Tutto è cominciato alla stazione di Ancona. Era il 2010, vivevo a Lecce e non avevo ancora messo piede oltre la frontiera nazionale, se non per pochissimi giorni. Per partire e cambiare aria, pensai bene di iscrivermi a un corso di traduzione letteraria a sette ore di treno da casa, in un piccolo paesino della riviera romagnola, Misano Adriatico, dove avrei trascorso tutti i miei fine settimana per almeno sei mesi. Partenza sabato mattina presto, rientro domenica sera tardi, in tutto almeno 7 ore di lezione e 14 di treno in due giorni e, come risultato, tanti nuovi amici, incontri surreali tra un vagone e l’altro e un inguaribile innamoramento per treni e stazioni.
Da Lecce, ci vogliono circa 5 ore di treno per arrivare ad Ancona e qui, ritardi permettendo, dopo dieci minuti, parte un regionale per Misano Adriatico. Ho perso la coincidenza per il regionale almeno 30 volte, da qui i miei pomeriggi e le mie lunghe mattinate spese alla stazione di Ancona, in attesa dei treni successivi, in compagnia di un libro. Erano gli ultimi mesi del mio corso di laurea. Sul tratto di ferrovia Lecce-Ancona, ho preparato uno degli esami più importanti e temuti della mia vita da studente, quello di Letteratura Italiana, con l’Adriatico che scorreva fuori dal finestrino o su un Intercity sgangherato, dove il capotreno mi concedeva un vagone libero e silenzioso per poter studiare. Ricordo quei fine settimana, i ristoranti romagnoli, le sagre di paese, le lezioni di traduzione, come fosse ieri. Di sabato sera, tornavo in albergo e chiedevo un caffè, per i primi tempi prendevo una camera singola per poter studiare e lavorare con il computer e la luce accesi fino a tardi. Mi sono sentita grande per la prima volta in quelle stanze d’hotel, credo.
Erano i mesi in cui preparavo anche la mia prima tesi di laurea. Avevo convinto la mia professoressa a leggere Jean-Patrick Manchette, scrittore noir francese degli anni Settanta, e decidemmo insieme di consacrare l’intera tesi al polar di Manchette, da “Posizione di tiro” a “Il piccolo blues della costa ovest”, e al freddo pungente che si respira tra le sue pagine, insieme all’odore del sangue e della polvere da sparo. Uno dei lavori che ho amato di più, soprattutto durante i mesi di preparazione. Ho visto decine di noir, ho imparato a memoria le battute di Alain Delon, Lino Ventura, Jean-Paul Belmondo. Di ritorno a casa, a coincidenza ormai persa, per sfuggire al freddo, mi rinchiudevo nelle cabine d’attesa della stazione di Ancona con i fumetti di Massimo Carlotto e gli adattamenti dei romanzi di Manchette in fumetto con le tavole di Tardi. Per un po’ di tempo ho avuto quasi l’impressione di vivere in un noir.
Vivere tra i libri e i treni in partenza mi è sempre piaciuto. Quando sono arrivata a Parigi, tutto questo si è trasformato nell’ossessione di avere il libro giusto per ogni mezzo di trasporto, che fosse la metropolitana, il tram, l’autobus, e nell’amore smisurato per la Gare du Nord, ma questa è un’altra storia. A New York, nelle poche ore d’aria, organizzavo le mie esplorazioni in modo tale da percorrere quanta più metro di superficie possibile. E poi, nelle mie case successive, ho avuto, per pura coincidenza, sempre una stazione vicino o almeno un binario all’orizzonte. A Lecce, quest’estate, dal balcone del salotto, si scorgeva un ramo della stazione. In questi giorni a Padova, a poche centinaia di metri da casa, passa il treno e, se tutto tace, si sente il fischio della locomotiva dalla cucina.
