretta dal mastro neretino Angelo Spalletta e utilizzata a scopo difensivo fino alla metà del Seicento. Deposta l’artiglieria, la bella torre si mutò in lazzaretto e, a partire dall’Ottocento, completamente abbandonata.

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Claudia Ruggeri e il folle volo

Un cappello rosso e un lungo vestito nero. Claudia Ruggeri ha 18 anni quando incanta il pubblico della Festa dell’Unità a Lecce, recitando i suoi versi da sposa barocca. Era il 1985, nel Salento iniziava a crescere e diffondersi un inedito fermento culturale. Nascevano riviste come “L’Incantiere”, il Laboratorio di Poesia diretto del professore Arrigo Colombo dell’Università del Salento, il festival letterario Salentopoesia. La giovanissima Claudia, nata il 30 agosto 1967 a Napoli, trasferitasi a Lecce pochi anni dopo insieme alla sua famiglia, cresciuta a libri e viaggi, aveva finalmente trovato il terreno fertile dove far germogliare la sua voce poetica.

Sono anni di creatività, voglia di fare, esprimere. Durante gli incontri del Laboratorio di Poesia, Claudia conosce tutti i poeti salentini più importanti, da Antonio Verri, che s’innamorerà del suo talento da bambina-prodigio, a Dario Bellezza, che le resterà sempre vicino, entra in contatto con i più noti intellettuali italiani, come il poeta Franco Fortini, a cui farà vedere i suoi versi, ricevendo in cambio una sorta di paternale e un incoraggiamento a fare piazza pulita dei suoi modelli e delle bigiotterie barocche che ingioiellavano le sue poesie e a dare ascolto alla sua sola voce.

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La ripetizione

Quest’estate, ho trascorso molti pomeriggi a svuotare un secchiello pieno d’acqua su uno scoglio. Io lo riempivo, lo passavo ad André, 20 mesi, lui ne riversava il contenuto sulla roccia, ci facevamo una bella risata e ricominciavamo. Ogni mattina, ripetiamo gli stessi giochi. Émile, cinque anni quasi e mezzo, ama guardare il suo cartone preferito a ripetizione, la sera leggiamo lo stesso libro per mesi.

È noto ormai che la routine faccia bene ai bambini. Che la ripetizione di gesti, giochi, frasi, esperienze, ritmi, rassicuri e conforti, ed è la base sicura dalla quale prendere il volo per affrontare quella straordinaria avventura che si chiama crescita, le prime volte, la scoperta del mondo.

C’è un’altra fascia d’età, che ama ripetere ed è confortata dai gesti sempre uguali e dai ritmi che non riservano mai sorprese, ed è quella degli anziani. Durante i primi mesi di pandemia, in seguito alle tragiche notizie di quanto avveniva nelle case di riposo, ho letto numerosi articoli sulle case di cura e le loro abitudini. In particolare, un’inchiesta del The Economist, tradotta da Internazionale, che raccontava del Green House Project, dove vige una sorta di abolizionismo delle case di riposo.

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Una casa bianca in mezzo al blu

Qualche tempo fa, per gioco, un’amica interrogò i tarocchi per me. Uscì l’arcano del sole. Ricordo che vedere quei due bambini biondi sulla carta, nonostante ancora non ci fossero nella mia vita, mi emozionò molto. Chi mi conosce bene, ovvero almeno da una ventina d’anni, sa che da sempre ho desiderato dei bambini, sin dai tempi del liceo, anche prima. Volevo viaggiare e avere figli, lavorare ed essere una mamma presente, inseguire le mie ambizioni e leggere libri di favole. Volevo tutto, e lo voglio ancora. Ma, dietro i due bambini, nel mazzo originale dei tarocchi di Marsiglia, sull’arcano del sole, c’è anche un muro in costruzione. “Questo è quello che ti manca di più e che otterrai con fatica”, disse la mia amica, “una casa“.

All’epoca, ero reduce dagli ultimi due traslochi, infilati, uno dietro l’altro, in poco più di dodici mesi. Ma la casa ancora non c’era. Abitavamo in un appartamento di fortuna, che stava cadendo a pezzi sulle nostre teste, eravamo insofferenti, increduli e, da lì a poco, la pandemia ci avrebbe chiuso là dentro per un bel po’.

