I libri di Natale

Il mio primo vero libro mi fu regalato a Natale dai miei genitori, un anno in cui decisero che era arrivato il momento di passare a letture più edificanti della collana Piccoli Brividi. Con la falsa promessa che avrei trovato una raccolta di storie di paura, mi indicarono un armadio dove effettivamente mi aspettava un pacchetto dalla forma simile a un libro. Era “Piccole donne”. Alla mia smorfia e al mio naso arricciato, seguirono serate di lettura profonda. La prima volta, di pagine e pagine senza nemmeno un’illustrazione, scritte in caratteri piccoli su quella carta ingiallita tipica delle edizioni economiche da 2000 lire della Newton Compton.

Di quel libro ricordo tutto, dai limoncini di Amy al camino dove Jo diede alle fiamme il suo romanzo, al paio di guanti bruciati appena prima del galà cui erano invitate le due sorelle March più grandi. Non solo. Ricordo la voglia, a libro terminato, di trovare un’altra storia così potente da farmi dimenticare tutto il mio mondo, i piccoli screzi delle scuole medie, la vita ordinaria di una pre-adolescente qualsiasi. Ricordo la bellezza di aver scoperto che una via di fuga esisteva, ed era un semplice oggetto, alla mia portata. Era nata una lettrice.

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Il sogno dell’invisibilità

Italo Calvino diceva di risiedere a Parigi come se fosse la sua casa di campagna, avendo conservato i principali interessi di lavoro tutti in Italia. I lunghi viali, l’umanità della metropolitana, i quartieri impregnati di se stessi, erano come campane di vetro, nelle quali si sentiva protetto, vivendo perennemente nel sogno dell’invisibilità, un miraggio che aveva realizzato con il suo cavaliere inesistente, voce e spirito tenuti su da una lucida armatura vuota.

Mi capita spesso di avvertire il bisogno di rileggere Calvino, ma soprattutto di riascoltarlo in un vecchio reportage televisivo, in cui si descriveva come un uomo invisibile, circondato da una metropoli indifferente, e per questo amica, “eremita a Parigi”, per ricordare il titolo di uno dei suoi libri. Mi succede soprattutto adesso, in questi mesi di transizione, in cui una nuova vita mi è esplosa tra le mani e non riesco ancora a maneggiarla bene.

Forse perché anche io vivevo a Parigi protetta dal mondo esterno, in una geografia che ormai possedevo nel pugno della mano, grazie alla metropolitana, straordinario labirinto sotto terra, con le cartine della città inutilizzate nei cassetti, in una lingua che mi faceva da strumento e da corazza, con una burocrazia che non riusciva più a mettermi i bastoni tra le ruote. Una latitudine che vivevo come se fosse la mia dimensione domestica, aggirandomi tra parchi, ludoteche e asili, tra teatri e musei, finendo la giornata a raccontare fiabe dentro una tenda da indiano.

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Le città invisibili

Le descrizioni di città visitate da Marco Polo avevano questa dote: che ci si poteva girare in mezzo col pensiero, perdercisi, fermarsi a prendere il fresco, o scappare via di corsa.

Succede spesso di andare lontano per smaltire un carico troppo ingombrante di nostalgia, come il Marco Polo di Italo Calvino. Di riuscire a realizzare quanto buio c’è tutto intorno solo aguzzando la vista sulle fioche luci lontane. Partire quasi per abitudine, per inerzia, per inseguire un desiderio che non ha forma, se non quella astratta e vaga del cambiamento, della svolta, il colore mai visto di una pagina bianca, ma non vuota.

Puntare il dito sul mappamondo e scegliere una nuova destinazione, solo per avere la possibilità di scappare via di corsa, di cambiare identità, immaginare una nuova vita, di godere del privilegio di sentirsi straniero e del caldo abbraccio del ritorno a casa.

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Viaggiando ci s’accorge che le differenze si perdono: ogni città va somigliando a tutte le città, i luoghi si scambiano forma ordine distanze, un pulviscolo informe invade i continenti.

Può succedere anche di impregnarsi di quell’abitudine di paragonare le città, di ritrovarle, una nell’altra, di riconoscerne schemi, meccanismi, patologie. Di parlare di una mentre ci si ricorda di un’altra. E a volte, all’estremo di quest’insana mania, si finisce per vivere altrove, pur continuando a ritrovarsi in un vecchio appartamento di qualche tempo fa. “Tutto è mio, niente mi appartiene, nessuna proprietà per la memoria, mio finché guardo”, scriveva Wislawa Szymborska, “Parigi dal Louvre fino all’unghia si vela d’una cateratta. Del boulevard Saint-Martin restano scalini e vanno in dissolvenza.”

