In viaggio con Giovanna

Ricordo con fortissima intensità, e anche un pizzico di nostalgia, quel momento in cui le poche certezze dell’esistenza hanno vacillato. Avevo perso completamente il centro, andato in frantumi, un giorno freddo di gennaio, lontanissimo da casa, qualsiasi cosa volesse dire allora questa parola. Non me ne rendevo certamente conto all’epoca, ma avevo il mondo nelle mie mani e, non avendo più nulla da perdere, avrei potuto prendere qualsiasi strada e diventare qualsiasi cosa.

Lasciai Parigi alla velocità della luce e trovai riparo in quel di Padova, che divenne per pochi mesi la mia base, prima di trasferirmi a Milano. Di quel periodo, ho impresso tutto sulla pelle, anche i dettagli minuscoli, le ombre della mia bicicletta in giro per la città, il teatro la sera, i pomeriggi in libreria, il traghetto per Burano, le passeggiate sotto i portici con la pioggia, i caffè nei bar, il treno per Milano ogni due settimane. E poi una figura, passata nella mia vita come una meteora, che è rimasta nella mia memoria. “Vai da lei, anche solo per parlare un po’”, mi aveva consigliato un amico, al quale confidavo di passare ogni fine settimana in una città del Nord Italia diversa e che sperava di portare un po’ di conforto a quella nevrastenia geografica di cui ero vittima. E io bussai alla porta di Giovanna, in un appartamento poco fuori dal centro di Padova, dove mi recavo in bici al pomeriggio, un giorno di inizio primavera.

Capelli corti, occhi dolcissimi, maglioni morbidi a collo alto, una macchina piena di libri. Giovanna mi ha accolto nella sua macchina con cui perlustravamo la città, usando verso di me la gentilezza, l’autenticità e la verità che solo i perfetti sconosciuti sanno offrire. Ho subito e accolto tante volte il fascino delle persone più grandi, come compagni di strada. Ho avuto amiche donne e prossimità molto intense con persone che spesso avevano venti o trent’anni di più, alle quali mi avvicinavo come ci si avvicina a una sorgente, per sapere sempre di più, vivere, fare esperienze. Col tempo ho imparato che quanto ricevuto aveva un prezzo altissimo, che ha a che fare con parole che si chiamano libertà e crescita. E forse Giovanna è stata la sola a darmi tantissimo, senza chiedere nulla in cambio.

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Notturno italiano

“Questo libro, oltre che un’insonnia, è un viaggio. L’insonnia appartiene a chi ha scritto il libro, il viaggio a chi lo fece”. Questa è una delle più belle epigrafi della letteratura italiana, utilizzata da Antonio Tabucchi per introdurre il suo Notturno Indiano, romanzo pubblicato nel 1984 e premiato tre anni dopo con il Prix Médicis Etranger.

In Notturno Indiano, il narratore parte in India alla ricerca di Xavier, da Bombay a Goa, passando per Madras e Mangalore. Il protagonista si reca in Asia senza alcuna esperienza del continente indiano, dopo aver letto solo qualche guida essenziale alla sopravvivenza in India ma, come riferisce Tabucchi in persona, “il vero pregio di quel piccolo romanzo consiste nell’inconsapevolezza di quel viaggio”, nell’aver evitato, forse volontariamente, di documentarsi, di studiare un itinerario, di interpretare usi e costumi prima di ritrovarseli di fronte. Per Tabucchi, il viaggio è quello che succede nelle “alonature del possibile”, è quello che accade ma potrebbe non accadere, o essere diverso. Viaggiare è ritrovare un luogo che fa parte anche un po’ di noi: “in qualche modo, senza saperlo, ce lo portavamo dentro e un giorno, per caso, ci siamo arrivati”.

Qualche anno fa, per caso, io sono arrivata a Perugia, al festival del giornalismo, dove, seduta sulle mura del centro storico con un nugolo di nuovi amici, mi sono imbattuta in Tabucchi, grazie ai consigli letterari di un amico, con il quale continuiamo a essere spacciatori di libri e titoli, l’uno per l’altra. Segnai nome e titoli sull’agenda e, il giorno dopo, nell’attesa del pullman per tornare a Lecce, andai a riempirmi lo zaino di libri, iniziando con Autobiografie altrui. Pensavo fosse il titolo adatto per cominciare a conoscere Tabucchi, erano tempi in cui m’interessavo di scrittori migranti, di identità al confine, di autori che si sentono a casa in più linguaggi. Non è cambiato poi tanto da allora.

Oggi, altrettanto per caso, o per una serie di contrarietà, sono a Padova, da poco più di due mesi. In pochissimo tempo, la mia vita è cambiata radicalmente e, spesso, ho l’illusione di credere che la svolta sia stata in positivo. Come dire, contrarietà sì, ma, per riprendere Tabucchi in Viaggi e altri viaggi, “nella vita ci sono contrarietà che sono provvidenziali”.

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waiting for a sign

Sono qui a prendere treni, intrecciare contatti, volare da una città all’altra del Veneto, e non solo, fedele alla convinzione che, se avessi già rinunciato a trovare quello che mi fa sentire viva, me ne sarei tornata a casa, senza pretese e altre velleità. Invece, resto in movimento, sebbene creda che questo sia l’ennesimo periodo di passaggio, che io non sia destinata a restare e che l’iperattività sia solo il mio personale antidoto contro l’ignoto che, come diceva Tabucchi, non è prendere un aereo per andare lontano, ma restare in “quel pozzo d’immobilità in una giornata passata a pensare senza muoversi di casa, guardando un muro senza vederlo”.

In poche parole, dove voglio arrivare lo so già, mi serve solo una conferma. Per quanto stupido possa sembrare, sto cercando un segno, anche minimo. Ne intravedo nelle persone incontrate per caso, nei ragazzi che negli ultimi giorni mi hanno dato un passaggio in auto e che, a un’età poco canonica secondo i più, hanno abbandonato una strada per prenderne un’altra. “Non mi piaceva e ho cambiato”, sembra semplice, no? Resto in posizione d’attesa, con la presunzione che, alla fine, si può stare bene, sentirsi finalmente se stessi, anche e soprattutto “nei frattempi”, in quei momenti interstiziali tra un’era e l’altra dell’esistenza.