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La mia scuola

In questo strano anno pandemico, dove la casa è diventata rifugio, prigione, raccoglimento, luogo di timori e di pace, di sconvolgimenti e riposo, sono state tantissime le prime volte. Ho messo piede in ambienti, paesi, case, persone, ambiti, mestieri, in cui non m’ero mai cimentata, e tanti di questi primi incontri mi hanno sicuramente aiutata a restare a galla nei mesi in cui la seconda maternità e un’epidemia di quelle che si raccontano solo nelle storie di santi e vergini miracolose mi imponevano di restare tra quattro mura.

Tra queste prime volte, c’è la scuola. Quella con la S maiuscola, quella pubblica, delle circolari e delle indicazioni ministeriali, quella che leggi nei manuali e ti brillano gli occhi, quella che vai a vedere di persona e ti si stringe il cuore. La mia scuola è in un paesino di pochissimi abitanti circondato dalle campagne. Ci si conosce tutti (me esclusa, che sono tra le ultime arrivate). I cognomi sono ricorrenti e ci sono solo tre classi, riempite di fratelli, cugini e amici di famiglia. I bidelli (qui si fanno chiamare ancora così) sono anziani e più che operatori sembrano quasi gli zii o i nonni, che abbottonano i cappotti, sentono la febbre con la mano sulla fronte e aiutano ad andare in bagno.

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Parentesi tonda

“Chiuso per festività patronali”. Mentre tornavo a casa con un bicchiere pieno di pipì appena fatta nella borsa, davanti alla porta chiusa del laboratorio di analisi dell’ospedale di Lecce una giornata di fine agosto, in quel cartello appeso al muro e nella monetina data al parcheggiatore abusivo per i dieci minuti di sosta, che m’ero ripromessa di raccontare, ho issato finalmente la bandiera bianca.

Mi sono arresa alla casualità e all’imprevedibilità e alle difficoltà inedite di questa attesa. Alla voglia di silenzio, all’incapacità di mettere nero su bianco i pensieri, i personaggi, le tante vicissitudini di questa parentesi tonda, anzi tondissima, della mia vita. Alla necessità di realizzare che avrei dovuto fare posto per un amore grande, un tempo che non conosce più confini, mantenendomi all’altezza di essere una mamma di un bimbo di tre anni. Eppure, quanto ne avrei avuto bisogno. Di riempire le pagine di un diario, di fare liste, bilanci, elenchi di desideri e cose da ricordare. Di segnare i tre fatti del giorno, di annotare i piccoli traguardi, le conquiste infinitesimali, i minimi passi in avanti della consapevolezza di essere di nuovo in procinto di osservare una vita che nasce.

Lo scorso anno, mentre facevo le valigie per abbandonare Parigi, mi dilettavo in bilanci, liste, resoconti delle tante primavere passate in terra ormai non più straniera, cullata da un confortevole anonimato, dal lusso dell’invisibilità. E oggi, mentre il mondo intero mi rassicura di “essere tornata a casa”, io in questa landa che non riconosco, mi sembra di non avere più lo spazio per pensare, riflettere, articolare un pensiero complesso e ragionato. E non solo per la scarsa capacità di concentrazione. Le mani fanno ormai fatica ad arrivare alla tastiera. Ogni seduta o posizione resta difficilmente praticabile per più di un quarto d’ora.

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Storie di una ferrovia

Era un confine ogni albero che il treno varcava
spogliando i rami del loro fogliame di corvi,
e quel delirio d’ali nere nell’aria
arsi frammenti erano d’una lettera
che tenteremmo invano di ricomporre.

