La ripetizione

Quest’estate, ho trascorso molti pomeriggi a svuotare un secchiello pieno d’acqua su uno scoglio. Io lo riempivo, lo passavo ad André, 20 mesi, lui ne riversava il contenuto sulla roccia, ci facevamo una bella risata e ricominciavamo. Ogni mattina, ripetiamo gli stessi giochi. Émile, cinque anni quasi e mezzo, ama guardare il suo cartone preferito a ripetizione, la sera leggiamo lo stesso libro per mesi.

È noto ormai che la routine faccia bene ai bambini. Che la ripetizione di gesti, giochi, frasi, esperienze, ritmi, rassicuri e conforti, ed è la base sicura dalla quale prendere il volo per affrontare quella straordinaria avventura che si chiama crescita, le prime volte, la scoperta del mondo.

C’è un’altra fascia d’età, che ama ripetere ed è confortata dai gesti sempre uguali e dai ritmi che non riservano mai sorprese, ed è quella degli anziani. Durante i primi mesi di pandemia, in seguito alle tragiche notizie di quanto avveniva nelle case di riposo, ho letto numerosi articoli sulle case di cura e le loro abitudini. In particolare, un’inchiesta del The Economist, tradotta da Internazionale, che raccontava del Green House Project, dove vige una sorta di abolizionismo delle case di riposo.

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I colori dell’arcobaleno

Quando ero al liceo, ai tempi in cui si facevano ancora le gite, andammo in Germania con la mia classe di compagni. Era l’ultimo anno, io ero già concentrata al futuro, ricordo le notti passate nell’hotel, in cui chiesi alle compagne di avere l’unico letto distante dal gruppo, vicino alla finestra, una finestra che si affacciava sulla distesa di palazzi e grattacieli di Monaco.

Mi sentivo già spedita ad alta velocità nell’avvenire, pronta per confrontarmi con le città, con il mondo esterno, con quella infinita galassia dell’ignoto che ero impaziente di prendere a morsi, di toccare con le mani, di vedere, di farmi sporcare e attraversare. Ero già lontanissima dai banchi di scuola, dalla tesina da scrivere, dalle storie d’amore con i compagni, dai voti, dalla dimensione rassicurante del paese, volevo andare “oltre la siepe”, perdermi nel mondo e trovare la mia strada.

Una persona se ne accorse e, proprio durante quel viaggio in Germania, mi offrì un regalo. Il mio professore di inglese, con cui condividevo un amore smisurato per la lingua straniera e per tutto quello che consentiva l’accesso a mondi altri, mi regalò una matita colorata con una frase di Shakespeare “Add another hue to the rainbow”. Me la consegnò di nascosto, con il tatto e la sensibilità che lo caratterizzavano, per non fare preferenze e non creare dissapori con gli altri compagni.

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Quattro candeline

Quattro anni fa, sei nato tu, in una notte di pioggia forte in un cielo di Francia. E sono nata anche io. Abissi si sono svelati, e un universo è venuto fuori, raccontandomi di contrade inesplorate, di umani che sbagliano, di un amore troppo forte per essere perfetto. La tua vita è la mia nostalgia di Parigi, è il mio aggrapparmi con le unghie e con i denti all’infanzia, siamo io e il tuo papà che ti regaliamo un pezzo di noi, sono le fiabe della pioggia, sono i brividi sulle braccia quando mettiamo i piedi nell’acqua il primo giorno d’estate.

Abbiamo attraversato insieme il paese dei mostri selvaggi, la foresta di Riccioli d’Oro, un oceano, le strade di una capitale europea, i corridoi di un aeroporto, le corsie di un ospedale, le notti più irte e le giornate uggiose, sempre mano nella mano. Tu, primo amore e compagno di giochi, mi hai insegnato come fare le cose una alla volta, ad avere sempre fiducia nel giorno che comincia, a rimboccarmi le maniche anche quando sono stanca, a sentirmi all’altezza di accompagnarti.

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Secondo natura

Secondo natura, ci vogliono circa quaranta giorni perché una mamma ritrovi il suo corpo dopo aver dato alla luce un bambino. Questo periodo, che prende il nome di puerperio, è una fase unica e delicata nella vita di ogni donna, in cui ciò che ha cambiato posizione per fare spazio a una nuova vita ritrova il suo posto, il dolore fisico diventa certo più lieve ma fastidioso come un rumore di fondo a cui non ci si abitua, si attende solo che sia finito. La solitudine diventa un miraggio e s’imparano, il più in fretta possibile, nuove strategie di sopravvivenza. Questo periodo, oltre ad avere un riscontro medico, ha origini che si perdono nella Notte dei tempi, precisamente quella di Natale.