Eppure, come Pereira, non mi sento rassicurata e mi capita di provare una grande nostalgia, per una vita passata e per una vita futura. Spesso mi capita di pensare che sto dove non dovrei stare e, a volte, ho perfino nostalgia di casa, “il che è evidentemente una sciocchezza, da quelle parti non sono mai stato uno stimato sciovinista”. Sarà che i momenti di pausa, in tutti i contesti, non mi sono mai piaciuti e che ho sempre preferito andare da qualche parte, anche senza sapere esattamente la destinazione.

E allora, dato che anche io detesto i poemi ciclici, procedo per approssimazioni, mi avvicino gradualmente all’idea di me che ho in testa. Continuo a viaggiare, perché, come diceva Fernando Pessoa, scrittore portoghese, musa e ossessione di Tabucchi, per viaggiare basta esistere: “passo di giorno in giorno come di stazione in stazione, nel treno del mio corpo, o nel mio destino, affacciato sulle strade e sulle piazze, sui gesti e sui volti, sempre uguali e sempre diversi come in fondo sono i paesaggi.”

L’esistenza stessa “è un viaggio sperimentale fatto involontariamente”, da attraversare senza documentarsi troppo, lasciando spazio per imprevisti e sorprese e senza svelarsi troppo in anticipo il finale. 

Image © Bootsy Holler

Soundtrack: How It Ended, The Drums

Il primo giorno di scuola

“Vorresti che il tempo ti avvertisse. Degli ingranaggi che iniziano a cigolare, una lancetta che scorre più lenta. E invece il tempo si ferma così, senza un motivo, in modo brusco e non riprende mai più a ticchettare”. A scrivere è Ernest van der Kwast, nel suo libro Mama Tandoori, una sgangherata saga familiare, tra India, Canada, Olanda e Italia, letta in pochissimi giorni, su un divano padovano.

Oggi, lunedì 26 gennaio, nel cuore del quinto arrondissement di Parigi, sono ricominciate le lezioni, è ufficialmente iniziato il secondo semestre della Sorbona. Tutti saranno tornati sui banchi in legno degli splendidi anfiteatri dell’università, il basolato grigio della corte si sarà riempito di nuovi progetti, amici ritrovati, ansie per i risultati dei primi esami, le bacheche del corridoio di nuovo piene di annunci, locandine, manifesti. Ci sarei dovuta essere anche io su quei ciottoli grigi o incantata davanti agli affreschi dei soffitti. Ma, così è se mi piace, non c’ero e, chissà, forse non ci sarò più.

Eppure, anche io oggi sono andata a scuola. Non al mio adorato corso magistrale di letteratura comparata, ma nella piccola aula di musica dell’istituto comprensivo di Albignasego, comune alle porte di Padova, insieme a una decina scarsa di allievi e una delle migliori insegnanti che abbia mai visto all’opera. Alla mia destra, due ragazzi cinesi, alla mia sinistra, due moldave e di fronte una ragazza russa, una turca, una libica e due marocchine. E io, tra di loro, in qualità di osservatrice, a guardare uno sparuto gruppo di persone imparare la mia lingua. Ma questa è un’altra storia, di cui ancora conosco poco, ma altrettanto emozionante e, magari, tra qualche giorno la racconterò meglio, su altre pagine.

“Purtroppo non sempre riusciamo a essere quel che desideriamo. Molto più spesso siamo l’altro, l’ombra, l’invisibile, la speranza svanita. E se per una volta sfuggiamo al nostro destino, ci trasformiamo pian piano in un ammasso di puntini grigi che nessuno riconosce più”. Al risveglio, questa mattina, ho avuto paura di sentirmi così, come una speranza svanita, un grumo di amarezza, un ammasso di puntini grigi, incapace di vivere l’ora e il qui, continuamente proiettato nel passato. Stringo i denti e cerco di tenere fede al proposito di non cadere vittima della nostalgia di un altrove qualsiasi, di non cedere a facili spleen, di sfuggire ai madrigali tristi di Baudelaire, che amava ripetere: “A me sembra sempre che starei bene là dove non sono, e questa questione del traslocare è una di quelle che sto continuamente a dibattere con la mia anima.” Ma a volte non c’è forza di volontà che tenga.

Non è neanche tristezza, solo un crudele senso di spaesamento. Cammino e penso di trovarmi su una strada diversa, di veder passare il vecchio autobus che mi portava a casa, di guardarmi intorno e vedere una fermata della metro. Quello che è stato mi insegue dappertutto, anche quando sono a occhi chiusi, anche quando m’illudo di esserne guarita. Mi vengono in mente serate di cui avevo anche dimenticato l’esistenza, facce viste solo una volta, marciapiedi e panchine incontrate per caso che, di colpo, generano uno struggimento insensato, il nome curioso di una corte, il piglio delle statue di marmo nei giardini, le curve di un ponte sulla Senna. Oggi, però, a ritornare in mente è stato un siparietto ridicolo.

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The dream is collapsing

L’anno scorso, gennaio, abitavo da sola, con due gatti a carico e due lavori per mantenere me e la mia famiglia felina a Parigi. Ero sempre stanca e amareggiata, a interrogarmi continuamente sul senso delle mie giornate, ma a pensarci ora, avevo una vita piena di (dis)avventure e scoperte e non mi annoiavo neanche un secondo. Anzi, ero così gelosa del mio tempo libero da cercare di impiegarlo sempre nel migliore dei modi, andavo a teatro, passavo pomeriggi in biblioteca, leggevo tanti libri, il mio appartamento prendeva forma, a mia immagine e somiglianza. Altri tempi. Tornando al lavoro, di giorno, ero in un negozietto di giocattoli nel Marais, la sera in un ristorante italo-ebraico a Charenton. Un giorno racconterò del senso degli ebrei francesi per la cucina italiana, dei piatti improbabili che sono stata costretta a servire, dell’arredamento infelice della sala, dei grugni sgradevoli che ho fatto accomodare con i miei migliori sorrisi, della meravigliosa vigilia di Capodanno passata a riverire la famiglia allargata dei due proprietari e mandata giù a sorsi di grappa nascosta nelle tazzine di caffè, ma tutto questo merita una sessione di amarcord a parte.

