in a sentimental mood

La Gare du Nord a Parigi è un vuoto terribile di partenze.

Scendo dalla linea 4 della metropolitana, subito dopo Gare de l’Est. Chi va a Barbès prosegue la corsa fino al diciottesimo arrondissement. Ma i più si fermano alla stazione, scendono con me e mi accompagnano mentre salgo le scale. Sbaglio uscita. Torno indietro. Risalgo. Arrivo vicino ai treni. Non posso fare a meno di fissarli. I bar tutt’intorno sono ancora aperti. Qualcuno mangia un hot dog. I francesi bevono cafè crème. È notte. La metropolitana sta per chiudere ma la stazione è sempre aperta.

I treni sono in fermento, riflessi nelle vetrate oblique della Gare du Nord. I cartelloni elettronici sbattono gli occhi.

Mi guardo intorno. Le rotaie sembrano infinite. È aria di casa. Sono da sola. Sono felice.

Passo accanto ai binari. Al chiosco dei giornali. Al bar. Al ristorante della stazione. Qualcuno mi chiama. Mademoiselle. Sono di nuovo io. Chez moi.

Esco e Parigi mi esplode davanti. La Gare du Nord non dorme mai. Il decimo arrondissement è sempre sveglio, riecheggia dei fischi dei treni, odora di orari e partenze. Stretto intorno alle due stazioni, è tappa obbligata, assiste a ogni arrivo e accompagna ogni partenza. Dall’altro lato, si alza la facciata illuminata di Gare de l’Est, a due passi dal Canal Saint-Martin.

Il piazzale della stazione brulica di gambe in tuta nera e valigie. Ragazzi che confabulano ed eleganti messieurs dal profilo basso che camminano guardando dritto. Il freddo esce allo scoperto, sbatte sulle vetrate del nuovo padiglione e torna a pungermi. Mi avvolgo nello scialle nero.

Di fronte i ristoranti uno in fila all’altro aspettano di sfamare i viaggiatori, di fare da sfondo a chiacchiere stanche. Camerieri in camicia si annoiano dietro i banconi. Attendono l’ora di chiusura. Arriva l’eco di baruffe.

C’è ancora qualcuno, in quel miscuglio di insegne e menu.

Sono io che non ci sono più.

Non passo più accanto alle rotaie. Non conto più le fermate della metro. Non rincorro i miei stessi passi per fare in fretta, sempre più in fretta. Non posso aspettare. Corro ma poi rallento, perché sono appena arrivata. E ho paura di entrare. Ho paura di svegliarmi. Di sbattere la testa. Contro il mio sogno di Parigi, più bello e irreale che mai. Più veloce e sfuggente di un treno. Aspetto. Guardo indietro verso la stazione. Giusto il tempo di chiedermi se tutto questo sia vero.

Sì, lo è. O lo è stato. Chiudo gli occhi. Un respiro. Sorrido.

Bonsoir.

Sono andata via. Lontano da casa. Lontano dalle città. Lontano dalla stazione.

Dove sono? E chi l’ha detto poi che tutti devono avere una casa? E che ci si deve sempre tornare?

Quella stazione restava a guardare ogni esitazione e ogni fuga. E io mi sentivo a casa tra una partenza e un addio. Con gli arrivi e gli abbracci a fare da sfondo. Una vita fatta di valigie e chilometri da lasciarsi alle spalle. Si parte. E così niente più progetti da cominciare, solo faccende da concludere. E in fretta. Con la pancia in subbuglio, con in mano solo l’incertezza del viaggio, come tutte le volte che si deve prendere un treno. E si ha paura di perderlo, oppure di salirci.

Mi piace pensarmi libera di scegliere. Per consolarmi di ogni cosa che mi sfugge dalle mani quando alla fine decido “per il mio bene”. Per la mia vita, per il mio futuro. E me lo ripeto, sempre, ogni mattina. Insieme al caffè. Per coprire quell’insopportabile rumore di fondo, di tutto quello che c’è in mezzo, tra un arrivo e una nuova partenza, che intanto si spezza e poi si cancella.

Ma non importa. Siamo quelli che abbiamo scelto per il nostro meglio e cogliamo tutte le opportunità.

E allora che cosa ho perso? Un treno?

O una stazione?

 

Soundtrack: Maxence Cyrin, No Cars Go (Arcade Fire Piano Cover)

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