I cavallucci marini

Ci sono negozi a Parigi ai quali sono particolarmente affezionata. C’è il negozio di giocattoli e cartoleria nel Marais, dove ho servito gli accessori più inutili e assurdi a una clientela strampalata. Poi c’è il bazar di spezie dove sono stata un anno e mezzo, tra erbe e cumuli di pepe, liquori dalle Antille e fiori commestibili. Poi il cineclub del 18° arrondissement, con un vero e proprio salotto interno, dove scegliere i film, i negozi di ceramica giapponese, quello di accessori messicani, il laboratorio di profumi.

Ce n’è uno, però, in particolare, che l’estate ha riportato a galla. È un negozio di specie ittiche, nei dintorni di Gambetta. Precisamente, nella lunghissima rue des Pyrénées. Si chiama “Paramount Aquarium” e dal 1972, come si legge sull’insegna, sono specialisti di acquariofilia. Lo si può individuare da lontano, perché ha la porta sempre aperta e il riverbero di una luce azzurrata che investe il marciapiede vicino. 

La cosa bella del negozio, tra le tante, è che, una volta dentro, raramente s’incrocia qualcuno. Con una merce in vendita difficile da rubare, ci si può aggirare per i corridoi per decine e decine di minuti prima di vedere un commesso. Oltre alla bellezza incredibile di alcune specie di pesci, ai colori iridescenti di pinne caudali e scaglie, c’è un’intera sezione dedicata ai cavallucci marini. 

Tutta una stanza ospitava cavallucci marini, divisi in vasche per colori. Di tutte le dimensioni e sfumature, più che nuotare sembravano volare nell’acqua, galleggiando tra alghe, sassolini e bollicine, in tutte le direzioni. Chi in verticale, chi da destra a sinistra, chi in diagonale, altri addirittura sottosopra. Lo sguardo vitreo, indifferente al mondo, ai bambini che tamburellano con le dita sul vetro, ai passanti di quei corridoi allampanati. 

Andandoci tante volte, alla fine ho imparato qualcosa sugli ippocampi. Che possono dormire in due modalità, una modalità integrale e una attiva, con il cervello addormentato e i sensi in allerta, un po’ come i rondoni, e anche alcune specie di megattere, quando volano per giorni e giorni lasciando dormire un emisfero cerebrale alla volta. Che la pinna caudale non gli serve per nuotare ma come sostegno e come arto prensile e quando nuotano la tengono arrotolata sotto il ventre. E poi che sono animali estremamente tenaci e pazienti, ma anche dolcissimi con il loro compagno di vita, che è solo uno per tutta la breve durata della loro esistenza, massimo sette anni.

Ho passato qualche ora in quel negozio, davanti a quei vetri. Nei giorni di pioggia interiore, quelli di temporale invisibile, di nuvole opprimenti. Quelli in cui anche parlare con qualcuno, anche per chi come me, suo malgrado, tende a ripetere e a crogiolarsi nelle ferite, davvero non serve a nulla.
Penso di essere diventata grande qualche volta in quel negozio, senza nessuno accanto, solo con gli occhi trasparenti dei cavallucci marini. 

Oggi, mi piacerebbe passare una mezz’ora sotto quella luce azzurrata, senza nessuno intorno, con il caldo umido dei negozi di acquari, in compagnia dei cavallucci marini. Restare a guardarli fino a sentirne quasi l’impercettibile movimento. Fissarli fino a imprimerli nella memoria. E poi a casa, chiudere gli occhi, e sognare finalmente nient’altro che un cavalluccio marino.

Soundtrack: Björk, Come to me

L’incanto

Un varco temporale, un’apertura astrale

un tuono taciturno, un’aurora boreale

questo e altro potrei fare, se un giorno ti guardassi

risollevassi il mento, dritto dritto agli occhi

Lampi, vento, fulmini, perfino un maremoto

e poi fermare il tempo, finire nell’ignoto

in quello spazio liquido, sospeso ed idilliaco

dove scorre solo il battito cardiaco

E in quella mia parentesi di vita immaginaria

farmi leggerissima, innocua come aria

e finalmente un attimo poterti avvicinare,

sentire il tuo profumo, lasciarmi attraversare

Da vicino, vicinissimo finire ad osservare

la forma delle rughe, il colore dei tuoi occhi,

la curva delle labbra, poterti poi sfiorare

la pelle con un dito, poterti regalare

Un bacio silenzioso che esplode l’universo

brucia l’orizzonte, ti fa sentire perso,

asciuga ogni respiro, congela il mondo intero

ci lascia in due da soli al centro del mistero

E quando per magia, con un battito di mani

ritorna e corre il tempo, quello degli umani

sapere che noi due, come per incanto,

noi soli ricordiamo invece tutto quanto.