Una dissolvenza che continua, fino ad avvolgere tutto l’orizzonte, fino a creare una città invisibile, dove ci si muove, ci si sposta, si cammina, in una dimensione spazio-temporale altra, sconosciuta. Risalendo la rue Saint-Eleuthère, che dalle scale della Basilica del Sacro-Cuore porta alla Place du Tertre, se ci si ricorda di guardare a sinistra, lontana, nascosta tra la bruma del mattino, si scorge la Tour Eiffel. Seguendo la rue Caulaincourt, tra un caffè e una boulangerie, si aprono affacci improvvisi sulla città di Parigi, sulle mansarde, sulle mani alzate dei comignoli, sulla distesa di tetti grigi, sulle cupole dorate in lontananza. Cosa è reale e cosa non lo è?

Non riconosco nulla, eppure niente è estraneo, ricordo a memoria i nomi delle strade, i colori delle insegne dei negozi, le canzoni dei musicisti sulla rue Norvins. Come una città invisibile, Parigi ha un altro nome e un’altra forma, deriva la sua figura dal deserto a cui si oppone, dalla risposta che ha dato, finalmente, alle mie domande, al cambiamento, giunto all’improvviso, una mattina americana come tante.

È delle città come dei sogni: tutto l’immaginabile può essere sognato ma anche il sogno più inatteso è un rebus che nasconde un desiderio oppure il suo rovescio, una paura. Le città come i sogni sono costruite di desideri e di paure.

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Parigi non ha indirizzi, non ha strade, non ha fermate della metropolitana. Oggi si compone di desideri e di paure, di entusiasmi ingiustificati, di timore, di meraviglia insignificante, di facce che rivedo per la prima volta. Mi sveglio la mattina senza l’impulso di andare via, di rincorrere quella dissolvenza, senza la voglia di sparire il più presto possibile. Sono esattamente dove dovrei essere, forse.

Come un cambio nell’armadio dei ricordi, ripongo tutto quello che è stato per fare spazio al nuovo, che è arrivato senza chiedere il permesso, senza preavviso. Metto da parte quello che ho accumulato durante anni di viaggi, di domicili incerti, di lettere che continuavano ad arrivare nella buca sbagliata. Mi guardo indietro senza capire bene dove tutto sia cominciato, “per questi porti non saprei tracciare la rotta sulla carta, né fissare la data dell’approdo”, ma riesco ad intravedere una direzione. Un disegno che inizia a formarsi, unendo i puntini, finalmente.

Alle volte mi basta uno scorcio che s’apre nel bel mezzo d’un paesaggio incongruo un affiorare di luci nella nebbia, il dialogo di due passanti che s’incontrano nel viavai, per pensare che da lì metterò assieme pezzo a pezzo la città perfetta, fatta di frammenti mescolati col resto, d’istanti separati da intervalli, di segnali che uno manda e non sa chi li raccoglie. Se ti dico che la città cui tende il mio viaggio è discontinua nello spazio e nel tempo, ora più rada ora più densa, tu non devi credere che si possa smettere di cercarla. Forse mentre noi parliamo sta affiorando sparsa entro i confini del tuo impero.

Images © Thomas Campi

Soundtrack: Cat Power, No Sense

Quotes: Italo Calvino, Le città invisibili

Le due linee

C’era una volta una linea, curva, costretta allo sguardo basso per natura, incattivita e amareggiata per la statura e il portamento cui era stata destinata. Di fronte, bersaglio preferito di sberleffi e motti di spirito, un’altra linea, retta, integra, da capo a piedi, spiccata verso l’alto, sorda, dato l’altezza, a ironie meschine e umane bassezze. Le due si ritrovavano spesso, una dirimpetto all’altra e, quella retta, senza perdersi d’animo, ricordava sempre all’amica curva che, nonostante i tempi bui, le magre consolazioni, gli squallori contemporanei, non c’era da cambiare orientamento, da piegarsi e abbassare lo sguardo. Lo scontro quotidiano si combatte restando dritti e lei era lì, viva, dritta, integra, occhi rivolti verso l’alto e petto in fuori e, sempre e comunque, la strada più breve tra due punti.

