Secondo natura, ci vogliono circa quaranta giorni perché una mamma ritrovi il suo corpo dopo aver dato alla luce un bambino. Questo periodo, che prende il nome di puerperio, è una fase unica e delicata nella vita di ogni donna, in cui ciò che ha cambiato posizione per fare spazio a una nuova vita ritrova il suo posto, il dolore fisico diventa certo più lieve ma fastidioso come un rumore di fondo a cui non ci si abitua, si attende solo che sia finito. La solitudine diventa un miraggio e s’imparano, il più in fretta possibile, nuove strategie di sopravvivenza. Questo periodo, oltre ad avere un riscontro medico, ha origini che si perdono nella Notte dei tempi, precisamente quella di Natale.
Il 25 dicembre, secondo il Vangelo, in una stalla fredda, circondata dal deserto, Maria partorisce con dolore (ché neppure la mamma del Signore è stata risparmiata) e dà alla luce il piccolo Gesù. Dopo quaranta giorni, il 2 febbraio, il giorno della Candelora, non si festeggia solo la Presentazione di Gesù al tempio ma anche la Purificazione della Madonna, che torna alla vita dopo aver messo al mondo un figlio maschio. Una data che ha retaggi ancora più antichi, risalenti ai vecchi riti pagani dedicati a Giunone Sospita, la Salvatrice, protettrice dei parti e delle puerpere, omaggiata con una processione notturna di fiaccole.
Una consuetudine, quella dei quaranta giorni, che un tempo faceva sì che le mamme restassero a letto, una sorta di “quarantena benevola”, per invogliare al riposo e al recupero psico-fisico, per riabituarsi alla vita insieme al piccolo, mentre intorno c’era chi s’occupava di tutto il resto. Erano tempi in cui le case erano abitate da tre generazioni e, per accogliere e crescere un nuovo bambino, ci voleva davvero tutto un villaggio. E non solo per fare il bucato o pensare alla spesa. Ma per respirare l’atmosfera di famiglia, per dare consigli, per rassicurare e tenere per mano i nuovi genitori, perché la mamma è sempre la mamma, ma l’abbraccio di un nonno, la carezza di una nonna, lo sguardo dolce di una zia, il consiglio di una vicina di casa conosciuta da anni, sono insostituibili.
Il puerperio era una cosa di donne. Era una famiglia allargata quella che per poco più di un mese s’insediava in casa, per pulire, fare da mamma ai bimbi più grandi, cucinare, ritirare i panni e riordinarli, per permettere alla puerpera di riposare, recuperare le forze e, soprattutto, risparmiarle la stanchezza, preservarla dallo sforzo, perché non perdesse il latte, fondamentale per la sopravvivenza del neonato.
Oggi, invece, le famiglie sono spezzate come i pezzettini di un puzzle. Ondate di migrazioni, interne, interiori e internazionali, hanno inscatolato i frammenti restanti, ognuno nel proprio appartamento, e le mamme e i papà finiscono a vedersela da soli, a fare i conti con congedi di paternità inesistenti, solitudini urlanti, montagne russe ormonali, dubbi, paure, lacrime e pannolini. Il lavoro è diventato talmente flessibile da infilarsi in tutti gli spazi, senza lasciare tempi liberi, senza concedere silenzi o vuoto, bisogna rialzarsi e riprendere le fila, pena l’esser lasciati indietro. Per fortuna, nessuno consiglia più alle neo-mamme di restare a letto per un mese, e gli uomini sono i benvenuti nelle stanze della puerpera, ma il nuovo bimbo diventa quasi un intoppo, una novità che deve disturbare il meno possibile, perché la vita continui a scorrere come prima, come se niente fosse accaduto.
Penso di non aver fatto ancora pace con l’idea di aver dedicato a questa gravidanza e a questa seconda maternità poca attenzione e poco tempo. Ho passato i primi mesi in un autobus su e giù per la Puglia a fare strada a comitive di turisti, tra trulli e chiese barocche, soffocando la nausea e la voglia di patatine. Poi ho incastrato la pancia tra una sedia, una scrivania e la tastiera di un computer e l’ho liberata solo pochi giorni prima del parto. E anche adesso, che dovrebbe essere il tempo della lentezza, delle ninne nanne, dei ritmi circadiani indifferenti al mondo che scorre fuori, il mio telefono squilla venti volte al giorno, in mano ho sempre una matita per sottolineare e davanti a me un quaderno degli appunti per tracciare nuove strade.
Solo quel pomeriggio d’inizio gennaio, quelle ore veloci eppure interminabili, mi hanno restituito alla dimensione naturale, quasi ancestrale, della nascita. Luci tenui, volti familiari, l’aiuto della voce e una mano miracolosa posata sulla schiena, una nuova vita che avanzava con tenacia e determinazione, e poi una notte intera in bianco, la prima di una lunga serie, in cui capire che forse sì, non avevo avuto il tempo per il corso pre-parto, per completare il corredo, per stirare le tutine nella valigia, non avevo letto i libri consigliati dalla ginecologa né preso tutti i suoi integratori, ma avevo fatto una scelta, quella di dare la vita, il più possibile secondo natura. E per un giorno, uno soltanto, il mondo s’era fermato e tutto l’universo era lì, intorno a me.
Il mio puerperio finisce oggi, impalpabile, irrilevante e di certo sfiancante come poche cose che abbia vissuto. E proprio in questi giorni rimetto piede in una palestra, partecipo a una riunione di lavoro, tutte le cerniere dei miei vestiti tornano a chiudersi, riapro il cassetto dei trucchi, verifico che tutto sia tornato al suo posto, gli strappi ricuciti, le cicatrici, quelle visibili e quelle nascoste, almeno parzialmente guarite. Scalpito per tornare alla vita, tenendo difficilmente a bada quel delirio di onnipotenza che m’impedisce di delegare, di rinunciare, di dire no a voler fare tutto, a tutti i costi. Quando invece dovrei fare, per un po’ di tempo, la mamma soltanto.
Mentre, tra le braccia, ho un bambino che non ne vuole sapere di cullette e palestrine, di sonagli o ciuccetti, dorme e riposa solo a contatto con la pelle, respirando odori che già conosce, e mi obbliga, a modo suo, a fermarmi, a chiudere i libri, a spegnere gli schermi, silenziare il telefono e ritornare a quella nobile arte del “perdere tempo” insieme a lui. Togliere gli occhiali, disinnescare l’acceleratore, fare solo una cosa alla volta e immergermi in un limbo che sa di latte e sogni acerbi, di ciniglia e peluche, una dimensione spazio-temporale dove la fretta non esiste, il caffè si beve freddo, non ci sono scadenze, la vista è ancora immatura, l’udito ovattato e tutto il corpo sembra comunicare solo con il linguaggio dell’amore e della pazienza.
Dedicato alla mia ostetrica Francesca, insostituibile aiuto, che mi ha permesso di accogliere André come desideravo. Secondo natura.
Soundtrack: Ave Maria, Fabrizio De André
Immagine © Thomas Jordan