“Vorresti che il tempo ti avvertisse. Degli ingranaggi che iniziano a cigolare, una lancetta che scorre più lenta. E invece il tempo si ferma così, senza un motivo, in modo brusco e non riprende mai più a ticchettare”. A scrivere è Ernest van der Kwast, nel suo libro Mama Tandoori, una sgangherata saga familiare, tra India, Canada, Olanda e Italia, letta in pochissimi giorni, su un divano padovano.
Oggi, lunedì 26 gennaio, nel cuore del quinto arrondissement di Parigi, sono ricominciate le lezioni, è ufficialmente iniziato il secondo semestre della Sorbona. Tutti saranno tornati sui banchi in legno degli splendidi anfiteatri dell’università, il basolato grigio della corte si sarà riempito di nuovi progetti, amici ritrovati, ansie per i risultati dei primi esami, le bacheche del corridoio di nuovo piene di annunci, locandine, manifesti. Ci sarei dovuta essere anche io su quei ciottoli grigi o incantata davanti agli affreschi dei soffitti. Ma, così è se mi piace, non c’ero e, chissà, forse non ci sarò più.
Eppure, anche io oggi sono andata a scuola. Non al mio adorato corso magistrale di letteratura comparata, ma nella piccola aula di musica dell’istituto comprensivo di Albignasego, comune alle porte di Padova, insieme a una decina scarsa di allievi e una delle migliori insegnanti che abbia mai visto all’opera. Alla mia destra, due ragazzi cinesi, alla mia sinistra, due moldave e di fronte una ragazza russa, una turca, una libica e due marocchine. E io, tra di loro, in qualità di osservatrice, a guardare uno sparuto gruppo di persone imparare la mia lingua. Ma questa è un’altra storia, di cui ancora conosco poco, ma altrettanto emozionante e, magari, tra qualche giorno la racconterò meglio, su altre pagine.
“Purtroppo non sempre riusciamo a essere quel che desideriamo. Molto più spesso siamo l’altro, l’ombra, l’invisibile, la speranza svanita. E se per una volta sfuggiamo al nostro destino, ci trasformiamo pian piano in un ammasso di puntini grigi che nessuno riconosce più”. Al risveglio, questa mattina, ho avuto paura di sentirmi così, come una speranza svanita, un grumo di amarezza, un ammasso di puntini grigi, incapace di vivere l’ora e il qui, continuamente proiettato nel passato. Stringo i denti e cerco di tenere fede al proposito di non cadere vittima della nostalgia di un altrove qualsiasi, di non cedere a facili spleen, di sfuggire ai madrigali tristi di Baudelaire, che amava ripetere: “A me sembra sempre che starei bene là dove non sono, e questa questione del traslocare è una di quelle che sto continuamente a dibattere con la mia anima.” Ma a volte non c’è forza di volontà che tenga.
Non è neanche tristezza, solo un crudele senso di spaesamento. Cammino e penso di trovarmi su una strada diversa, di veder passare il vecchio autobus che mi portava a casa, di guardarmi intorno e vedere una fermata della metro. Quello che è stato mi insegue dappertutto, anche quando sono a occhi chiusi, anche quando m’illudo di esserne guarita. Mi vengono in mente serate di cui avevo anche dimenticato l’esistenza, facce viste solo una volta, marciapiedi e panchine incontrate per caso che, di colpo, generano uno struggimento insensato, il nome curioso di una corte, il piglio delle statue di marmo nei giardini, le curve di un ponte sulla Senna. Oggi, però, a ritornare in mente è stato un siparietto ridicolo.
L’anno scorso, gennaio, abitavo da sola, con due gatti a carico e due lavori per mantenere me e la mia famiglia felina a Parigi. Ero sempre stanca e amareggiata, a interrogarmi continuamente sul senso delle mie giornate, ma a pensarci ora, avevo una vita piena di (dis)avventure e scoperte e non mi annoiavo neanche un secondo. Anzi, ero così gelosa del mio tempo libero da cercare di impiegarlo sempre nel migliore dei modi, andavo a teatro, passavo pomeriggi in biblioteca, leggevo tanti libri, il mio appartamento prendeva forma, a mia immagine e somiglianza. Altri tempi. Tornando al lavoro, di giorno, ero in un negozietto di giocattoli nel Marais, la sera in un ristorante italo-ebraico a Charenton. Un giorno racconterò del senso degli ebrei francesi per la cucina italiana, dei piatti improbabili che sono stata costretta a servire, dell’arredamento infelice della sala, dei grugni sgradevoli che ho fatto accomodare con i miei migliori sorrisi, della meravigliosa vigilia di Capodanno passata a riverire la famiglia allargata dei due proprietari e mandata giù a sorsi di grappa nascosta nelle tazzine di caffè, ma tutto questo merita una sessione di amarcord a parte.
Ho resistito solo qualche mese, grazie ai miei adorati amici-colleghi, Valentina, Salvatore, Alessandra, tra le poche persone conosciute a Parigi che spero un giorno di ritrovare sulla mia strada. E poi Antonio, pizzaiolo barese, posizionato al centro del ristorante, in bella vista, lui, il suo forno e i suoi coloriti apprezzamenti sulla clientela ebrea, alla quale rivolgeva i peggiori epiteti immaginabili, in salsa meridionale. Intorno, le risatine estasiate e ignare dei clienti inebetiti e lieti di mangiare la vera pizza italiana, proprio di fronte a un pittoresco esemplare di verace maschio italiano, sporco di farina, e che avrebbe voluto vederli tutti sparire. Sullo sfondo, le canzoni di Paolo Conte e il suono acuto del montacarichi che continuava a tintinnarmi nelle orecchie anche di notte.