Il tempo della semina

Chiudere il cerchio, radunare il raccolto, unire i puntini e vedere, finalmente, un disegno, qualcosa di chiaro, visibile, sensato. Sentire di potersi fermare, anche solo per poco, di non dovere più spingersi oltre, di potersi sedere e guardare il paesaggio che scorre. Perché si era già fatto tanto, forse troppo. E tutto subito. Quando invece, forse, si poteva fare meno, ma meglio. Più lentamente, ma tutti insieme.

Ma era già tardi, perché si era andati veloci come un treno, 5000 km al secondo, si era bruciata la strada senza vedere nulla dal finestrino, senza fermarsi più nemmeno a chiedersi il perché. Perdere di vista, giorno dopo giorno, il cammino, i compagni di viaggio, persino la destinazione.

C’è uno strano modo di imparare le lezioni. Quello di ottenere quello che si desidera e poi vederlo crollare, quello di raggiungere un traguardo che, immediatamente, perde importanza, quello di sentire l’amaro in bocca perché in mano ci si ritrova esattamente quello che si era chiesto. Quello di pensarsi al sicuro, con la propria piccola verità, intoccabili, con la propria piccola ragione. E poi all’improvviso aprire gli occhi.

Scivolare giù, in una paurosa nebbia di memorie, tornare a guardare e vedere che niente è come sembra, e che vie d’uscita non saranno offerte, ma solo conquistate a fatica, e mai una volta per tutte. Avvertire che dentro qualcosa si è rotto e che adesso non c’è spazio né tempo per altro che non sia sopravvivere, riparare, ricucire, rimettere tutti i pezzi al loro posto e sperare che tengano. Ma anche toccare il fondo più basso, farsi attraversare dal buio, mettersi alla prova per vedere quello di cui si è capaci, correre fortissimo per non sentire più niente, capire che i limiti creduti non esistono e che a passare dall’altro lato, quello dove mai avremmo pensato di essere, ci vuole solo un soffio.

E oggi, a pochi passi da Natale, restare in piedi fino a notte fonda, a guardare il soffitto, a voltarsi indietro e vedersi coperta di polvere, sola, a imparare la più dura delle lezioni: essere grata per dover tornare a seminare, per avere l’opportunità di farsi ancora seme, rompersi in profondità e lasciare andare, poter sbocciare ancora e ancora.

Soundtrack: The Smiths, This night has opened my eyes

Tornare

Ci sono libri, e storie, che stanno là, in uno scaffale della libreria, in un angolo del soggiorno. Sai di cosa parlano, ti sembra quasi di averle già lette, perché sono opere conosciute, il momento di prenderle in mano viene sempre rimandato. Poi, arriva anche il loro turno e, per una strana forma di serendipità o di corrispondenza con le ere della tua vita, quasi sempre il momento è quello giusto.

Così, a un mese dalla nostra partenza, tra valigie da fare, documenti e preparativi, quell’algoritmo analogico che è la letteratura, che da un libro conduce a un altro, senza soluzione di continuità, mi ha messo tra le mani “Revolutionary Road” di Richard Yates, acquistato d’istinto in quel luogo mitico che è la libreria I volatori a Nardò e terminato proprio ieri.

“Capolavoro ineguagliato”, come viene definito dalla critica, da cui Sam Mendes ha tratto un film apprezzato e di successo con Kate Winslet e Leonardo Di Caprio. La storia, in poche righe, è questa: siamo nel 1955 e i Wheeler, una giovane coppia con figli, sentendosi intrappolata nel quotidiano di una periferia nel Connecticut, a qualche miglio di treno da New York, prende la decisione di ritornare a sentire l’ebbrezza della vita trasferendosi a Parigi. L’esistenza, il logorante e incessante chiedere della quotidianità, li riacciuffa e, piccolo spoiler, non va a finire bene.