Ho resistito solo qualche mese, grazie ai miei adorati amici-colleghi, Valentina, Salvatore, Alessandra, tra le poche persone conosciute a Parigi che spero un giorno di ritrovare sulla mia strada. E poi Antonio, pizzaiolo barese, posizionato al centro del ristorante, in bella vista, lui, il suo forno e i suoi coloriti apprezzamenti sulla clientela ebrea, alla quale rivolgeva i peggiori epiteti immaginabili, in salsa meridionale. Intorno, le risatine estasiate e ignare dei clienti inebetiti e lieti di mangiare la vera pizza italiana, proprio di fronte a un pittoresco esemplare di verace maschio italiano, sporco di farina, e che avrebbe voluto vederli tutti sparire. Sullo sfondo, le canzoni di Paolo Conte e il suono acuto del montacarichi che continuava a tintinnarmi nelle orecchie anche di notte.

A noi camerieri sconsolati, invece, Antonio, oltre a una pizza à la carte a fine serata (tra le migliori che abbia mangiato in Francia), riservava un incoraggiamento tutto personale. All’improvviso, ci batteva le mani a un millimetro dalla faccia, si metteva a ridere e gridava: “Daje, un paio de scarpe nove e giri il mondo!”. Oggi, mentre sceglievo un paio di scarpe nuove, in preparazione alla prossima partenza, è saltato fuori questo. E sono scoppiata a ridere nel negozio.

“Non sappiamo perché, ma ci aggrappiamo alle persone”. Anche quando è la cosa più inutile da fare. Io avevo intravisto la battaglia persa in partenza, la strada verso l’infelicità come condizione perenne dell’animo, la solitudine come stato di famiglia. Eppure mi ci sono aggrappata con tutte le mie forze, ma l’intreccio di illusioni e bugie non ha retto il colpo. Almeno per una volta, forse la prima, adesso mi piacerebbe aggrapparmi a quello che ho fatto, visto, scoperto, io, completamente da sola, a tutte le esperienze, anche le peggiori, anche agli improbabili dopo-serata alla chiusura del ristorante, anche agli sgangherati ritorni in metro a casa, con i guanti, il cappotto e la sciarpa impregnati dell’odore della cucina. Per oggi, primo giorno di scuola, come compiti per casa, voglio aggrapparmi a quello che è rimasto, di mio soltanto. Fosse anche uno stupido ammasso di puntini grigi.

Soundtrack: Il treno va, Paolo Conte

Image: © Witchoria

A volte si fissa un punto

Un po’ di tempo fa avevo scritto che questa improvvisa libertà e stravolgimento di prospettive mi avrebbe dato alla testa. Ecco, se un paio di giorni fa avete visto due scarpe rosse agitarsi nell’aria davanti a un’osteria affollata di Padova, ero io, che avevo perso miseramente i sensi, e non per la qualità dei vini dell’oste. Lo scrivo per esorcizzare un po’ l’accaduto, dato che è la prima volta che mi succede. Sto bene. Un amico mi ha prontamente afferrato per le spalle e adagiato sul marciapiede, salvando me stessa, quel che restava della mia dignità e anche il fermaglio di osso vietnamita che avevo tra i capelli. Penso sia la conseguenza di un po’ di confusione e soprattutto dell’ubriacatura da libri di questo periodo, in particolare dell’ultimo, ancora storie vicine alle mie, ancora Maria Perosino.

I suoi libri sono entrati discreti, in punta di piedi, nella categoria di libri a cui voglio bene, di cui mi piace sincerarmi dove siano, che siano in buono stato e non siano stati smarriti. Forse perché a leggerli mi ci sento sempre come se stessi parlando a un’amica con qualche anno in più di me, che ha già vissuto o almeno sentito raccontare uno dei miei piccoli drammi, davanti a una tazza di tè. “Le scelte che non hai fatto” racconta di storie parallele, di vite non vissute, appena sfiorate, che camminano qualche passo indietro e ci seguono senza far rumore. Secondo Perosino, ogni decisione non è mai frutto di un consenso unanime, ma di un risicatissimo 51%, che alla fine s’è fatto coraggio e ha fissato un punto. Il restante 49% rimane lì, a tormentarsi, a spingere per la direzione ostinata e contraria.

Maria invita le sue storie a cena, prepara loro da mangiare, le mette a proprio agio e in cambio chiede di farsi raccontare com’è andata. Se ci sono rimpianti, tormenti notturni, indecisioni, bugie, se, alla fine della partita, il bilancio è positivo o se almeno si è riusciti a pareggiare i conti. Chiede loro se il segreto non per la felicità ma almeno per la sopravvivenza sia fermarsi prima che i sogni s’infrangano o semplicemente svegliarsi una mattina e riporre nei cassetti dell’armadio aspirazioni, aspettative, desideri, come i vestiti estivi al cambio di stagione autunnale. “C’è un punto, nella vita, in cui s’infrangono i sogni? O di colpo si avverano?”

falling up

Falling up

“Eccole lì, le mie vite in vetrina. Per un attimo, tutto è facile, mi basterebbe sceglierne una, impacchettarla e portarmela via. È una bella sensazione, per una che non ha mai imparato l’arte del rammendo”. Maria ha scelto di scegliere ma, di notte, ogni tanto, le viene all’orecchio l’irritante sospetto che lei una scelta vera e propria non l’ha mai fatta. Ma poi quand’era il momento di scegliere?: “Quando mai c’è stato un giorno in cui qualcuno (me stessa inclusa) mi ha chiesto se volevo diventare ricca o no? o se preferivo tenere un fidanzato per sempre o cambiarlo di tanto in tanto? se volevo un lavoro fisso o in comodato d’uso? E c’è mai stato un giorno in cui qualcuno ha aperto un atlante per chiedermi dove volevo vivere?” Come darle torto.