Questa è la storia di una poesia, che s’intitola Le to linie, vale a dire Le due linee in dialetto salentino. L’autore è Rocco Cataldi, maestro elementare, poeta dialettale e cantore salentino, originario di Parabita. Era lo zio di mio padre e, nei miei ricordi, una delle prime persone che mi abbia incoraggiato a leggere, ad alta voce e da sola, e forse anche un po’ a scrivere. Abitava a poche centinaia di metri da casa mia, mi regalava libri di favole e racconti, e hanno continuato a fare lo stesso anche i suoi figli negli anni. Lo incontravo spesso in paese, ma l’immagine che ho nella testa, quando penso a lui, è un signore anziano, sulla veranda di casa, nel pomeriggio, forse a godersi gli ultimi raggi di sole del giorno.

Io, che faccio collegamenti improbabili e voli pindarici tutti miei, ripenso a questa poesia dall’ultima volta che sono tornata a casa, durante il periodo di Natale. Una vita intera è cambiata da allora ma, l’altra sera, di ritorno qui, sono corsa a prendere il libro, una raccolta di poesie dialettali, che conservo nella mia stanza, a rileggere quei versi, a guardare l’immagine delle due linee. Sono urgenze personali, alle quali non saprei dare un senso.

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Devo confessare che per le linee rette non ho mai avuto una predilezione, anzi le ho sempre guardate con sospetto. “Attraversavo le vie rettilinee in lunghe oblique da un angolo all’altro e così avanzavo tracciando invisibili ipotenuse tra grigi cateti”, è Italo Calvino a scriverlo, in un libro meraviglioso, che s’intitola Eremita a Parigi.

Calvino, che si guardava bene dal pretendere di realizzare quello che andava predicando, rifiutava non solo le linee rette, itinerari troppo semplici per chi soffriva, come lui, di nevrosi geografica, ma anche ogni piano strategico, ogni tattica di sopravvivenza: “non parto da considerazioni di metodologia poetica: mi butto per strade rischiose, sperando di cavarmela sempre per forza di natura”. Animata dalle migliori intenzioni, io mi sono buttata a capofitto nelle strade più improbabili e, tornando indietro, rifarei tutto allo stesso modo. Se potessi ricominciare domani, mi ci butterei con lo stesso entusiasmo, la stessa incoscienza. Questo perché, come scrive sempre Calvino, “ci si abitua ad avere ostinazione nelle proprie abitudini, a trovarsi isolati per motivi giusti, a sopportare il disagio che ne deriva, a trovare la linea giusta per mantenere posizioni che non sono condivise dai più“.

Ad abitudini di questo tipo, ci si affeziona. In mancanza di domicili fissi, in abitudini del genere, ci si può anche sentire a casa, soprattutto per chi, di città in città, resta sempre a mezz’aria, fatica a stabilire relazioni durature con i luoghi e si porta dietro una serie di incompiuti geografici ed emotivi. “Rifiuto la parte di chi rincorre gli avvenimenti. Preferisco quella di chi continua un suo discorso, nell’attesa che torni attuale, come tutte le cose che hanno fondamento“, perché ho sbagliato tante volte ma l’intenzione era quella di restare integra, di andare per la mia strada, di restare sorda alle voci degli altri. Ma soprattutto perché esiste una coerenza di fondo e un disegno probabilmente verrà fuori quando un giorno mi deciderò a unire i puntini.

“Non credo a niente che sia facile, rapido, spontaneo, improvvisato, approssimativo. Credo alla forza di ciò che è lento, calmo, ostinato, senza fanatismi né entusiasmi”. Da quando la lessi negli appunti parigini di Calvino, questa dichiarazione di intenti è diventata il mio manifesto, il mio paracadute quando perdo la terra sotto i piedi, quando penso che forse sarebbe stato meglio seguire una linea retta, senza perdersi tra innumerevoli andate e ritorni, quando sono stanca, la sera, o come adesso basta poco ad abbattere ogni difesa, a contrastare tutto l’impegno del mio scontro quotidiano.

