Paris, rue François Miron

L’intenzione era quella di stare lontana dal computer, parlare con almeno cinque persone diverse durante il giorno, tornare a casa stanca e addormentarmi subito, imparare nuove cose, abbandonare la scrittura, almeno per un po’. Così l’anno scorso, ho iniziato a lavorare in un negozietto di giocattoli e accessori nel Marais, nella parte sud del quartiere, quella più discreta, con meno kebab e più gallerie, meno bar alla moda e più palazzi residenziali.

Il negozio si trova in rue François Miron, accanto alle abitazioni medievali risalenti al Trecento, tre case dal tetto spiovente, con le travi in legno, tra le più vecchie di tutta Parigi, dove, incredibilmente, ho scoperto che hanno l’ascensore (chi sa dove abito capirà il motivo di tale sgomento)! Di fronte, gongola uno degli empori più famosi della capitale, Chez Izrael, un pittoresco bazar di spiriti e sapori da tutto il mondo, gestito da un’anziana coppia, Françoise e Izrael, canuti e schietti. Qui si fa la fila per comprare frutta secca e datteri, olive marinate e dolciumi turchi, spezie e riso, noci di macadamia, anice, tamarindo, acquavite di Borgogna, farine, tarama, pesto, acciughe, feta, canditi e ci si perde nella collezione di pepe e olio d’oliva.

Cercavamo proprio Chez Izrael, io e i miei genitori, quando abbiamo scorto l’annuncio di lavoro, esattamente un anno fa. Ho accettato il posto per sfuggire alla solitudine della scrittura in solitaria dietro a un computer e avere un minimo contatto con il mondo reale. Avendo debuttato nel periodo prenatalizio, più che un contatto, ho subito una vera e propria invasione barbarica, una sfrenata corsa al regalo, con più di 2000 scontrini al giorno e migliaia di clienti in un negozio di una ventina di metri quadri. In pochi mesi, ho imparato a fare i conti rapidissimamente, a confezionare pacchetti regalo impeccabili, a improvvisare un argomento a favore di ogni singolo articolo del negozio, a inventare parole in francese e a farmi anche capire.

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La clientela è abbastanza varia. Tanti turisti alla ricerca di un briciolo di Parigi da portare a casa, fidanzati smarriti alla ricerca di un braccialetto o un paio di orecchini da regalare, donne giapponesi che in 5 minuti escono con 300 euro di borsa appesi al braccio, eleganti signore del quartiere che vengono a controllare le novità, ragazzine appassionate di bricolage che collezionano nastri adesivi colorati, nonne con passeggini al seguito, indefessi arbitri del gusto che passano i fine settimana a cercare un vassoio per l’aperitivo che abbia la stessa sfumatura di verde del divano del salotto, studentelli in cerca di cover per i-phone, madri disperate che, alla vigilia delle vacanze, hanno un urgente bisogno di giochi, stampini, timbri, carillon e ninnoli per tenere occupata la prole.

Ho continuato a lavorare fino al mese di maggio e ho ripreso da poco, nonostante quest’anno sia in tutt’altre faccende affaccendata, per il piacere di tirarmi fuori dal mio bozzolo e andare al lavoro fuori dalle quattro mura di casa, perché alla fine chiacchierare con i clienti e aiutarli a fare un regalo mi piace, mi piace quando arrivo la mattina presto, da sola, faccio partire la musica e lascio la porta aperta e anche per guadagnare un po’ di soldi, da spendere in frivolezze senza tanti sensi di colpa.

Ogni giorno ho circa un’ora di pausa, che di solito impiego lanciandomi alla scoperta del quartiere. Se c’è bel tempo, invece, vado a sedermi vicino la Senna oppure sulle panchine di Square Marie Trintignant per leggere al sole. Scarto tutte le boulangerie di lusso e vado da Manon, una panetteria discreta vicino la metropolitana, tra le migliori della zona. Da qui, poi trattengo il fiato per attraversare la rue du Prévot, una sorta di toilette pubblica del quartiere, e sbuco dall’altro lato dell’isolato. Una settimana fa, c’era un sole insperato, mi sono seduta sul ciglio della Senna, mi sono sentita felice, pur non avendo nessun motivo in particolare. Mi sono detta che quando mi succede qualcosa di bello, resto sempre un po’ interdetta, non so come reagire, se esultare, se sorridere, se fare finta di niente e l’entusiasmo sfuma in quei pochi secondi. Invece, sentire affiorare la serenità, quasi la contentezza senza motivo è la forma di buon umore che mi riesce meglio, almeno finora.

Prima di tornare dietro il bancone, passo da Chez Mademoiselle, in rue Charlemagne, a prendere un caffè. È un ristorante accogliente, con una bella terrazza. L’anno scorso, avevo l’abitudine di andarci quasi tutti i giorni e hanno cominciato a chiamarmi “la petite” e a prepararmi un caffè già quando mi vedevano arrivare. Sono le gioie infinitesimali dell’essere straniero in una città e trovare un angolo di casa in un bar sconosciuto.