In questi giorni c’è una frase che mi rigira per la testa: “A volte si fissa un punto”. Si tratta del titolo di una raccolta di pensieri e poesie di Michelangelo Antonioni, ma, come diceva lui stesso, anche l’esemplificazione del suo lavoro: “senza fissare un punto, non si ha un film, non si ha sguardo, non c’è cinema”. Non ho mai letto questo libro, ma mi sono imbattuta nella copertina quand’ero in Francia circa tre anni fa, e quella frase poi me la sono scritta e appesa nella mia vecchia cameretta italiana su un post-it, come un promemoria che, ahimé, non è servito a molto. Me lo ricordo benissimo perché, senza leggere nulla, interpretai la frase in maniera completamente diversa. A volte si fissa un punto, e si perde tutto quello che c’è intorno, non si riesce ad andare più avanti. Come se l’orizzonte intorno sparisse, nessuna via d’uscita, nessuna possibile deviazione, solo un punto unico, come un’ipnosi. Non me ne sono mai accorta, ma per anni ho cambiato città, lavori, case, amicizie, ma ho sperato che nulla cambiasse davvero nella mia vita.

Succede poi a volte di fare scelte che rimangono sempre lì, a distanza di anni, come un punto fermo su una mappa. Come un trasloco internazionale. Che ne puoi tracciare il percorso su una cartina geografica. Ne puoi collegare insieme i punti e alla fine tirare fuori un disegno. “Se non mi lascio prendere dalla frenesia, un disegno lo vedo. Cioè, non di tipo rinascimentale, con la prospettiva, il centro, il punto di fuga e il punto di vista. Più un affresco medievale, quelli in cui tutte le scene stavano l’una accanto all’altra, un po’ come un fumetto, ma senza che l’artista si preoccupasse eccessivamente dei rapporti di causa-effetto. L’importante era squadernare tutto lì, in bella mostra, ognuno poteva ricomporsi la storia a suo piacimento, dentro la sua testa. Quello di cui invece si preoccupava era di rendere tutto il più espressivo possibile, penso ci tenesse che nessuno si annoiasse, mentre guardava quello che aveva dipinto. Ecco, io non mi sono annoiata”.

seapression

Seapression

A volte si fissa un punto. Anche solo per mettere un traguardo, per avere un punto di partenza e non solo una cronologia indefinita di eventi. Dirsi almeno una volta “quello no, non più”. Io un punto non l’ho mai voluto fissare, ho sempre cercato di prendere una strada che mi consentisse, eventualmente, di poter tornare sui miei passi. Di correggere il tiro, di recuperare una chiave, di riaprire una porta. L’idea di ineluttabilità non mi fa dormire la notte. E a volte mi fa perdere i sensi sui ciottoli del centro storico di Padova.

Fissare un punto. Disdire l’abbonamento a una certa idea di vita. Mi ci devo un po’ abituare. Forse, prendere una tastiera, mi farebbe felice adesso. E poi fissare un altro punto, scegliere una città, affittare una casa solo per me, iniziare a lavorare. Un altro punto, voglio un paio di animali per casa e recuperare i miei libri sparsi per l’Italia. E poi unire i puntini e scoprire che disegno viene fuori. Tornare al cinema, riavvolgere la pellicola e scrivere un altro film.

Soundtrack: Keep the change, Molly Nilsson

Images: © Witchoria

Padova: un mese di Sherwood Festival

Una storica rassegna musicale e culturale che anima la bella stagione di Padova fino a luglio inoltrato. È lo Sherwood Festival, al parcheggio nord dello Stadio Euganeo che si trasforma in un’area viva e brulicante, con un programma fittissimo (dall’11 giugno al 19 luglio) di concerti, live, proiezioni, dibattiti, incontri, birra che scorre a fiumi e dance floor fino a notte fonda.

LE BIRRE ARTIGIANALI. L’edizione 2014 dello Sherwood Festival prevede non poche novità. Tra quelle più gustose i tre nuovi corner food and beverage: il festival itinerante Fermenti, dedicato alle birre artigianali, che fa tappa allo Sherwood il 4, 5 e 6 luglio, ma dispone di uno stand fisso con 150 birre a rotazione per tutta la durata del festival; la Barraca Do Sport Alla Rovescia, un chiosco ispirato alle capanne brasiliane; il ristorante etnico Teranga, con piatti esotici e posti a sedere per tutti. Un’offerta più ricca rispetto alle scorse edizioni è anche quella dell’enoteca Enolibrì, con vini, sapori da gustare, libri, una sezione tutta dedicata ai fumetti e lo spazio OGMfree, a cura dell’associazione Organismi Genuinamente Modificati, per promuovere il consumo di prodotti biologici e locali e il commercio equo e solidale, con la vendita di prodotti come l’Olio d’Argan prodotto dalle donne del Sud Marocco e il Caffè Rebelde delle comunità zapatiste. Sempre presso l’Enoteca si trovano i manufatti di legno grezzo recuperato e riutilizzato del Refugees Wood Project, realizzati dai 60 rifugiati nordafricani accolti presso la Casa dei Diritti Don Gallo a Padova.

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DAI MONDIALI AI FUMETTI. Sono quattro i fili conduttori che dirigono le attività collaterali del festival: i Mondiali di calcio (tutte le partite sono proiettate su schermo gigante), con successivo dibattito; una discussione intorno all’antiproibizionismo; dibattiti sugli abusi delle forze dell’ordine (3 luglio) e uno speciale sui fumetti (10 luglio), che vede come ospite d’onore ZeroCalcare, in occasione de “Il fumetto siamo noi – da underground a autoproduzione”, storia del fumetto sotterraneo italiano dal 1990 ad oggi. Come da tradizione, inoltre, ritornano corsi e workshop, quest’anno dedicati alla formazione dei pizzaioli, coltivazione biologica su terra in indoor, fotografia slow e hip hop.