A noi camerieri sconsolati, invece, Antonio, oltre a una pizza à la carte a fine serata (tra le migliori che abbia mangiato in Francia), riservava un incoraggiamento tutto personale. All’improvviso, ci batteva le mani a un millimetro dalla faccia, si metteva a ridere e gridava: “Daje, un paio de scarpe nove e giri il mondo!”. Oggi, mentre sceglievo un paio di scarpe nuove, in preparazione alla prossima partenza, è saltato fuori questo. E sono scoppiata a ridere nel negozio.
“Non sappiamo perché, ma ci aggrappiamo alle persone”. Anche quando è la cosa più inutile da fare. Io avevo intravisto la battaglia persa in partenza, la strada verso l’infelicità come condizione perenne dell’animo, la solitudine come stato di famiglia. Eppure mi ci sono aggrappata con tutte le mie forze, ma l’intreccio di illusioni e bugie non ha retto il colpo. Almeno per una volta, forse la prima, adesso mi piacerebbe aggrapparmi a quello che ho fatto, visto, scoperto, io, completamente da sola, a tutte le esperienze, anche le peggiori, anche agli improbabili dopo-serata alla chiusura del ristorante, anche agli sgangherati ritorni in metro a casa, con i guanti, il cappotto e la sciarpa impregnati dell’odore della cucina. Per oggi, primo giorno di scuola, come compiti per casa, voglio aggrapparmi a quello che è rimasto, di mio soltanto. Fosse anche uno stupido ammasso di puntini grigi.
Soundtrack: Il treno va, Paolo Conte
Image: © Witchoria
Ah. cara Valeria.
Direi solo questo. Ma forse meriti qualche parola in più. Quell’ “ah” è per il racconto di ciò che hai visto, che ti è passato sotto le mani e che ora ti porti addosso, nel profondo. Forse il punto è proprio questo. Capire perché hai lasciato un “corso adorato”, una “nostalgia” che ritorna e si insinua quando meno te l’aspetti. Se ora ne soffri, forse il tuo posto era tra quei ponti e quelle aule. Chissà. Ma poi capisco, capisco quando dici che si crede d’essere felici sempre da un’altra parte. Che felicità è l’altrove, e poi, guardando indietro, ci s’accorge che invece bastava quello, che proprio quella piccola cosa lì aveva valore, in quanto tale. Io li ricordo i tuoi pensieri dello scorso anno, il negozio del Marais, quello che ci hai raccontato. E credimi, a leggerli il valore, il “senso” lo si percepiva. E sono sicura che anche tu lo sapessi, in una parte fonda di te. Sapere che tutto può sempre essere, che c’è sempre tempo per tornare e ricostruire, per andare avanti da un’altra parte, questo ti deve consolare. Sapere che passato il dolore resta la verità, e che è da lì che si può ripartire. Ti abbraccio. I.
Ciao Ilaria,
grazie per essere passata di qui e aver lasciato quelle parole in più.
Alle quali però oggi non so rispondere. Avrai ragione tu? Io? Avrà avuto ragione Baudelaire? Non lo so. Forse perché è ancora presto e che, se è vero che passato il dolore resta la verità, io quel dolore non l’ho ancora superato, quando chiudo gli occhi, oltre alle strade, ai ponti, alle aule, torna tutto il resto, tutta l’amarezza, il nodo in gola, il rumore di fondo dei tanti progetti infranti. E tutto questo mi confonde, mi annebbia la vista, ancora, a volte anche peggio dei primi giorni. Forse il mio posto era lì, adesso il pensiero di riprendere un volo per Parigi mi fa venire i brividi e preferiscono tenerlo lontano.
Però tutto può sempre essere e ripartire non è impossibile, questo sì, ne sono sicura.
Ti abbraccio forte. Valeria
Ciao, bellissimo post… spesso mi sono sentita come te 🙂 Avrei una domanda… Dove hai preso la citazione: “Purtroppo non sempre riusciamo a essere quel che desideriamo. Molto più spesso siamo l’altro, l’ombra, l’invisibile, la speranza svanita. E se per una volta sfuggiamo al nostro destino, ci trasformiamo pian piano in un ammasso di puntini grigi che nessuno riconosce più”? Grazie 🙂
Ciao Flavia,
grazie per il commento e per esserti fermata a leggere.
Tutte le citazioni, tranne quella di Baudelaire, sono tratte da “Mama Tandoori” di Ernest van der Kwast, il libro di cui parlo all’inizio…te lo consiglio, è una storia vera e bellissima.
alla prossima!
V.
Ci vuole tempo per metabolizzare un grande dolore…datti tutto il tempo che ti serve, ma cerca nello stesso tempo di andare avanti. Cerca di essere lucida per capire quale può essere la tua strada e muovi i primi passi su quel cammino anche se all’inizio ti sembrerà di avere zavorre attaccate ai piedi. Sono passata anch’io per un grande dolore sentimentale, in seguito ho stravolto la mia vita prendendo un sentiero che mai avrei immaginato di prendere. Oggi, dopo 20 anni, riconosco a quella storia l’enorme merito di avermi portato dove sono oggi.
Grazie per il tuo commento…
So che per digerire determinati stati d’animo ci vuole tempo, il gioco è tutto qui, trovare un equilibrio nel non forzare la mano, non chiedere troppo a se stessi ma non lasciarsi andare, non far sì che il tempo scivoli, un giorno dopo l’altro, tutti uguali. Dopo quasi un mese, sono contenta di aver cambiato aria, anche se ancora non ho un orizzonte ben preciso, ma mi sembra di essere tornata a respirare e la lucidità sta tornando, un poco alla volta, insieme a tante nuove idee…
alla prossima!
V