Legno, bulloni e metallo. Sedili di pelle scura e tendine consunte che svolazzano fuori dal finestrino. Fuori, terra rossa, grano arso, muretti a secco, l’immancabile discarica personale dei soliti ignoti e poi, all’improvviso, ogni tanto, fa capolino anche il mare. I vecchi binari delle Ferrovie Sud Est sibilano nelle campagne più aride e rocciose, spuntano improvvisi, tra una duna di sabbia e un mandorlo, ricoperti di olive schiacciate o di fichi troppo maturi, nascosti dietro i profili delle vele nel porto di Gallipoli, camuffati dalle spighe lungo le tratte ormai abbandonate.

Prendere il treno nel Salento è una predisposizione dell’anima. Sceglierlo di proposito, poi, negandosi alle mostruose corriere e alle automobili personali, è quasi una filosofia di vita. Perché sul treno è più facile leggere, e c’è più spazio per le gambe, anche se d’estate, nei vecchi vagoni delle Ferrovie Sud Est, le cosce restano incollate sui sedili di pelle e il gancio per fermare la tendina della finestra spesso è rotto e il vento te la fa svolazzare sulla testa. Nel treno di ritorno da Lecce, ad agosto, ci si addormenta per il caldo, per illudersi di sfuggire alla liquefazione. E il posto te lo devi contendere con i venditori ambulanti e i loro sacchi di merce a poco prezzo e gli innumerevoli alunni di liceo e scuole medie, con cartella annessa e squadrette sporgenti fuori dallo zaino.

Sì, ma il treno. Il treno da Matino a Lecce è una passeggiata nella campagna, un quadro che scivola fuori dal finestrino. Arrivati alla stazione di Aradeo, a circa metà strada, gli alberi sono talmente rigogliosi da avere l’impressione che bussino alla finestra e ti sfiorino le guance. E poi ci sono le stazioni, tutte uguali eppure una diversa dall’altra. C’è quella minuscola di Zollino, persa nella Grecìa Salentina e, inspiegabilmente, snodo principale di numerose tratte. Quella di Nardò centrale che, in barba al nome, è un mondo sparito di palme e d’ulivi e di spighe di grano. Quella di Novoli, dove, secondo una logica sconosciuta, arriva il treno diretto a Lecce, si cambia vagone e si torna indietro.

Ci sono case cantoniere che diventano presidio del libro, che cominciano ad accogliere viaggiatori, dove il controllore e il guardiano sono sempre gli stessi da anni e, quando torni a casa, stravolta, cresciuta, con i capelli di un altro colore, ti riconoscono sempre. Vittima di una reputazione che le fa torto, la ferrovia salentina è dimenticata dai più, mentre è talmente capillare da poter essere usata anche come fosse una metropolitana. Conosco almeno una decina di persone che prendono il treno per andare in palestra, andare a cena da un’amica e tornare, fare la spesa.

Con un treno sgangherato, si andava a Lecce al liceo, quando si marinava la scuola. Un taccuino, una penna e il libro di Chatwin sulla Patagonia, e qualche spicciolo per i biglietti, quello che avevo in tasca quando sono andata in treno a Galatina, perché il professore Luigi Mangia, non vedente, mi spiegasse, con una rara intensità, lo spettacolo degli affreschi della Basilica di Santa Caterina d’Alessandria, per uno dei miei primi articoli. Sono tornata a casa, leggendo le fughe di Alice Munro, in treno, un pomeriggio d’estate, il giorno dei funerali di mia nonna. Mille lunedì mattina ho preso il treno per Lecce, ai tempi dell’università. Insieme ad una persona speciale, ho attraversato quasi tutta la penisola in treno e una volta, approfittando della desolazione dei vagoni, abbiamo chiuso il finestrino e ignorato lo spettacolo del paesaggio.

In treno
(Biglietto a N. e a V.)

Quanto manca d’azzurro a questo cielo
starò forse vivendolo con voi
mentre diagonalmente il finestrino
riga la pioggia, formandovi labili
topografie in cui il primo pensiero
è quello di trovare un luogo per collocarvi
coi vostri mille volti.
Dell’angoscia la servizievole tela
così si sperde mentre percorre vie
labirintiche e vengo in cerca di voi
in cangianti città di gocce d’acqua. 