I CONCERTI A UN EURO. Chi dice Sherwood, però, dice soprattutto musica e grandi appuntamenti live, a prezzi stracciati. Come dice lo slogan del festival, infatti, “un euro può bastare” per quasi tutte le performance. Tra gli ospiti italiani, nella seconda metà del festival, da non perdere la canzone d’autore romantica di Brunori Sas, sul palco principale dello Sherwood il 2 luglio, i Perturbazione, in scena il 5 luglio, e gli Afterhours, l’11 luglio (biglietto 15 euro più prevendita). Tra i protagonisti internazionali del festival ci sono, invece, i New York Ska Jazz Ensemble, di scena il 6 luglio, gli Slowdive (biglietto 26 euro), star della musica shoegaze, band britannica di culto negli anni ’90, in Italia in occasione del Radar Festival, in concerto il 16 luglio, mentre al concertone di Alborosie (biglietto 21 euro) è affidata la penultima serata del festival, il 18 luglio. La chiusura di quest’edizione, invece, è completamente targata Sherwood, con lo spettacolo “Electroswing Circus”, atmosfere vintage, echi anni Trenta, musica e travestimenti.

COS’E’ SHERWOOD. Realtà nata nel 1976 come “la migliore alternativa” all’appiattimento culturale e politico contemporaneo, Sherwood è cresciuto negli anni, ramificandosi, coinvolgendo sempre più progetti, volti, storie ed energie. Espressione della necessità di avere uno spazio di confronto libero, la storica Radio Sherwood ha abbandonato le onde FM per trasferirsi sul web. È attivo dal 2011 il portale multimediale Sherwood.it, vigilante e attivo 12 mesi all’anno sul fronte della produzione culturale indipendente, con video in streaming, web-radio e approfondimenti on-line. Dal desiderio di essere presenti e attivi sul campo, nascono anche i progetti collaterali Global Project, piattaforma multimediale di informazione, Melting Pot Europa, progetto dedicato al tema della cittadinanza e dell’immigrazione, principale veicolo e canale di diffusione delle iniziative sul campo a favore di rifugiati politici, clandestini e immigrati, e Wires-to, nato nell’intenzione di promuovere la “filiera corta” musicale, le label e gli artisti indipendenti locali.

MANGIARE. Una cena ma non solo. Una serata al Chiosco, club estivo al civico 10 di via Ludovico Ariosto, è musica, passeggiate nella sabbia, opere d’arte, tavolate di amici, lucine colorate, tutto sotto le stelle e ai piedi di una vecchia cascina di campagna. Inaugurato nel 2008, il Chiosco, versione estiva del Fish Market, propone una cucina leggera che profuma d’estate, a cura dello chef, Marzia Gallinaro, che firma insalate ricchissime, secondi di mare e grigliate miste. Una nota a parte merita la pizza, servita fino a notte fonda, preparata con farine selezionate, lasciata riposare per 72 ore e offerta anche nella versione integrale. Un menù comprensivo di pizza, bevanda, concerto e caffè costa 15 euro a persona. (Il chiosco è un club Arci, e come tale prevede anche una quota associativa annuale, pari a 10 euro). Per chi, invece, ha voglia di regalare al palato una cena memorabile a base di carne, l’indirizzo è uno solo: Al Vecchio Falconiere, in pieno centro storico di Padova, al civico 31 di via Umberto I. La cortesia del proprietario, i prezzi moderati (contare 35, 40 euro a persona per la cena, vino escluso), la vasta scelta di carni, dalla tartare al vitello canadese ai tagli di chianina fanno del Falconiere un indirizzo da custodire gelosamente. Un’esperienza da provare è sicuramente la chianina toscana, cotta direttamente sul tavolo su un piatto di pietra lavica incandescente. Nascosta nel ghetto ebraico, adorata dai padovani, l’Osteria Anfora è il posto giusto per deliziarsi con le ricette della tradizione culinaria veneta. Nel menu, bigoli all’anitra, baccalà alla vicentina, fegato alla veneziana, polenta al cucchiaio con la piovra e, presidio Slow Food, la gallina padovana, preparata secondo tradizione (alla “canevera”). L’osteria Anfora è al civico 13 di via dei Soncin, la prenotazione è consigliata (prezzi tra i 25 e i 35 euro a persona).

DORMIRE. Annoverato tra i migliori di Padova, l’hotel NH Mantegna (al civico 61 di via Tommaseo) è in pieno centro storico e offre una posizione strategica e la garanzia di qualità della rinomata catena spagnola, a prezzi moderati (da 70 euro a notte a persona). A pochi metri dalla Basilica, accogliente e pratico, il b&b Al Santo, gestito dalla famiglia Pittarello, offre ai suoi ospiti il confort di una villetta con giardino in pieno centro, la comodità di tre camere doppie, ognuna dotata di bagno in camera, prezzi modici (da 35 euro la doppia) e accoglienza familiare. Per chi cerca, invece, una sistemazione più economica in città, il principale ostello padovano, ostello Città di Padova, in via Aleardi, propone posti letto a partire da 17 euro (prima colazione inclusa) e una posizione invidiabile a un passo da Prato della Valle e dal centro storico.

ARRIVARE. Servita da ben tre aeroporti, quello di Bologna e i due di Venezia (Treviso e Marco Polo), Padova è facilmente raggiungibile dalle principali città italiane, con partenze da Roma Fiumicino e Napoli con easyjet (sui 60 euro, andata e ritorno), e da Brindisi e Trapani (sui 90 euro andata e ritorno) con Ryanair. Inoltre, Padova è ben collegata attraverso le Frecce di Trenitalia con corse, tra le altre, dirette da Roma, in sole tre ore (da 49 euro), da Milano, in due ore (treni a partire da 19 euro), da Firenze, in un’ora e mezza (con prezzi a partire da 29 euro).