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Poco distante inizia il Village Saint-Paul, una serie di cortili collegati fra loro, dove si affacciano ristoranti, gallerie, mostre temporanee, negozietti di chincaglierie e antiquariato. Svoltando verso rue Saint-Paul, tornano le decorazioni improbabili, il Museo della Magia, l’Hotel della Settima Arte, con ninnoli e souvenir dal mondo del cinema, ristoranti di sushi e il famoso Thanksgiving, storico punto vendita americano, dove trovare cheesecake fatte in casa, cheddar, tutto l’occorrente per preparare i veri hot-dog e hamburger, bourbon e whiskey dalla California, tortilla di mais, birre americane e ovviamente tacchini e ingredienti del ripieno, il tradizionale “turkey stuffing”, per il Giorno del Ringraziamento. Tornando indietro, si passa per rue de Fourcy, dove troneggia la Maison Européenne de la Photographie, gigantesca istituzione della fotografia, che ha accolto le mostre, fra gli altri, di Lynch e Salgado. Poco lontano, un porticato con le vetrine di un negozio di biancheria intima è il rifugio di tre, quattro clochard, che ormai non chiedono neanche più l’elemosina. Prendendo invece rue de Jouy, ci s’imbatte in una delle librerie indipendenti più autorevoli di Parigi, gestita da madame Michèle Ignazi.

Il mio negozio è un po’ come il resto del quartiere: il trionfo del superfluo. Vendiamo guanti per le mezze stagioni, piccoli e costosissimi magneti da frigo, radioline che si caricano a manovella, portamonete in pelle d’anguilla, occhiali senza correzione, mini-cannoni usa e getta per esplosioni di coriandoli, timer per misurare il tempo d’infusione di tè e tisane, spugne da cucina ecologiche e biodegradabili. Si entra raramente trafelati, alla ricerca di un bene di prima necessità, ad eccezione degli sventurati turisti colpiti da un acquazzone che si affacciano chiedendo disperatamente un ombrello e se ne vanno moggi rifiutando la mia proposta di acquistare un ombrellino di design a 45 euro, l’unico che abbiamo.

Mi piace restarmene dietro il bancone e osservare chi si aggira tra gli scaffali, entrare per un attimo in collisione con altre esistenze. L’anno scorso, per ringraziarmi dei consigli nella scelta dei regali, un ragazzo è tornato a regalarmi un cd di Bruce Springsteen (!) e una lettera in italiano, visibilmente tradotta con Google, con annesso numero di telefono, dove mi scriveva che a Napoli, la statua del Cristo gli aveva promesso di inviare sulla sua strada una piacente donna italiana, che sarei io. Una signora della Carolina del Sud mi ha raccontato di una traversata in auto lungo tutta la Puglia a fotografare i siti archeologici, con suo marito, storico dell’arte medievale. Pochi giorni fa, entra precipitoso un signore. Mocassini di pelle, jeans leggermente cadenti tenuti su da un cinturone nero, una t-shirt viola attillata infilata dentro i pantaloni, un lungo cappotto grigio e una shopping bag bianca di tela. Aveva occhi vispi nascosti dietro un paio di occhiali evidenti dalla montatura nera pesante, pochi capelli e un accento straniero che me lo ha reso immediatamente simpatico. “Bonjour madame”, ha esordito, “avete cartoline per condoglianze?”. Ho fatto un veloce inventario in testa: noi abbiamo carte di compleanno psichedeliche, cartoline d’auguri in legno, cartoline di Parigi panoramiche, cartoline di Parigi acquerellate, cartoline con disegni giapponesi, nient’altro. “Ho fatto il giro di tutto il quartiere, ma non sono riuscito a trovarle. Sembra quasi che, da queste parti, morire sia proibito”.

Images: © Olimpia Zagnoli © Emiliano Ponzi

Soundtrack: Molly Nilsson, opera omnia

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Parigi in bicicletta

La Rue du Faubourg Saint-Antoine è una delle strade più antiche di Parigi. Deve il suo nome all’abbazia di Saint-Antoine des Champs, divenuta poi l’ospedale di Saint-Antoine, ed è una delle brulicanti arterie che si staccano dalla rotonda di place de la Nation e procedono dritto in discesa. Da grande asse del 20esimo arrondissement, elegante e popolare allo stesso tempo, si trasforma in frizzante strada dell’11esimo, con le boutique, le raffinate boulangerie e i caffè. Scendendo giù, e alzando lo sguardo, ci s’imbatte improvvisamente nell’angelo d’oro della Bastiglia, che compare al di là della grigia cortina dei tetti di Parigi. Fino ad arrivare ai suoi piedi, dopo quasi due chilometri di strada.