Da decenni, nel Salento, la littorina avanza a 50 km all’ora, “piena di ruggine lenta, come qualcuno pensa a un treno”, canta Paolo Conte. Si ferma in tutte le stazioni, una carrozza si stacca, si cambia vagone all’ultimo momento, i controllori sbuffano, imprecano in dialetto e quasi nessuno sa dirti in che direzione si va e a che ora si parte. E io, arrabbiata, sudata fino alle dita dei piedi o infreddolita per l’aria condizionata che in carrozza segue ritmi circadiani incomprensibili, salgo a bordo per un viaggio immaginario, piccole ordinarie emancipazioni, minuscoli momenti di libertà, con l’unica ottima compagnia della solitudine del paesaggio, lo zaino in spalla e il fischio del capotreno.

Ecco perché mi sembra di esserci stata anche io su quei due convogli esplosi in piena campagna. Mille volte. E di aver avuto, ogni volta, la fortuna di arrivare a destinazione. E oggi ho una voglia insensata di tornare a casa e prendere un treno qualsiasi, di sentire quel vecchio rumore di ferraglie e guardare fuori dal finestrino. E Parigi, con i suoi treni ad alta velocità, gli autobus precisi e affidabili, le mostre di fotografia concettuale nella metropolitana, oggi la sopporto a malapena.

Le poesie sono di Vittorio Bodini.

Soundtrack: Il treno va, Paolo Conte

 

 

Milano – game over

“Allora, com’è Milano?”. Ho perso il conto di tutte le volte che mi è stata rivolta questa domanda nel corso degli ultimi mesi. Per un po’ di tempo, avevo anche pensato di registrarne tutte le intonazioni, da quella più sufficiente a quella più entusiasta, passando per il milanese che non sa cosa dire alla signora preoccupata che “è un po’ un trauma per te che vieni da Lecce”, ed è un trauma anche se le ho ripetuto che ho vissuto altre volte in città che superano il milione di abitanti e ha insistito, nonostante tutto, a volermi spiegare il funzionamento della metropolitana e ad accompagnarmi alla fermata, “non vorrei che ti perdessi tra i tanti corridoi”.

Milano, per me, era qui ancor prima di viverci. Era la stazione centrale almeno cinque volte al mese, quando ho iniziato a seguire il corso a Lotto, a venirci sempre più spesso per vani colloqui di lavoro. Erano i binari lunghissimi prima di arrivare a destinazione, il panorama dal finestrino di un treno, quasi sempre graffiato di pioggia. L’autostrada che ho imparato a memoria con i tanti passaggi in auto. Ritrovare, anche se per poco tempo, il calore di una redazione e quello di una classe. La certezza di poter vivere bene in una città che non fosse Parigi. Una nuova tessera dei trasporti. Qualche nuovo amico e altri che sono riuscita ad incontrare finalmente anche fuori dalla virtualità.

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“Il bello di vivere in una città che non conosci è provare continuamente l’eccitazione dell’esploratore”, ha scritto di recente Cristiano de Majo, su RivistaStudio, parlando proprio di Milano. A questa eccitazione ci si può anche abituare, diventarne dipendenti, ma aiuta anche a preservare dalle lamentele, dal malcontento, dall’insoddisfazione. In questi mesi di stupidità collettiva a Milano, di crociate distruttive contro Expo, di attivismo con spugnetta e detersivo, mi sono sentita leggera come pochi, godendo di quel piacere che Pavese ha descritto meglio di chiunque altro, quello di “sfiorare innumerevoli scene ricche e sapere che ognuna potrebbe esser nostra e passar oltre da gran signore”.

Scene che si compongono una strada dopo l’altra, con la sensazione di mettere insieme i pezzi di una città: il pomeriggio al quartiere Maggiolina, tra le case igloo, le ville residenziali e la ferrovia; una sera al Piccolo Teatro e poi tornare a piedi lungo via dei Mercanti deserta; la scoperta dei vicoli dei Navigli e degli atelier di pittura; seguire la pista della Martesana fino alle porte della città; intrufolarsi nei teatri più piccoli e meno conosciuti; esplorare le viscere di Macao insieme ai ragazzi di Proprietà Pirata; i tarocchi per due dalla zingara di Brera; una panchina di Parco Sempione con i libri di Rumiz e poi il Bar Magenta; un sabato sera da sola a perdermi nell’Hangar Bicocca, sotto i palazzi celesti; il tram numero 9, da Porta Romana a Porta Genova; il bus diretto a Linate con il cuore in gola.