 

Qui l’articolo pubblicato su OggiViaggi.

Fortezza Padova

“Da domenica scorsa, come forse sapete già, Padova ha un nuovo sindaco, si chiama Massimo Bitonci ed è della Lega Nord”. A parlare, in una calda mattinata d’inizio giugno a Padova, è Luca Bertolino, responsabile dell’associazione Razzismo Stop. Di fronte a lui sono almeno in 60, facce assonnate, occhiali da sole, canottiere di fortuna e accenti tutti diversi l’uno dall’altro. Sono gli inquilini della casa dei Diritti “Don Gallo”, palazzina pignorata, recuperata lo scorso dicembre dai volontari dell’associazione per dare un tetto e un punto di partenza ai rifugiati nord-africani. “La maggior parte di loro è arrivata qui nel 2011, dopo gli orrori della Libia”, spiega Luca, “per circa un anno e mezzo hanno vagabondato nei vari centri d’accoglienza, nel circuito emergenza Nord Africa, ma non è servito a nulla e alla fine del periodo di emergenza sono finiti per strada, di nuovo”. Per qualche mese hanno trovato un rifugio presso la sede dell’associazione, in via Gradenigo, ma lo spazio presto non è stato più sufficiente. I volontari di Razzismo Stop hanno dunque deciso di accoglierli in questa struttura in zona Fiera, abbandonata da anni, e dare loro un sostegno che vada oltre il minimo garantito, seppure neanche questo sia ormai scontato. La palazzina, ex sede della Meeting Service Spa, è stata messa all’asta dopo il pignoramento con una base d’asta di 1 milione e mezzo di euro. L’associazione ha partecipato a suo modo, una lettera con dentro un biglietto. Sopra una sola parola, l’unica offerta che i loro volontari sono in grado di fare: l’accoglienza. “Un gesto simbolico per spiegare che non tutto può essere messo in vendita e acquistato e che il nostro lavoro ha un’utilità sociale rilevante”.

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“Abbiamo istituito un corso d’italiano”, continua Luca, “e cerchiamo di farli lavorare quando è possibile”. Nel cortile accanto alla palazzina, c’è chi lavora il legno, “abbiamo riciclato delle tavole e loro ne fanno mobili, divani e sedie sdraio che poi rivendiamo a commerci o privati” e alcuni di loro saranno inseriti nell’organico dello Sherwood, il festival che anima l’estate padovana. “Nessuno vi ha mai regalato niente”, continua Luca davanti alla sua platea, “il vecchio sindaco non vi ha dato un lavoro, né una casa, ma il nuovo sarebbe felice di vedervi tutti in mare”. Silenzio. “Però noi non abbiamo paura, dobbiamo restare uniti, rimboccarci le maniche, essere forti”. Tutti annuiscono ma è un consenso carico di tensione, che si sfalda facilmente. Soprattutto quando si parla della bolletta della luce, altro punto all’ordine del giorno. Il consumo degli ultimi due mesi degli inquilini della casa don Gallo è di 1400 euro. La struttura occupata dai rifugiati è considerata come una seconda residenza, come una casa al mare. Le utenze sono intestate a Luca e la luce, quindi, costa il doppio e, se dovesse passare troppo tempo, una volta revocata, in virtù del nuovo piano casa Renzi, non sarà più possibile riallacciarla. Anche solo decidere chi sarà l’incaricato della raccolta dei soldi è non poco delicato. Si cerca di nominarne almeno tre, uno per regione nord-africana. “Sono sempre i ghanesi a pagare”, si grida da un lato del cortile e si fatica a placare gli animi. Ma questa è solo una delle tante possibili scintille che ogni giorno minano la tranquillità di casa Don Gallo. La convivenza di 60 persone, di origini e religioni diverse, non è facile. E, non sorprende, si conoscono tutti, ma nessuno ha amici. Abdullah, 24 anni, originario del Ciad, è in Italia da qualche anno, ma è arrivato in via Tommaseo da pochi mesi. Parla italiano e ogni tanto lavora come cameriere: “i miei amici sono partiti, uno è tornato in Africa, l’altro in Germania”, racconta, “io per ora resto qui ma la vita con tante persone così diverse è difficilissima”. Ha una nuvola di capelli ricci intorno al volto ed è l’unico elegante, in camicia, “se potessi andrei via anche io”. Lo ritrovo dopo poco nella sua stanza, intento a stirarsi un paio di pantaloni sul pavimento. È in Italia da più di vent’anni, invece, Alassane, senegalese, 53 anni, il falegname della casa. Per non sbagliare, mi scrive il nome su un’asse di legno. “Qui cerchiamo di essere tranquilli”, mi spiega, lui è il responsabile della sua stanza. “Ma basta un furtarello, una lite, si alzano i toni e ci si inizia a guardare con diffidenza”, continua, “i senegalesi, però, pagano sempre le bollette”.

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I rifugiati della casa dei Diritti “Don Gallo” provengono dal Senegal, dal Togo, dalla Nigeria, dal Ghana, dal Mali, dall’Eritrea, dalla Libia, e da altri paesi dell’Africa sub-sahariana. Sono richiedenti asilo eppure, secondo lo studio sullo stato del sistema di asilo in Italia realizzato da ASGI, solo il 32,4% di loro trova un posto dove stare. E, tra chi è finito a Padova, non sono in pochi quelli che volevano cercare fortuna altrove, oltre i confini italiani ma sono rimasti intrappolati nell’incomprensibile burocrazia europea. Secondo i dati anagrafici dello scorso mese di aprile, consultabili sul sito del Comune di Padova, i cittadini stranieri rappresentano il 15% della popolazione della città. A Padova ci sono 32.099 stranieri su un totale di 210.093 cittadini, oltre il 30% dei bambini con meno di 5 anni è straniero e le tre principali comunità sono originarie della Romania, della Repubblica Moldova e della Nigeria. “Ridurli tutti, nell’opinione comune, a poche centinaia di spacciatori tunisini è ridicolo”, commenta Nicola Grigion, giornalista e tra i responsabili del progetto Melting Pot Europa. Ma Padova, città a vocazione universitaria, accogliente di natura, sembra avvertire un’insolita emergenza sicurezza. Parola che è sulla bocca di tutti, soprattutto dopo le ultime comunali.

