Il figlio della mezzanotte

“Data presunta del parto: 31 dicembre.” “Proprio il 31 dicembre?” “Sì, al massimo il 1° gennaio, in ogni caso iniziate l’anno col botto”. La battuta infelice del medico non azzeccò le previsioni. Perché i botti del 31 passarono e anche quelli del primo giorno del 2020 e tu non sei arrivato. Ti sei annunciato all’ora del tè del 2 gennaio, hai aspettato un pomeriggio qualsiasi, quasi per non disturbare, arrivando al mondo in punta di piedi ma con determinazione e in pochissimo tempo. Alle 20 del 2 gennaio, ci hai trasformato in una famiglia di quattro persone, cambiandoci la vita, ancora una volta, e regalandoci una dolcezza che non tornerà più.

È stato, questo, l’anno della chiusura del cerchio. L’anno che ha riportato tutto a casa, compresa me. L’anno in cui ho visto allontanarsi amicizie che tali non erano e tagliare una volta per tutte rami secchi. L’anno in cui semi addormentati da tempo immemore hanno dato finalmente frutto e in cui per la prima volta forse mi è sembrato di raccogliere e non solo di spargere e seminare. In questi mesi, velocissimi e pieni, nonostante il tempo vuoto e sospeso dell’epidemia e dell’isolamento, abbiamo fatto insieme tante cose. Abbiamo scritto un libro. Abbiamo superato due concorsi. Abbiamo iniziato un nuovo lavoro. Tutto insieme, perché non c’erano alternative. Perché un giorno, guardando dietro, tu non debba dire: “la mamma non l’ha fatto per me”. Io ti ho consacrato tutto il mio tempo e il mio sonno perduto. Tu mi hai resa impermeabile alla stanchezza e al dolore.

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Secondo natura

Secondo natura, ci vogliono circa quaranta giorni perché una mamma ritrovi il suo corpo dopo aver dato alla luce un bambino. Questo periodo, che prende il nome di puerperio, è una fase unica e delicata nella vita di ogni donna, in cui ciò che ha cambiato posizione per fare spazio a una nuova vita ritrova il suo posto, il dolore fisico diventa certo più lieve ma fastidioso come un rumore di fondo a cui non ci si abitua, si attende solo che sia finito. La solitudine diventa un miraggio e s’imparano, il più in fretta possibile, nuove strategie di sopravvivenza. Questo periodo, oltre ad avere un riscontro medico, ha origini che si perdono nella Notte dei tempi, precisamente quella di Natale.

Il 25 dicembre, secondo il Vangelo, in una stalla fredda, circondata dal deserto, Maria partorisce con dolore (ché neppure la mamma del Signore è stata risparmiata) e dà alla luce il piccolo Gesù. Dopo quaranta giorni, il 2  febbraio, il giorno della Candelora, non si festeggia solo la Presentazione di Gesù al tempio ma anche la Purificazione della Madonna, che torna alla vita dopo aver messo al mondo un figlio maschio. Una data che ha retaggi ancora più antichi, risalenti ai vecchi riti pagani dedicati a Giunone Sospita, la Salvatrice, protettrice dei parti e delle puerpere, omaggiata con una processione notturna di fiaccole.

Una consuetudine, quella dei quaranta giorni, che un tempo faceva sì che le mamme restassero a letto, una sorta di “quarantena benevola”, per invogliare al riposo e al recupero psico-fisico, per riabituarsi alla vita insieme al piccolo, mentre intorno c’era chi s’occupava di tutto il resto. Erano tempi in cui le case erano abitate da tre generazioni e,  per accogliere e crescere un nuovo bambino, ci voleva davvero tutto un villaggio. E non solo per fare il bucato o pensare alla spesa. Ma per respirare l’atmosfera di famiglia, per dare consigli, per rassicurare e tenere per mano i nuovi genitori, perché la mamma è sempre la mamma, ma l’abbraccio di un nonno, la carezza di una nonna, lo sguardo dolce di una zia, il consiglio di una vicina di casa conosciuta da anni, sono insostituibili.

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Luna piena

Andrea non s’era perso. Anzi, sapeva fin troppo bene dove andare. Sin dall’inizio. Quando si presentò inaspettato, inatteso, sul pianeta Terra. Erano tutti gli altri, intorno a lui, a essersi smarriti, in coordinate geografiche incerte, in uno spazio-tempo indefinito e poco rassicurante. Perché non bastava il sole, né il mare, a fare bella la vita se tutto l’orizzonte è da rifare. Non era Andrea a essersi perso. Ma la mamma, finita in mezzo al mondo a spiegare un pancione. E il papà, catapultato in un altro universo, che parlava un’altra lingua.

Mani sconosciute che lo accarezzano, ospedali chiusi per le feste patronali, conoscenti che non bevono il caffè perché altrimenti il bimbo nasce con la voglia, vecchiette che al supermercato nascondono la frutta nelle sporte, “ché sennò gli vengono le macchie”. E poi, quella precarietà, quella guerra tra poveri che, nelle lande periferiche, fa sì che gravidanza faccia sempre rima con disagio, paura, timore, mancanza di soldi, fastidio. Anche negli ambienti più amici. Quel sentimento di doversi quasi scusare di essere là e di avere avuto un’idea improbabile.

Dal suo arrivo, tutto continuava inalterato in uno strano limbo. Il lavoro, la scuola, l’asilo, la spesa. “Io ero già un maschietto ma mi chiamavano con nomi da femminuccia. Papà prendeva le misure per il lettino e la vaschetta. Intanto, un altro bimbo saltava sulle ginocchia della mamma, la stringeva forte forte, forse per paura di doverla dividere con qualcun altro.

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Parentesi tonda

“Chiuso per festività patronali”. Mentre tornavo a casa con un bicchiere pieno di pipì appena fatta nella borsa, davanti alla porta chiusa del laboratorio di analisi dell’ospedale di Lecce una giornata di fine agosto, in quel cartello appeso al muro e nella monetina data al parcheggiatore abusivo per i dieci minuti di sosta, che m’ero ripromessa di raccontare, ho issato finalmente la bandiera bianca.

Mi sono arresa alla casualità e all’imprevedibilità e alle difficoltà inedite di questa attesa. Alla voglia di silenzio, all’incapacità di mettere nero su bianco i pensieri, i personaggi, le tante vicissitudini di questa parentesi tonda, anzi tondissima, della mia vita. Alla necessità di realizzare che avrei dovuto fare posto per un amore grande, un tempo che non conosce più confini, mantenendomi all’altezza di essere una mamma di un bimbo di tre anni. Eppure, quanto ne avrei avuto bisogno. Di riempire le pagine di un diario, di fare liste, bilanci, elenchi di desideri e cose da ricordare. Di segnare i tre fatti del giorno, di annotare i piccoli traguardi, le conquiste infinitesimali, i minimi passi in avanti della consapevolezza di essere di nuovo in procinto di osservare una vita che nasce.

Lo scorso anno, mentre facevo le valigie per abbandonare Parigi, mi dilettavo in bilanci, liste, resoconti delle tante primavere passate in terra ormai non più straniera, cullata da un confortevole anonimato, dal lusso dell’invisibilità. E oggi, mentre il mondo intero mi rassicura di “essere tornata a casa”, io in questa landa che non riconosco, mi sembra di non avere più lo spazio per pensare, riflettere, articolare un pensiero complesso e ragionato. E non solo per la scarsa capacità di concentrazione. Le mani fanno ormai fatica ad arrivare alla tastiera. Ogni seduta o posizione resta difficilmente praticabile per più di un quarto d’ora.

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