Sentirsi finalmente a casa, realizzare come si legano i viali, imparare le prime scorciatoie, essere in grado di rispondere quando qualcuno chiede indicazioni, come scrive sempre De Majo, “è bellissimo quando inizi a capire che quella strada porta in un posto dove sei già stato arrivandoci da un’altra parte, ed è rassicurante sapere che per un bel pezzo potrai permetterti una certa naiveté, che significa anche che ti lamenterai poco”.

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E poi Milano è stata una nuova casa, il piacere di essere sola, di addormentarmi con la musica, di costruire marionette di carta sul pavimento e lasciarle lì per giorni, di partire, di tornare, senza dover informare nessuno, di esplorare libri sconosciuti trovati nel soggiorno, di rientrare e chiudere il mondo fuori. Vivere quella solitudine che, quando c’è, come diceva De Andrè, aiuta “ad avere contatto con il circostante”, che non è fatto solo dei nostri simili ma comprende anche “tutto l’universo, dalla foglia che spunta di notte in un campo fino alle stelle”.

Mentre scrivo, Milano è deserta. Non arriva nessun rumore dalla finestra aperta di casa, al settimo piano e non è difficile pensarsi già altrove. Immagino lo stesso silenzio, tanti tanti chilometri più a sud, un altro vento, altri domicili, altre stanze, lontane da questo appartamento, che è il posto dove pensavo di aver scacciato definitivamente alcuni fantasmi, che invece s’erano solo nascosti sotto il letto e mi hanno teso un agguato all’improvviso, a pochi giorni dalla fine.

Provo a contrastarli con il solito antidoto: l’attitudine alla partenza, l’arte del bagaglio minimo, un biglietto di sola andata già pronto, “il senso della ferrovia”, l’istinto di sopravvivenza: cambiare decoro, per sfuggire al vero ignoto, quello di una domenica pomeriggio passata a fissare il soffitto di casa. La dimensione domestica, scriveva Magris, cela più insidie di un viaggio avventuroso e la spedizione da una stanza all’altra della propria abitazione non è meno ricca di rischi e pericoli.

Soundtrack: Mino De Santis, Sempre in viaggio

Image: © Witchoria

Le due linee

C’era una volta una linea, curva, costretta allo sguardo basso per natura, incattivita e amareggiata per la statura e il portamento cui era stata destinata. Di fronte, bersaglio preferito di sberleffi e motti di spirito, un’altra linea, retta, integra, da capo a piedi, spiccata verso l’alto, sorda, dato l’altezza, a ironie meschine e umane bassezze. Le due si ritrovavano spesso, una dirimpetto all’altra e, quella retta, senza perdersi d’animo, ricordava sempre all’amica curva che, nonostante i tempi bui, le magre consolazioni, gli squallori contemporanei, non c’era da cambiare orientamento, da piegarsi e abbassare lo sguardo. Lo scontro quotidiano si combatte restando dritti e lei era lì, viva, dritta, integra, occhi rivolti verso l’alto e petto in fuori e, sempre e comunque, la strada più breve tra due punti.

Questa è la storia di una poesia, che s’intitola Le to linie, vale a dire Le due linee in dialetto salentino. L’autore è Rocco Cataldi, maestro elementare, poeta dialettale e cantore salentino, originario di Parabita. Era lo zio di mio padre e, nei miei ricordi, una delle prime persone che mi abbia incoraggiato a leggere, ad alta voce e da sola, e forse anche un po’ a scrivere. Abitava a poche centinaia di metri da casa mia, mi regalava libri di favole e racconti, e hanno continuato a fare lo stesso anche i suoi figli negli anni. Lo incontravo spesso in paese, ma l’immagine che ho nella testa, quando penso a lui, è un signore anziano, sulla veranda di casa, nel pomeriggio, forse a godersi gli ultimi raggi di sole del giorno.