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Il programma di Bitonci è tutto un risuonare di crescita, sviluppo e patrimonio. Ma, chissà perché, a mezzanotte passata in piazza delle Erbe, è un unico imperativo a risuonare all’ombra del palazzo della Ragione: “Ripulire la città”. È quel verbo forse a disturbare di più. “Ripulire”, che dà l’idea di una gomma da cancellare passata sopra a tutto quello che infastidisce la gaia “patavinitas” della città. Nei giorni precedenti il ballottaggio, il neo-sindaco è stato tra i politici più popolari sui social network, grazie a un uso frenetico di twitter e facebook dove, tra incoraggiamenti e narcisismo, è impossibile non riscontrare una certa ricorrenza nei contenuti: la promessa di appendere un crocifisso in tutte le aule della città, episodi di cronaca nera imputati casualmente a extracomunitari, l’arrivo di nuovi clandestini sul suolo italiano, il video “scioccante” di una lite tra immigrati vicino la stazione. Un ritornello incessante che, si teme, diventerà parte della vita quotidiana qui a Padova. Tuttavia, le considerazioni a margine di questi risultati sono di altra natura. Passeggiando per le vie del centro, in questo inaspettato anticipo d’estate, ci si dispiace quasi che la terza città veneta possa mutarsi in una fortezza sorvegliata a vista. Il timore è che con il nobile e indovinato pretesto di preservare i piccoli commerci e l’economia cittadina si eliminino le zone a traffico limitato nel centro storico, argomento cardine di Bitonci, per permettere ai consumatori, la vera razza da preservare nell’era moderna, di arrivare in macchina fino alla soglia dei negozi. O ancora che quella “tutela del decoro e del buoncostume”, ripetuto nel suo programma, si traduca in un manipolo di ronde notturne di giovincelli annoiati. O che la “tutela assoluta della vita fin dal suo concepimento” favorisca un’attitudine medievale in tema di sanità e maternità a cui il Veneto, purtroppo, causa Zaia, era già abituato.

Bitonci, in materia di sicurezza, è preparatissimo, reduce dalle prove generali a Cittadella, comune della provincia di Padova, dove, nel 2007, in qualità di sindaco, ha introdotto quella che viene ancora ricordata come “l’ordinanza anti-sbandati”, una serie di procedimenti preliminari all’assegnazione della residenza anagrafica a un immigrato, come una soglia di reddito minimo, la verifica dell’idoneità dell’alloggio del richiedente e della sua pericolosità sociale. Un’ordinanza simbolo dell’ancora più rigido pacchetto sicurezza le cui norme prevedevano un vigile ogni mille abitanti, ronde notturne garantite da volontari e divieto di bere alcoolici in aree pubbliche. Al quale va aggiunto, per onor di cronaca, la sua strenua lotta al kebab, simbolo della decadenza della tradizione culinaria veneta. Tutto per un piccolo comune di poco meno di 20.000 abitanti. Un successone per Bitonci, lodato dai suoi colleghi più illustri, da Gobbo a Treviso a Tosi da Verona. Tuttavia, l’aver inserito una soglia di reddito (fissata intorno ai 420 euro) in uno dei pochi paesi d’Europa dove non è neanche previsto un salario minimo, ma soprattutto l’essere entrato in un campo di competenza del governo e non di un sindaco, suscitò il disappunto nazionale e Bitonci fu indagato per abuso di funzione pubblica. All’indomani della sua elezione a Padova, c’è tuttavia chi invoca una ricetta Cittadella anche per il capoluogo veneto.

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“Questa non è una vittoria di Bitonci”, spiega Luca, “ma è la sconfitta della sinistra, Ivo Rossi che non ha saputo vincere”. La stessa persona che ha votato Bitonci, secondo il responsabile dell’associazione, potrebbe appassionarsi alla storia personale di un immigrato incontrato per strada, ma quando ci si trova in un’urna entrano in gioco altri fattori. Lui e Nicola Grigion sono convinti che, purtroppo, abbia prevalso la logica dell’originale preferito alla brutta copia: “dopo vent’anni di sinistra, la città vuole cambiare e Bitonci è stato l’unico a proporsi come cambiamento”. Padova non è più rossa, quindi, e forse non lo era già da un po’. Da quando, precisamente, a meritarsi l’epiteto di “sceriffo”, è stato un sindaco di sinistra: Flavio Zanonato. L’episodio del muro di via Anelli, una recinzione lunga 84 metri e alta 3, soluzione escogitata dalla giunta di sinistra per isolare una zona di spaccio popolata prevalentemente da immigrati extracomunitari, è ancora vivo nella memoria di Padova. “L’amministrazione Zanonato ha voluto dare il bastone e la carota, il muro di via Anelli e blande politiche d’integrazione, come per dire, vi accontentiamo e isoliamo gli immigrati in un ghetto ma siamo pur sempre di sinistra”, spiega Nicola, “alla fine, l’integrazione non è avvenuta, la città è ancora in difficoltà e i padovani hanno deciso di votare a destra”. Sul risultato delle elezioni pesa inoltre la figura di Ivo Rossi, soprannominato dai seguaci di Bitonci “Ivo il Tardivo”, non eletto regolarmente attraverso il voto, ma succeduto a Zanonato, che ha abbandonato Padova per la carica di Ministro dello Sviluppo Economico nel governo Letta e in seguito per la corsa al Parlamento Europeo. A lui gli elettori di sinistra, delusi, tra i quali non pochi hanno votato Bitonci, imputano la colpa di non aver saputo portare la campagna elettorale su altri temi che non fossero la sicurezza. Incapacità sulla quale ha inferto l’ultimo colpo, forse involontariamente, anche Il Mattino, quotidiano padovano locale, principale organo di propaganda del candidato renziano, “tra i principali responsabili della vittoria di Bitonci” secondo Luca, poiché da un lato ha screditato con ogni mezzo il neo-sindaco leghista ma dall’altro ha alimentato l’isteria collettiva per la sicurezza cittadina. Infine, il recente scandalo del Mose, nel quale era coinvolto anche Galan, amico di Rossi, ha instillato il dubbio in non pochi elettori padovani, ma soprattutto diffuso il pericolosissimo adagio secondo il quale “ormai sono tutti uguali” e tra un tardivo e un leghista non valga nemmeno più la pena di scomodarsi e recarsi al seggio.

