Il mio primo vero libro mi fu regalato a Natale dai miei genitori, un anno in cui decisero che era arrivato il momento di passare a letture più edificanti della collana Piccoli Brividi. Con la falsa promessa che avrei trovato una raccolta di storie di paura, mi indicarono un armadio dove effettivamente mi aspettava un pacchetto dalla forma simile a un libro. Era “Piccole donne”. Alla mia smorfia e al mio naso arricciato, seguirono serate di lettura profonda. La prima volta, di pagine e pagine senza nemmeno un’illustrazione, scritte in caratteri piccoli su quella carta ingiallita tipica delle edizioni economiche da 2000 lire della Newton Compton.
Di quel libro ricordo tutto, dai limoncini di Amy al camino dove Jo diede alle fiamme il suo romanzo, al paio di guanti bruciati appena prima del galà cui erano invitate le due sorelle March più grandi. Non solo. Ricordo la voglia, a libro terminato, di trovare un’altra storia così potente da farmi dimenticare tutto il mio mondo, i piccoli screzi delle scuole medie, la vita ordinaria di una pre-adolescente qualsiasi. Ricordo la bellezza di aver scoperto che una via di fuga esisteva, ed era un semplice oggetto, alla mia portata. Era nata una lettrice.
Da quel momento in poi ricordo le vacanze, quelle estive e quelle di Natale, come momenti di solitudine privilegiata in compagnia di voci speciali. La collana del Battello a Vapore mi traghettò lentamente dalle letture per ragazzi ai grandi classici. Era un’estate caldissima quando mi persi nella New York di Salinger e, complice la lista dei libri delle vacanze, m’innamorai del barone Cosimo Piovasco di Rondò, guardandomi allo specchio e promettendo di fare di tutto pur di conservare almeno un po’ di quella sua fierezza, quella sua incrollabile coerenza, anche in età adulta. Stesa nella pineta di Rivabella, dodici mesi dopo, mi affacciavo al pericolo, seguendo i ragazzi dello zoo di Berlino e i diari di uno scrittore sulla Route 66 di Kerouac, cimentandomi con le prime prove di scrittura creativa annacquata da qualche Bacardi Breezer al pompelmo, imitando il verso libero di Ginsberg e il cut-up di Burroughs.
In terza liceo, piombai nella terra di mezzo insieme a Tolkien, dotandomi di un vocabolario di lingua elfica, e passai tra hobbit e cavalieri oscuri quei lunghi pomeriggi di dicembre, in quelle stanze chiassose di parenti e già un po’ sbiadite e tristi, quando Natale si avvia ormai alla fine. A poca distanza dalla maggiore età, erano tempi ancora di porte chiuse a chiave e musica a tutto volume nella cameretta, ricordo il mio inverno con Umberto Eco e “Il nome della rosa” e l’incontro con la follia di Patrick McGrath, di cui non ricordo neanche un briciolo di trama ma in compenso ho ancora negli occhi le descrizioni della schiena dei protagonisti, le vertebre, la pelle ossuta, le ambientazioni da “Cime Tempestose” e quell’afflato gotico che continuai a ricercare per un po’ di tempo nelle letture future.
Durante il Natale oscuro di qualche anno fa, una poesia di Montale mi tirò letteralmente fuori dal baratro. Pensavo che il mio viaggio fosse finito, “nelle cure meschine che dividono l’anima che non sa più dare un grido”, in giorni e minuti “eguali e fissi come i giri di ruota della pompa”. E invece quei versi, spiaggiati su una squallida metaforica costa italiana, mi obbligarono a rimettere insieme un’esistenza in frantumi, a rimboccarmi le maniche e a sovvertire il disegno, passare il varco, ritrovarmi. Si sedimentarono pian piano nelle mani, nelle braccia, modellando una forza di volontà e un coraggio di cui non mi credevo capace.
Insieme al piacere della lettura, primo e mai tradito, sono nati poi altri diletti accessori. Il piacere di passare il tempo in libreria o in biblioteca, di acquistare i libri, di collezionarli, di accumularli sul comodino. Il piacere di scegliere il prossimo libro quando ancora non si è finito quello precedente. Selezionare il libro per la notte, quello per la spiaggia e quello per i mezzi pubblici. Parlare dei libri, confrontarli, studiarli e, di recente ahimè, anche fotografarli con accanto una tazza di tè e darli in pasto al web. Tutti vezzi che non hanno mai inaridito il piacere primo e sublime della lettura, quella non interrotta da nulla, non disturbata dal rumore di fondo delle notifiche e del mondo virtuale.
Infine, oggi, in questa dimensione sospesa, fatta di attese, giorni tutti uguali, vissuti in posizione orizzontale per prescrizione medica, di un Natale soffuso, attutito, in sordina, ancora una volta i libri tornano a tendermi la mano, portandomi via. E una storia, che mi sono ritrovata tra le mani per caso nella biblioteca di Lecce, mi tiene compagnia nelle notti senza sonno, nei giorni senza riposo e in questo snervante conto alla rovescia. Seguendo Scout e Jem nell’Alabama del Sud di Harper Lee, in quello che, come “Piccole Donne” tanto tempo fa, diventa il libro del mio Natale presente, ancora di salvezza per affrontare il mondo là fuori e quello, forse ancora più insidioso, delle quattro mura domestiche.
“Fino al giorno in cui mi minacciarono di non lasciarmi più leggere, non seppi di amare la lettura: si ama, forse, il proprio respiro?” – Harper Lee
Piccolo bonus di fine anno, la lista di tutti i libri citati in queste poche righe, i miei personali consigli di lettura:
- Piccole Donne, Louisa May Alcott
- Willy acchiappafantasmi e gli extraterrestri, Roger Collinson (collana Battello a Vapore)
- Il giovane Holden, J. D. Salinger
- Il barone rampante, Italo Calvino
- Noi, i ragazzi dello zoo di Berlino, Christiane F.
- Diario di uno scrittore affamato, Jack Kerouac
- Il signore degli anelli, J. R. R. Tolkien
- Il nome della rosa, Umberto Eco
- Follia, Patrick McGrath
- “Casa sul mare” , poesia contenuta in Ossi di seppia, Eugenio Montale
- Il buio oltre la siepe, Harper Lee
Soundtrack: Mockingbird, Tom Waits