Parentesi tonda

“Chiuso per festività patronali”. Mentre tornavo a casa con un bicchiere pieno di pipì appena fatta nella borsa, davanti alla porta chiusa del laboratorio di analisi dell’ospedale di Lecce una giornata di fine agosto, in quel cartello appeso al muro e nella monetina data al parcheggiatore abusivo per i dieci minuti di sosta, che m’ero ripromessa di raccontare, ho issato finalmente la bandiera bianca.

Mi sono arresa alla casualità e all’imprevedibilità e alle difficoltà inedite di questa attesa. Alla voglia di silenzio, all’incapacità di mettere nero su bianco i pensieri, i personaggi, le tante vicissitudini di questa parentesi tonda, anzi tondissima, della mia vita. Alla necessità di realizzare che avrei dovuto fare posto per un amore grande, un tempo che non conosce più confini, mantenendomi all’altezza di essere una mamma di un bimbo di tre anni. Eppure, quanto ne avrei avuto bisogno. Di riempire le pagine di un diario, di fare liste, bilanci, elenchi di desideri e cose da ricordare. Di segnare i tre fatti del giorno, di annotare i piccoli traguardi, le conquiste infinitesimali, i minimi passi in avanti della consapevolezza di essere di nuovo in procinto di osservare una vita che nasce.

Lo scorso anno, mentre facevo le valigie per abbandonare Parigi, mi dilettavo in bilanci, liste, resoconti delle tante primavere passate in terra ormai non più straniera, cullata da un confortevole anonimato, dal lusso dell’invisibilità. E oggi, mentre il mondo intero mi rassicura di “essere tornata a casa”, io in questa landa che non riconosco, mi sembra di non avere più lo spazio per pensare, riflettere, articolare un pensiero complesso e ragionato. E non solo per la scarsa capacità di concentrazione. Le mani fanno ormai fatica ad arrivare alla tastiera. Ogni seduta o posizione resta difficilmente praticabile per più di un quarto d’ora.

In questa parentesi tonda, anzi tondissima, della mia vita, resto come alla finestra a guardare il mondo che scorre, con la voglia di buttarmici dentro, di correre più forte di ogni tipo di malinconia e sbalzo d’umore, assediata invece dalla necessità di riposare, di creare spazio, di fare selezioni fisiche e mentali, di lasciare il vecchio per fare posto al nuovo.

Resto ferma con gli occhi al soffitto a enumerare le cose da fare: il costume da angioletto da trovare per la recita di Natale, i libri sul comodino, le scadenze del lavoro, la macchina, le bollette, l’affitto, i regali ecologici, la lavatrice, il fasciatoio da pulire, il corredo da sistemare, imparare a usare il nuovo passeggino, prenotare il dispositivo anti-abbandono per i pezzi di me stessa che cadono, come segatura, come foglie secche, che perdo per strada, anzi chi la vede più la strada, in questa dimensione domestica in cui fatico anche a spostarmi dal divano al letto.

In questa convivenza costante, interna ed esterna, non esiste veglia che non sia torpore e non esiste sonno che non sia semplicemente un accasciarsi tra cuscini inutili con occhi chiusi.

In questa parentesi tonda, anzi tondissima, della mia vita, come scrive Paola Mastrocola, “ogni cosa che facevo era un pensiero che andava via e io non lo trovavo più, è pazzesco, tu senti a poco a poco la testa che diventa triste, si svuota lentamente, lascia il posto a una sostanza spessa, senza vita, una specie di segatura mentale”. Un liquido denso che impasta l’aria, l’aria dei pensieri, li rende indistinguibili, impossibili da tirare fuori dalla melma, da analizzare.

E allora, mi rimbocco le maniche, chiedo tempo, ritaglio a fatica angoli di silenzio e tranquillità, torno a esercitare e allenare quella sottile arte della pazienza, del tempo che assomiglia a un signore distratto, a un bambino che dorme, che aspetta solo di trovare una strada. In attesa che passi anche questa stazione, questa pioggia sottile, senza fare rumore.

Image © Gabriella Giandelli

Soundtrack: Fabrizio De André, Hotel Supramonte

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