Il 25 dicembre, secondo il Vangelo, in una stalla fredda, circondata dal deserto, Maria partorisce con dolore (ché neppure la mamma del Signore è stata risparmiata) e dà alla luce il piccolo Gesù. Dopo quaranta giorni, il 2  febbraio, il giorno della Candelora, non si festeggia solo la Presentazione di Gesù al tempio ma anche la Purificazione della Madonna, che torna alla vita dopo aver messo al mondo un figlio maschio. Una data che ha retaggi ancora più antichi, risalenti ai vecchi riti pagani dedicati a Giunone Sospita, la Salvatrice, protettrice dei parti e delle puerpere, omaggiata con una processione notturna di fiaccole.

Una consuetudine, quella dei quaranta giorni, che un tempo faceva sì che le mamme restassero a letto, una sorta di “quarantena benevola”, per invogliare al riposo e al recupero psico-fisico, per riabituarsi alla vita insieme al piccolo, mentre intorno c’era chi s’occupava di tutto il resto. Erano tempi in cui le case erano abitate da tre generazioni e,  per accogliere e crescere un nuovo bambino, ci voleva davvero tutto un villaggio. E non solo per fare il bucato o pensare alla spesa. Ma per respirare l’atmosfera di famiglia, per dare consigli, per rassicurare e tenere per mano i nuovi genitori, perché la mamma è sempre la mamma, ma l’abbraccio di un nonno, la carezza di una nonna, lo sguardo dolce di una zia, il consiglio di una vicina di casa conosciuta da anni, sono insostituibili.

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Ci vuole un fiore

Due anni. Duecentocinquantamila bottoncini a pressione. Circa quattrocento notti bianche che non torneranno più. Una ventina di calzini spaiati, le ginocchia sbucciate e le dita rigate dai pastelli. Ti prendo per la mano e corri via. Vuoi fare da solo, scoprire, farti male, sbagliare, sbattere la testa e piangere. E alla fine, continuare a riprovare. E io resto dietro a guardare, senza interrompere. Sbagliare, finire contro un muro e ritornarci è quello che faccio sempre anche io.

Le cose che tu mi hai insegnato, invece, non le conto più. Far scivolare il tempo tra le mani, seduti a terra a guardare una formica. Inventare un alfabeto altro, parole nuove. Sentire la felicità, stesi a terra a guardare il soffitto, mangiando un biscotto. Mi hai insegnato che esistono abissi di paura e che, se guardi bene, in fondo, c’è una risata. Che non ci si conosce mai per intero. E che esiste un tempo parallelo, che non è il tempo degli uomini, ma quello dell’amore ché, se mi stringi la mano, basta un minuto a far passare il mal di pancia di giorni interi, il nodo in gola di tutta una notte.

vedere insieme
una forma
deposta sul fondo

la forma del niente
o quella di un antico insetto
il primo che vide la terra

forse la nostra voce
viene dalle sue ali
il vuoto dal suo cuore spento

mentre tu mi prendi la mano
e mi porti nel punto più buio di tematerassi

 

 

 

 

 

 

Due anni di meraviglia, di stupore, di frustrazioni acerbe e dubbi che tornano a fare visita di notte. Tu, invece, ti addormenti sereno sulla mia spalla, sicuro che se la vita non ha sogni, io ce li ho e te li do, tutti. Tu, così piccolo che mi insegni ad avere fiducia, a seguire l’istinto, a continuare a vivere a modo mio, a credere in quello che sono, ad amare quello che faccio e io che mi ritrovo a inseguire i sogni, a sbattere la testa ancora più forte, a correre dietro a un battito di cuore, a vivere il più possibile, perché tu un giorno sia fiero di me.

Émile, anima antica, che tutto comprende e tutto perdona. L’unico che rimette ogni debito e non conosce il peccato. Il solo che indovina quando ho detto una bugia. Che mi accarezza i capelli quando piango e non mi dice mai di smetterla. Emile, che ancora non parli, che hai un mondo in potenza che sta per esplodere, sulla punta delle tue labbra, e sei l’unico a saper chiedere scusa. Tu che hai poteri magici e neanche lo sai. Che fai volare i gabbiani attaccati alle pagine del libro. Che spaventi la tristezza con un bacio e schiacci la malinconia con un ditino. Che hai sulle spalle la saggezza sconosciuta dell’universo e corri leggero. Insegui le formiche e le saluti prima di andare via. Per te, che per fare tutto ci vuole un fiore.

 

L’amore che ci diamo
ci avvicina alle montagne
agli animali
agli sconosciuti che di notte
ci stringono la mano.

Pensare che Dio ti abbia detto qualcosa
che non ha mai detto a nessuno.
Pensare che tu mi cerchi
per non farmi credere più a niente
che non sia sconfinato.

Buon compleanno, piccola grande vita.

Soundtrack: Piazza Grande, Lucio Dalla 

Poesie di Franco Arminio.

Immagini di Julie Morstad.