Tutto questo per dire che ho smesso di cercare casa e ho iniziato a comprare biglietti dei treni. Da quando sono tornata dalla Francia, in poco meno di un mese, ho cercato un appartamento almeno in tre città diverse, per la fretta di ricreare attorno a me almeno un decimo di quella dimensione domestica che avevo perso. Ho la valigia sotto il letto, libri (sempre di più) e vestiti (sempre gli stessi) ordinati nello zaino, pronta a sbarcare in un altro monolocale. Avevo già in mente la disposizione dei mobili, l’ordine in cui avrei sistemato giornali e quaderni, perfino il nome del gatto. Alla fine, ho fatto un passo indietro. Dopo tutto, non sono sfuggita a una gabbia dorata per andare a rinchiudermi in un’altra dopo neanche un mese. Almeno non senza motivo. Aspetterò che ci sia una ragione, importante, per il prossimo trasloco, che sia un lavoro (spero), che sia un’altra avventura o un’altra esistenza da incrociare.
Nel frattempo, resto in posizione di tiro, occupo divani e letti altri e orbito intorno ai miei centri di interesse, mi sposto di continuo, al posto della metro ho una bici e vado e vengo dalla stazione. Per fortuna, non faccio fatica ad appassionarmi alle storie nuove, alle persone sconosciute, agli accenti diversi dai miei e alle case, anche quando non sono le mie. E poi mi piacciono i treni: “è solo guardando dal finestrino che mi è parso di capire cosa significa provare nostalgia per qualcosa che non si è vissuto. Perché per me ogni stazione è (anche) un’ipotesi, rimasta indimostrata eppure fisicamente immaginata, a suo modo vissuta”, lo scriveva Maria Perosino. Alla fine per leggere, o per immaginare altre vite, al posto di un divano, per ora un posto finestrino andrà benissimo.
Soundtrack: Hotel Home, Molly Nilsson
Images: © Shout
Cara Valeria.
Io quel desiderio di casa lo comprendo bene. E come dici tu, forse non sono necessari monolocali dorati e cose in eccesso. Gli attrezzi che ci fanno sentire bene sono i nostri pensieri, oggetti più o meno cari che definiscono la nostra identità. Già ti ci vedo con lo sguardo assorto percorrere chilometri di campagna, in compagnia dei tuoi libri, incontri strani e altre bellezze. Io provo la stessa sensazione quando viaggio in métro, cambio un tramway e poi prendo il pullman che mi riporta a casa, o quella che è rimasta la mia casa, in Italia, tra spazi vuoti e antiche retrouvailles. Ora leggo Edwige di Edgar Morin, la relazione dell’assenza con una persona che non c’è più. E posso dire d’averlo iniziato all’interno di un vagone e probabilmente lo finirò nella stessa posizione, scorrendo su rotaie predisposte, in un percorso sempre uguale. A volte mi sento così, un convoglio che segue binari, ma poi mi rendo conto che la meta non la conosco ed è lì la vertigine, il panico e un vago sentimento di euforia.
Ti abbraccio.
Cara Ilaria,
grazie per tornare sempre a leggere e a commentare.
A volte, più che all’avere una casa penso di non voler rinunciare a questa possibilità di andare, di prendere un treno, di scendere in una nuova stazione, di essere proprio come dici tu, un convoglio che segue binari, senza necessariamente conoscere la prossima destinazione. Io ho appena finito “In fuga” di Alice Munro, letto per la maggior parte su un treno, storie di migrazioni dell’anima e viaggi in quel tempo sospeso che sta tra l’arrivo e la prossima partenza. Te lo consiglio!
Alla prossima!
Vale
Che belli i tuoi post … Poi essendo della provincia di Brindisi e avendo studiato a Milano me li ricordo quei treni ! Per non parlare di Ancona che ogni volta mi faceva desiderare di essere di quella cotta per evitarmi altre 5 ore . E sai cosa è successo ? Ho sposato uno di Ancona .., di li vicino . Ma qs è un altra storia ! Sempre bello leggerti
Grazie mille cara…l’Adriatico come compagno di viaggio per quasi 6 ore di treno non si dimentica facilmente :)…per ora i miei viaggi sono dall’est all’ovest del Nord Italia, seguendo sempre un vento più o meno cattivo, ma sicuramente più lieto.. alla prossima!