Non so cosa speravo di trovare nella poesia delle due linee. Non so cosa immaginavo di trovare in quei versi. Forse un punto di riferimento, forse un incoraggiamento ad andare avanti, sempre e comunque, lungo una linea, che di certo non è retta, ma almeno è la mia. Forse qualcuno che, pur non sapendo nulla, mi incoraggiasse ad aspettare che la mia, di direzione, torni attuale, come tutte le cose che hanno fondamento, a restare costante nelle mie abitudini, a non cambiare orientamento perché anche questa erranza geografica ed emotiva sia, sempre e comunque, la strada più breve tra i miei due punti.

Soundtrack: 24-25, Kings of Convenience

Image © Mario Cala, maestro elementare di Parabita

Favole per soli adulti

C’era una volta, tanto tempo fa, una fiaba, ma ho dovuto ammazzarla. Senza esitazioni e ripensamenti. Un colpo netto, come uno squarcio nella pancia del lupo cattivo, come la strega chiusa nel forno a bruciare, morta, una volta per tutte, come un cartone animato sciolto nella salamoia. Questo articolo è quel che resta di un’immersione nelle favole per soli adulti, lette e vissute, è stato scritto un paio d’anni fa, sotto l’effetto allucinogeno di un libro di fiabe tradizionali, reinterpretate da scrittori contemporanei. Si tratta di uno di quei libri a cui io ho fisicamente voluto bene, al punto da portarmelo dietro nello zaino anche una volta finito, per poterne rileggere dei brani, l’ho tenuto a lungo sotto il cuscino e ho avuto cura di non affidarlo alle mani sbagliate. Era un periodo della mia vita in cui anche io pensavo di essere la protagonista di una fiaba per adulti, dove non ci sono colpi di fortuna, ma solo imprevisti, non ci sono magie, ma solo illusioni. Ero a Parigi, lavoravo in redazione, lasciavo una casa e ne prendevo un’altra e cercavo disperatamente un lieto fine per la mia fiaba personale. Ho voluto riprenderlo e conservarlo tra queste pagine, perché in quelle storie c’è una parte di me, quella che, anche nella più ordinaria delle routine, non vuole rinunciare a un po’ di polvere di fate e a un briciolo di illusione. Forse, come diceva Calvino, la fantasia è un posto dove ci piove dentro, o forse aveva ragione Gianni Rodari, la fiaba è semplicemente il luogo di tutte le ipotesi: possiamo scegliere quella che ci piace di più, anche se non è vera. 

Ispirandosi al lato oscuro delle fiabe dei fratelli Grimm e di Hans Christian Andersen, non sono pochi gli autori contemporanei che si sono cimentati con la reinterpretazione dei racconti d’inverno più classici, dove la fantasia sembra votarsi al più disincantato realismo, alla normalità più eccezionale e dove il luccichio della polvere di stelle lascia il posto al viale del tramonto e alla quotidianità, preferendo ai caratteri in bianco e nero creature dalle personalità screziate e ambigue.

André Breton era convinto che la miniera d’oro delle fiabe non fosse del tutto esaurita, che ci fosse ancora uno scampolo di racconto da scrivere per i più grandi. Le fiabe tristi, quelle più sporche, meno innocenti. Sembra fargli eco, almeno 50 anni dopo, Maurice Sendak, illustratore e scrittore, originario di una famiglia di ebrei polacchi rifugiatisi negli Stati Uniti durante la Seconda Guerra mondiale, morto qualche anno fa. “Mi rifiuto di alimentare questa cazzata dell’innocenza”, aveva dichiarato in un’intervista, ricalcando la stizza dei fratelli Grimm, illustri filologi e studiosi, erroneamente considerati solo scrittori di favole. Autore de Nel paese dei mostri selvaggi, Sendak era a suo agio con i grumi di paura, il dolore, i cuori spezzati, il sangue, che hanno fatto delle favole quasi un antidoto ai sentimenti umani più cupi o, come diceva Jack Zipes, studioso dell’antropologia del folklore, “meri strumenti per vincere il terrore dell’umanità con l’aiuto di una metafora”.