“Non possiamo continuare a fingere che è la vita che volevamo…avevamo dei progetti, tu avevi dei progetti… guarda noi due, siamo cascati nella stessa ridicola illusione… l’idea che devi ritirarti dalla vita, sistemarti nel momento in cui hai dei figli…era una bugia”, dice April Wheeler, “Per anni ho pensato che noi condividessimo un segreto: che noi due saremmo stati meravigliosi nel mondo”.

In questa girandola di personaggi tesi a mantenere uno status quo invidiabile, solo John Givings, matematico e figlio dell’agente immobiliare, un cinquantenne che ha subito 37 elettro-shock e vive internato nella clinica di Greenacres, intuisce e sente risuonare nelle corde del cuore il desiderio di cambiamento dei Wheeler: “Il vuoto disperato… Ora l’ha detto, molte persone sono coscienti del vuoto ma ci vuole un gran fegato per vedere la disperazione”.

Quanto questo libro abbia avuto un’eco in questo mese di preparativi è facile capire. I compromessi della vita a due, l’idea di avere sempre e solo rinunciato a qualcosa da qualche anno a questa parte, la sensazione che Parigi, in un certo qual modo, avrebbe rimesso tutto a posto. E, d’altro canto, il conforto delle piccole abitudini, delle distanze che si riducono, del sentirsi al riparo da un’incontrollabile idea di mondo che se ne va per conto suo, mentre ci lascia qui.

Si può avere le farfalle nella pancia prima di incontrare una città? Si possono avere i brividi al pensiero di prendere un treno metropolitano? Avere le mani che tremano facendo un check-in?

L’ultima volta che ho messo piede in Francia è stato nel mondo di prima. Appena prima dello scoppio della pandemia, negli ultimi mesi del 2019. Un mese di giugno caldissimo, una gravidanza appena sbocciata, il pensiero che sarebbe stato solo un arrivederci, che ci saremmo visti regolarmente, come ci si dice tra vecchi amici che stanno solo cambiando quartiere. “Ci sentiamo”, “poi ci aggiorniamo”, “alla prossima”.

La prossima volta non c’è stata. La nascita di due bambini, un mondo stravolto da un virus, cambi di lavoro, case e prospettive, e un’insolita paura, di quelle che non provavamo da tanto tempo, a prendere un biglietto aereo. “Adesso non è il momento”, “con loro come facciamo?”, “e se succede qualcosa?”. Nel frattempo, la ricerca spasmodica di una casa, letterale e metaforica, di un luogo dove sentirsi protetti e al sicuro. Il tentativo, ogni giorno da ricominciare, di rimettere tutto in piedi, in equilibrio, di avanzare, fosse anche di un passo solo. Una sosta doverosa per dirsi che di strada ne era stata fatta tanta, che ci si poteva sedere e respirare un po’, e ricordarsi che “fermarsi è correre ancora di più”.

E poi, un giorno, in una primavera piovosa come quella di quest’anno, ci siamo decisi a prendere un volo, a regalarci quello che per noi significa davvero un ritorno a casa.

Qualche giorno fa una persona mi ha detto: “Vedrai che i luoghi ti saluteranno come dei vecchi amici”. Ho pensato che rimettere piedi a Parigi sarebbe stato come sentirsi dire un “come va?” da una vecchia conoscenza. Una di quelle domande che vogliono dire tante cose. Che vogliono dire, se hai voglia, mi puoi raccontare tutto, o niente. Come sono andati questi anni? Hai trovato quello che cercavi? Quanto hai perso alle scommesse? Quanti progetti infranti? E quanti e quali incendi hanno preso fuoco dalle ceneri? Quante medaglie? Quanti silenzi?

Poi i francesi, quando dicono “ça va?”, raramente vogliono sapere davvero come stai. È una delle prime cose che s’impara mettendo piede in Francia: a rispondere con un altrettanto “ça va, et toi?” e a chiudere i convenevoli, senza approfondire.

A domani, Paris. Qui non vediamo l’ora.