Io, che faccio collegamenti improbabili e voli pindarici tutti miei, ripenso a questa poesia dall’ultima volta che sono tornata a casa, durante il periodo di Natale. Una vita intera è cambiata da allora ma, l’altra sera, di ritorno qui, sono corsa a prendere il libro, una raccolta di poesie dialettali, che conservo nella mia stanza, a rileggere quei versi, a guardare l’immagine delle due linee. Sono urgenze personali, alle quali non saprei dare un senso.

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Devo confessare che per le linee rette non ho mai avuto una predilezione, anzi le ho sempre guardate con sospetto. “Attraversavo le vie rettilinee in lunghe oblique da un angolo all’altro e così avanzavo tracciando invisibili ipotenuse tra grigi cateti”, è Italo Calvino a scriverlo, in un libro meraviglioso, che s’intitola Eremita a Parigi.

Calvino, che si guardava bene dal pretendere di realizzare quello che andava predicando, rifiutava non solo le linee rette, itinerari troppo semplici per chi soffriva, come lui, di nevrosi geografica, ma anche ogni piano strategico, ogni tattica di sopravvivenza: “non parto da considerazioni di metodologia poetica: mi butto per strade rischiose, sperando di cavarmela sempre per forza di natura”. Animata dalle migliori intenzioni, io mi sono buttata a capofitto nelle strade più improbabili e, tornando indietro, rifarei tutto allo stesso modo. Se potessi ricominciare domani, mi ci butterei con lo stesso entusiasmo, la stessa incoscienza. Questo perché, come scrive sempre Calvino, “ci si abitua ad avere ostinazione nelle proprie abitudini, a trovarsi isolati per motivi giusti, a sopportare il disagio che ne deriva, a trovare la linea giusta per mantenere posizioni che non sono condivise dai più“.

Ad abitudini di questo tipo, ci si affeziona. In mancanza di domicili fissi, in abitudini del genere, ci si può anche sentire a casa, soprattutto per chi, di città in città, resta sempre a mezz’aria, fatica a stabilire relazioni durature con i luoghi e si porta dietro una serie di incompiuti geografici ed emotivi. “Rifiuto la parte di chi rincorre gli avvenimenti. Preferisco quella di chi continua un suo discorso, nell’attesa che torni attuale, come tutte le cose che hanno fondamento“, perché ho sbagliato tante volte ma l’intenzione era quella di restare integra, di andare per la mia strada, di restare sorda alle voci degli altri. Ma soprattutto perché esiste una coerenza di fondo e un disegno probabilmente verrà fuori quando un giorno mi deciderò a unire i puntini.

“Non credo a niente che sia facile, rapido, spontaneo, improvvisato, approssimativo. Credo alla forza di ciò che è lento, calmo, ostinato, senza fanatismi né entusiasmi”. Da quando la lessi negli appunti parigini di Calvino, questa dichiarazione di intenti è diventata il mio manifesto, il mio paracadute quando perdo la terra sotto i piedi, quando penso che forse sarebbe stato meglio seguire una linea retta, senza perdersi tra innumerevoli andate e ritorni, quando sono stanca, la sera, o come adesso basta poco ad abbattere ogni difesa, a contrastare tutto l’impegno del mio scontro quotidiano.

Non so cosa speravo di trovare nella poesia delle due linee. Non so cosa immaginavo di trovare in quei versi. Forse un punto di riferimento, forse un incoraggiamento ad andare avanti, sempre e comunque, lungo una linea, che di certo non è retta, ma almeno è la mia. Forse qualcuno che, pur non sapendo nulla, mi incoraggiasse ad aspettare che la mia, di direzione, torni attuale, come tutte le cose che hanno fondamento, a restare costante nelle mie abitudini, a non cambiare orientamento perché anche questa erranza geografica ed emotiva sia, sempre e comunque, la strada più breve tra i miei due punti.