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Streghe post-strutturaliste

“Era in grado di addomesticare il terrore, attraverso la poesia e l’estensione del linguaggio“, così scriveva Kurt Vonnegut di Anne Sexton, poetessa e scrittrice inglese, nata nel 1928, che tuttavia non riuscì ad addomesticare le sue di paure, suicidandosi nel 1974 all’età di 45 anni. Con Transformations (1971), Anne Sexton si guadagnò la reputazione di “strega post-strutturalista”, reinterpretando 17 fiabe dei fratelli Grimm. Qui il “vivere felici e contenti” si muta nell’ennesimo dovere, una stasi impossibile da sopportare. La mamma di Raperonzolo è una vecchia donna dal cuore spezzato, la Bella Addormentata delude le aspettative del suo pubblico soffrendo di insonnia e la Cenerentola e il principe sono gli unici a meritarsi un lieto fine, finendo “felici e contenti” ma come due statue in un museo, senza darsi neanche più la pena di discutere, nemmeno per la cottura di un uovo. Ai matrimoni smaglianti, Sexton preferisce l’amore imperfetto, come nella storia ispirata alle dodici principesse che scappano dal castello per danzare tutta la notte, un’immagine che scivola in quella di una donna paralizzata che non vuole rinunciare ad andare nei caffè il sabato sera con suo marito e guardare gli abbracci degli amanti nella pista.

Una lucida consapevolezza che Sylvia Plath, poetessa americana, morta suicida nel 1963 a 30 anni, ha scelto deliberatamente di lasciare fuori dal suo unico libro per bambini The Bed Book, una collezione di poemetti bislacchi sul letto, da quello fatto per i gatti a quello per gli acrobati fino al giaciglio ideale, simile a un sottomarino o un jet con direzione Marte, provvisto di zanzariere per le stelle cadenti. Una spensieratezza che ricorda gli alter ego fiabeschi di Italo Calvino, che creò le figure del barone rampante Cosimo Piovasco di Rondò, salito sugli alberi senza scendervi mai più per un supremo atto di disobbedienza, del cavaliere inesistente e del visconte dimezzato, negli stessi anni in cui s’immergeva nel colorato oceano delle fiabe italiane.

Sabotatori di fiabe

“Mi piace ogni cosa che luccica”, diceva Angela Carter. Con La camera di sangue (1979), rinunciando alla definizione di “favole per adulti”, la scrittrice e giornalista inglese ha stravolto gerarchie e stereotipi, facendo di Cappuccetto Rosso una giovane donna per nulla intimorita di dormire tra le zampe del lupo nel letto della nonna. È a lei, vera e propria sabotatrice di fiabe, che Kate Bernheimer, statunitense, creatrice del magazine Fairy Tale Review, ha dedicato l’antologia di fiabe contemporanee My mother she killed me, my father he ate me, una collezione di 40 nuovi racconti riscritti da autori come Neil Gaiman, Joyce Carol Oates, Ludmilla Petrushevskaya e Michael Cunningham.

Vladimir Propp e le sue 31 sedicenti inalterabili funzioni della fiaba si arrendono davanti a queste favole intrise di disincanto e malinconia. Ci sono boschi sì ma anche squallide cucine di fast food, cortili polverosi e abbandonati, odore di vecchiaia, retrobottega poveri. La sirenetta di Andersen finisce prima impagliata nella Mermaid Parade di Mudpuddle Beach, dove ogni anno decine di folli sirene muoiono soffocate dall’aria, e poi ritorna umana in una delle fiabe più intense di tutto il libro, dove è la sfortunata metà di una coppia, che assiste alla crescente attrazione del suo uomo per una creatura ben meno eterea e molto più terrestre.

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“Soggetto 525, donna caucasica sulla ventina, arrivata nel reparto pronto soccorso intorno alle 23 presentando sintomi di un’acuta patologia psicotica”, così Cenerentola debutta nell’antologia mentre Biancaneve è la fantasia erotica di un manipolo di nani che condividono un loft e, tra lattine di birra, tortilla chips e PlayBoy, aspettando l’arrivo della donna che ridarà loro la dignità di uomini.

L’effetto scioccante della bellezza è la caratteristica di ogni favola”, ha scritto lo studioso di folklore Max Lüthi. Qui i personaggi non sembrano più in grado di sostenere questo shock. Svanito l’effetto dell’incantesimo, principi e principesse tornano individui normali, sfiancati dallo scontro quotidiano, protagonisti loro malgrado di favole postmoderne, dal finale ammaccato. La fiaba si arrende rassegnata alla realtà. E la realtà, anche quella più cupa ordinaria, sembra non voler rinunciare al suo briciolo di illusione.

Soundtrack: Searching for Heaven, The Drums

Images (cc) marvelous Elena Kalis on Flickr