Foto di copertina: “View from Notre-Dame”
Paris, 1955.
Ernst Haas

Incendiare il buio

È stato, questo, un anno di nascite. Di chiusure del cerchio. Di epifanie e ritrovamenti. Di voglia di restare in compagnia di quanto si ha e di quanto si ha avuto, di fermarsi a mettere un punto. L’uscita di “Incendiare il buio” per le edizioni indipendenti Collettiva è per me la fine importante di un capitolo. Quella che mi sembra un’era, fatta di letture, di scavo, di studio, di ricerca, di confronto con voci femminili, con testi di donne, teorie femministe, storia italiana, europea e mondiale. Quando ho iniziato a scrivere ero a Parigi, mamma inesperta di un primo bimbo. A mettere la parola fine, sicuramente, è stata un’altra persona. Oggi, queste pagine, che hanno vissuto metamorfosi e trasformazioni, proprio come me, sono pronte per andare per la propria strada e io a imboccarne una nuova.

Qui un estratto.

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Il “manzano”

I primi giorni di gennaio non sono solo l’inizio del nuovo anno in casa nostra. Si celebrano altre ricorrenze, altri giri di boa. Cose lasciate andare con incertezza e smarrimento, come la nostra vita di Parigi, il nostro rifugio nel cuore del mondo eppure lontano da tutti, la libertà e l’anonimato che solo la grande città può regalare.

Il profumo della casa di mia nonna, andata via il 2 gennaio, quell’inverno che c’è stata la neve, con gli aerei bloccati a terra, le strade una terra di nessuno, io nella mia stanzetta di adolescente, con un bimbo di sei mesi accanto e i fuochi d’artificio del Capodanno scoppiati tra le lacrime. La casa di mia nonna, un odore che mai più risentirò, come la sua voce, i suoi proverbi allegri, i suoi scoppi di risa, i trebuchi nel cassetto e i quadri pesanti del salotto.

I primi giorni di gennaio degli scorsi anni sono stati per noi anche l’inizio di nuovi cammini professionali, incontri fertili e tanto tantissimo studio, strade di cui oggi finalmente intuiamo l’arrivo. Cerchi che si chiudono, e che si riaprono più grandi, con un respiro più ampio, regalandoci spazio e tempo, per fare progetti, immaginare, costruire, non essere schiavi di nessuno. Nemmeno del proprio talento. Mai più.

Il due gennaio a casa nostra si festeggia anche e soprattutto la nascita di André, il nostro secondo bimbo, la seconda deflagrazione della nostra vita familiare. André, tre primavere oggi, e già fratello maggiore. Da quest’anno, sei tu il “manzano” di casa, con tutta la pesantissima eredità dei secondi figli sulle spalle. La felpa che indossi in questi giorni, con la scritta “Emile” sul petto, la dice lunga.

André, cocco di mamma, occhi di bosco e testa di grano. La tua nascita mi ha restituita al mondo come mamma. Prima mi muovevo nell’incertezza, con il piede in bilico tra due esistenze, come se fosse possibile tornare indietro. Dal tuo arrivo, mi sono sentita immersa nella maternità, con uno potevo farcela, ma con due no. Niente sarebbe più stato come prima e infatti non lo è ancora. Le sfide più difficili sono quelle che ho vissuto dentro le mura di casa e le battaglie più logoranti quelle combattute per ritrovare me stessa, anche se con le mani sempre occupate a stringere dita piccoline.

André cuor di leone, che non ha paura di niente. Appassionato di ragni grandi, lupi neri, altezze vertiginose, e di ogni cosa che fa spavento. È con te che sono riuscita a pronunciare quel “no, adesso basta”, che mi aspettava da anni. È con te che non mi sono più guardata indietro ma solo avanti, per la mia strada, che era diventata la nostra. Con te ho smesso di cercare e ho iniziato finalmente a trovare.

Per il tuo compleanno, oggi che il tempo solo per te spesso non c’è, la mamma ti augura la gioia impigliata sempre nelle tue ciglia lunghe, la curiosità delle tue manine, l’abbraccio forte di tuo fratello più grande e i bacini acerbi della tua sorellina, l’amore fortissimo che abbiamo tutti per te.

Image: Julie Morstad

Soundtrack: This night has opened my eyes, The Smiths

Feste comandate

Era una mattina fredda di gennaio, quando abbiamo salutato una vita e, salendo su un aereo, non ci siamo più girati indietro. Parigi, in questi anni, è tornata a farci visita tante volte, nelle coincidenze, nei sogni, nei desideri, nei ricordi. Noi, complici una pandemia e numerose rivoluzioni personali, mai.

Difficile resta sempre mettere a fuoco la mancanza, l’assenza. Solo di recente ho realizzato che quello che mi manca di più di Parigi ha a che fare con la parola grandezza e la parola infinito, con l’orizzonte, con le possibilità, con il salto nel buio, il mio sport preferito per almeno una decina di anni.