Ora resta un senso di imbarazzo generale, una vittoria temuta ma inaspettata, le due bottiglie di prosecco chiuse e dimenticate nella sede del Pd a due passi dalla Galleria Borromeo, in piazza Insurrezione, l’ironia sui social network, dove venerdì 13 giugno tutta la cittadinanza è stata invitata a mangiare un ultimo kebab. Ma, soprattutto, si fa sentire la necessità, finalmente, di creare una vera e solida opposizione a sinistra. “In realtà non è detto che le cose possano andare peggio”, continua Luca, “con una giunta della Lega, chissà che proprio un fronte comune a cui opporsi non faccia rinascere una sinistra più compatta”. È quanto Luca ha anche cercato di spiegare ai ragazzi questa mattina, durante l’assemblea generale. Ma i commenti sono stati pochi, per lo più qualche battuta. “Tu da dove vieni?”, dice un rifugiato a un volontario dell’associazione, “di Trento? Allora Bitonci ti manda a casa! Via gli stranieri!”, scherza. “Alcuni sono arrivati da poco in Italia, per loro non cambierà nulla”, conclude Luca. Hanno attraversato il Mediterraneo, perso la speranza, imparato una o più nuove lingue, cercato di ricostruirsi una vita, una o più volte. Un “sindaco di tutti”, con le sue lotte personali contro il kebab e il capriccio di fare dello Spritz una bevanda verde Lega, sembra non intimorirli più di tanto. Almeno per ora.

 

Qui il reportage pubblicato su Q Code Magazine.

Parigi-altrove: solo andata

La scorsa domenica, sono arrivata all’aeroporto di Bologna, con largo anticipo. Ripartivo per Parigi, dopo quattro giorni trascorsi tra Milano e Padova. In questa breve parentesi, ho capito che gli anni passano per tutti, ma non per alcune amicizie, ho visitato per la prima volta il cimitero monumentale di Milano e ho scoperto che ha il soffitto dipinto di un blu immenso, mi sono ricordata perché scrivo e perché voglio fare della scrittura il mio mestiere, dopo una breve chiacchierata in Stazione Centrale, ho fatto incredibilmente il bagno a Chioggia ma ho resistito non più di un quarto d’ora nell’acqua, ho imparato a riconoscere le piazze di Padova e orientarmi nel centro storico andando in bici per viottoli e riviere, ho fatto la tessera per la biblioteca comunale e per un chiosco notturno, ho pensato a Parigi pochissime volte.

Ho preso un caffè al bar dell’aeroporto, zaino in spalla. Ho atteso cinque minuti. Poi dieci. Ho tirato fuori la carta d’imbarco e l’ho lasciata sul bancone. Lussi da compagnie low cost. Torno in macchina e dopo due ore sono di nuovo a Padova. Senza programmi, senza biglietti di ritorno, con pochissimi vestiti nello zaino (per chi mi avesse scorto con la stessa camicia bianca da almeno 4 giorni) e un sollievo che forse non provavo da mesi. Qualche nuovo amico e forse un’idea nuova di me, delle mie giornate in altre latitudini, in un’altra lingua, la mia, e con abitudini differenti. Il sentirsi altrove, finalmente, pur essendo tornati nel proprio paese.

Che il giorno dopo Padova abbia incoronato sindaco un leghista è un’altra storia. Che comincia una mattina d’inizio estate, trascorsa presso la casa dei Diritti “Don Gallo” insieme ai ragazzi dell’associazione Razzismo Stop e del progetto Melting Pot Europa.

Qui qualche immagine.

La palazzina recuperata dai ragazzi di Razzismo Stop, occupata da 60 rifugiati nord-africani dallo scorso dicembre, al civico 90 di via Tommaseo, Padova.

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L’assemblea generale. Tra i punti all’ordine del giorno, la vittoria alle elezioni comunali di Massimo Bitonci, leghista, e l’iniziativa No Borders Train, manifestazione europea per l’abbattimento delle frontiere interne in Europa, prevista per il 21 giugno.

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Alassane, 53 anni, dal Senegal, il falegname della casa. Chiacchieriamo un po’ in francese.

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Abdullah, 24 anni, originario del Ciad, tra i più giovani inquilini della Casa dei diritti “Don Gallo”. Sicuramente il più elegante.

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La mattinata finisce. Ormai è quasi mezzogiorno, il caldo è impietoso. Ci si rifugia tutti dentro.

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A breve il reportage.

 

Soundtrack: C’eravamo tanto sbagliati, Lo Stato Sociale 

i ga iga i gai

(hanno legato i galli, scioglilingua padovano).

Giù al Nord. Prima fermata: Padova.

In tre giorni all’altro capo della penisola, ho avuto come vicini di casa due ragazzi di Santa Maria di Leuca, ho scoperto che la prima pizzeria in cui mi sono seduta è gestita da un parabitano e la ragazza che mi ha servito un cono al pistacchio è di Zollino.

E, a Prato della Valle, c’erano un paio di occhi che somigliano ai miei quando raccontano di viaggi, di strade nascoste e non si stancano mai di camminare. O di fare colazione fuori. E mi sono sentita a casa.