Soundtrack: 24-25, Kings of Convenience

Image © Mario Cala, maestro elementare di Parabita

Una giornata al mare

Se la strada per l’inferno è lastricata di buone intenzioni, quella per il paradiso è lastricata di spazzatura e prevendite per il Rio Bo. Almeno a Gallipoli, precisamente sul tratto del litorale che porta alla Baia Verde, un pezzo di costa che fino a qualche anno fa era sinonimo di fondali trasparenti e cristallini, e da un po’ di tempo a questa parte è diventato il regno della movida più kitch, quella del Mojito annacquato con i piedi a mollo nello Ionio, della musica house da somministrare a tardo-adolescenti intontiti già alle 3 del pomeriggio, delle vagonate di testosterone spalmate di olio e slip bianchi attillati. E delle montagne di rifiuti che affollano le spiagge, e non solo la mattina presto (per prevenire le obiezioni di quelli che “le foto della spazzatura le fanno quando ancora non sono passati gli operatori”).

spazzatura

Questa è la strada che dal villaggio porta al mare, se mare si può chiamare quella striscia di sabbia ogni anno più angusta che gli stabilimenti balneari concedono ai comuni mortali. Insieme alle bottiglie di birra, ci sono le prevendite per i vicini templi del divertimento, le riduzioni per il Rio Bo o per la Praja, le pubblicità dell’ultimo divo tv che ci fa l’onore di scendere nel Salento. Tonnellate di carta che finisce anche in mare. Locandine e manifesti per le discoteche, ma anche per i parcheggi e per le navette, tutto in mano ai soliti noti, che a ogni estate si ritagliano una porzione in più. 

schifo

Per non fare il verso agli articoli di Vice dove, al di là dell’atteggiamento scafato, c’è parecchia verità, mi limiterò a pochi dettagli: come i sacchi di spazzatura nelle campagne, le bottiglie di birra buttate dal finestrino della macchina nei boschi, l’indolenza e il fatalismo del “tanto ad agosto è sempre così, poi quando se ne vanno i turisti…”, l’affitto selvaggio di ogni buco libero nel centro di Gallipoli e Otranto, i prezzi alle stelle di un lettino, un succo di frutta che arriva a costare 8 euro, l’accoglienza proverbiale che invece è solo un tentativo disperato di spremere quanto più possibile “perché se non guadagniamo ora che è estate, quando facciamo soldi?”, la grande illusione del turismo e della destagionalizzazione.

sentiero

E questo non solo a Gallipoli. Anche a Portoselvaggio, area protetta e parco naturale, ci sono bicchieri di plastica in riva al mare, il sentiero che porta all’insenatura è ricoperto di mozziconi di sigaretta e non mancano mai i soliti cretini che scavano la roccia calcarea della scogliera e se la spalmano sulla faccia e sulle natiche perché “dice che fa bene” e, ahimè, nessuno aveva un accento del Nord. E, per restare sullo Ionio, poco più in là, la spiaggia libera non esiste quasi più e, dove non ci sono gli ombrelloni dello stabilimento balneare, regnano bottiglie e spazzatura.

Forse non ci meritiamo nulla. Non ci meritiamo la ricchezza del turismo, la curiosità dei viaggiatori, l’apertura di nuovi orizzonti. Stiamo bene così, ci sentiamo dritti di natura e, alla fine, se ci hanno regalato il mare, pensiamo di avere il diritto di farne quello che vogliamo. O forse sono solo io a prendermela sul personale quando scorgo l’ennesima sigaretta in acqua e il mio è solo lo sfogo di un’estate particolarmente nevrotica e di pochissime ore passate all’aria aperta, dove c’è anche un po’ di nostalgia per i lunghi cinque mesi di bella stagione di una volta, mai congestionati dal traffico, della Baia Verde che conoscevano in pochi, di Portoselvaggio, il tesoro nascosto alla fine di un viale di pini d’Aleppo. Alla fine, sono in tanti a non pensarla come me. E tra questi, alcuni hanno anche una certa autorevolezza. Il National Geographic e la Lonely Planet hanno accolto la Puglia nell’Olimpo delle destinazioni migliori al mondo e nei viaggi da consigliare per il 2014. Saranno sicuramente venuti a settembre, quando i turisti non ci sono più.