In questi tre anni ho fatto i conti con le mie scelte e con le mie direzioni. Con il cambiamento che mi ha portato dal voler possedere il mondo nel palmo di una mano a vedere la casa della mia infanzia dalla finestra. Ho chiuso i cerchi, ho unito i puntini, anche se il disegno, talvolta, è rimasto impreciso, il tratto incerto, la matita meno sicura.

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Quattro candeline

Quattro anni fa, sei nato tu, in una notte di pioggia forte in un cielo di Francia. E sono nata anche io. Abissi si sono svelati, e un universo è venuto fuori, raccontandomi di contrade inesplorate, di umani che sbagliano, di un amore troppo forte per essere perfetto. La tua vita è la mia nostalgia di Parigi, è il mio aggrapparmi con le unghie e con i denti all’infanzia, siamo io e il tuo papà che ti regaliamo un pezzo di noi, sono le fiabe della pioggia, sono i brividi sulle braccia quando mettiamo i piedi nell’acqua il primo giorno d’estate.

Abbiamo attraversato insieme il paese dei mostri selvaggi, la foresta di Riccioli d’Oro, un oceano, le strade di una capitale europea, i corridoi di un aeroporto, le corsie di un ospedale, le notti più irte e le giornate uggiose, sempre mano nella mano. Tu, primo amore e compagno di giochi, mi hai insegnato come fare le cose una alla volta, ad avere sempre fiducia nel giorno che comincia, a rimboccarmi le maniche anche quando sono stanca, a sentirmi all’altezza di accompagnarti.

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Il sogno dell’invisibilità

Italo Calvino diceva di risiedere a Parigi come se fosse la sua casa di campagna, avendo conservato i principali interessi di lavoro tutti in Italia. I lunghi viali, l’umanità della metropolitana, i quartieri impregnati di se stessi, erano come campane di vetro, nelle quali si sentiva protetto, vivendo perennemente nel sogno dell’invisibilità, un miraggio che aveva realizzato con il suo cavaliere inesistente, voce e spirito tenuti su da una lucida armatura vuota.

Mi capita spesso di avvertire il bisogno di rileggere Calvino, ma soprattutto di riascoltarlo in un vecchio reportage televisivo, in cui si descriveva come un uomo invisibile, circondato da una metropoli indifferente, e per questo amica, “eremita a Parigi”, per ricordare il titolo di uno dei suoi libri. Mi succede soprattutto adesso, in questi mesi di transizione, in cui una nuova vita mi è esplosa tra le mani e non riesco ancora a maneggiarla bene.

Forse perché anche io vivevo a Parigi protetta dal mondo esterno, in una geografia che ormai possedevo nel pugno della mano, grazie alla metropolitana, straordinario labirinto sotto terra, con le cartine della città inutilizzate nei cassetti, in una lingua che mi faceva da strumento e da corazza, con una burocrazia che non riusciva più a mettermi i bastoni tra le ruote. Una latitudine che vivevo come se fosse la mia dimensione domestica, aggirandomi tra parchi, ludoteche e asili, tra teatri e musei, finendo la giornata a raccontare fiabe dentro una tenda da indiano.

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L’avvento

“Il luogo ideale per me è quello in cui è più naturale vivere da straniero”. Lo scriveva Italo Calvino, come una professione di fede, una vocazione all’alterità che lo condusse, oltre a perdersi nei meandri della letteratura e nei tanti e verdeggianti sentieri dei boschi narrativi, anche tra le strade di Parigi, città che lo accolse nel suo spleen e che elesse a seconda patria.

A pochi giorni dalla mia partenza dalla Francia, che coincide fortuitamente con la fine dell’anno, mi risparmio i bilanci, le liste, le cose fatte e i desideri ancora da realizzare. Metto in un cassetto i biglietti della metropolitana, l’abbonamento ai mezzi, la cartina della città, ormai inutilizzata da anni. Lascio da parte la voglia di camminare, disperdendomi in inevitabili compiti burocratici, il lavorio quotidiano, gli armadi da svuotare, le ultime lettere da inviare. Occupo la mente, costruisco piste di treni e torri altissime, racconto storie su mondi inventati, sforno torte alla cannella e soffio sulle bolle di sapone.

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