Come la città stessa, cela mille anime, ed è la strada dove ci sono l’Extra Old Cafè e la Liberté, i caffè dove mi sono seduta in compagnia di persone speciali, tra cui un amico incontrato per caso a uno di quei terribili e interminabili rendez-vous parigini, alla ricerca disperata di un appartamento, appuntamento che sarebbe dovuto durare un pomeriggio intero e si trasformò in un’avventurosa balade alla scoperta del decimo arrondissement.

Ma torniamo nel quartiere.

La Rue du Faubourg Saint-Antoine incrocia Avenue Ledru-Rollin, Rue des Boulets, Rue de Montreuil, è vicina a Rue de Charonne, a Boulevard Voltaire, si biforca, cambia carattere, colori e ampiezza.

Per tradizione, questo è il viale dove ebanisti e tappezzieri hanno aperto i propri atelier e l’arte del mobile è ancora di casa, ma è anche la strada dove perdersi in uno dei tanti misteriosi passages parisiens, gallerie urbane, collegamento tra una strada e l’altra, dove la città cela le sue meraviglie, nascoste in quelli che la lingua inglese chiama behinds, le quinte. Uno fra tutti, le passage de la Boule-Blanche, che ospita i celebri Cahiers du Cinéma. E poi la cour de Bel-Air, la Cour de l’Etoile d’Or et la Cour des Trois-Frères. E risalendo, verso Place de la Nation, si trova le passage de la Bonne Graine, che collega ad Avenue Ledru-Rollin, passaggio cantato da Edith Piaf, in una delle sue ballate, “J’m’en fous pas mal”.

Oggi, rampicanti si attorcigliano in molti di questi cortili, altri invece hanno assunto un aspetto decadente, in disuso, risvegliato solo dalle vecchie insegne delle attività di un tempo. Altri sono le residenze hype della nuova piccola borghesia intellettuale, in un crescendo di gentrification che ha stravolto l’anima di questo quartiere.

Un labirinto di tunnel, gallerie, corti e passaggi, alcuni vecchi di secoli, che hanno fatto di questo faubourg uno dei più rivoltosi, quando era tempo di ergere barricate e contrastare l’avanzata di un potere tiranno, nei moti che travolsero Parigi nel giugno del 1848. All’epoca, la città era ancora intrisa di echi d’Ancien Régime e costruita come un villaggio, un intreccio di viuzze e strettoie, prima che il Barone Haussmann spianasse quest’intricata meraviglia di ruelle dando vita ai grand boulevard.

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Chi mi conosce almeno un po’ sa che ho vissuto a Parigi, forse l’anno più bello della mia vita. Il che mi ha reso incapace di vivere in maniera pienamente soddisfacente in qualsiasi altro posto che non sia ai piedi di una torre di ferro. Esagerata? Sì, forse, un po’. In ogni caso, ho precedenti illustri:

If you are lucky enough to have lived in Paris as a young man, then wherever you go for the rest of your life, it stays with you, for Paris is a moveable feast.

Ernest Hemingway, A moveable feast.

E non che sia stato un anno facile. Ma, come canta Yves Montand, “les ennuis” sono dappertutto, Parigi no. E anche il vento, quando arriva a specchiarsi nella Senna, non ha che una sola preoccupazione: andare a spassarsela nei bistrò più belli della città. Ma Montand era una di quelle anime perdutamente innamorate di Parigi, e non riusciva a spiegarsi perché fosse travolto dall’emozione, passeggiando lungo i quai de Seine.

Io ho vissuto uno splendido periodo rosa, proprio quando abitavo a Nation. Era aprile. E mi avevano appena regalato una bicicletta azzurra. Mi divertivo a girare intorno alle due colonne di place de la Nation e poi a pedalare giù per la rue du Faubourg Saint-Antoine. Erano giorni in cui camminavo sulle nuvole di Parigi, sprofondati improvvisamente in un periodo blu. Il cui strascico, dopo i tre mesi scintillanti passati a New York City, era ancora qui ad aspettarmi, una volta tornata.

“As it has never been”, avrebbe detto Susan Sontag.

Bon, tant pis. Se un giorno finirò di nuovo a Parigi, andrò a riprendere la mia vecchia bicicletta azzurra e, arrivata a Nation, girerò intorno alla piazza, lasciandomi alle spalle le due colonne e mi tufferò lungo la Rue du Faubourg Saint-Antoine. Sono sicura di riuscire ancora ad indovinare il momento esatto in cui, dai tetti grigi di Parigi, si stacca il profilo dell’angelo d’oro di Bastille. E forse smetterò di pretendere sempre qualcosa in più, perché mi sembrerà di avere di nuovo tra le mani tutto quello che ho sempre voluto, anche solo per il tempo di una discesa.

Intanto, mi diverto in bicicletta nelle giravolte del centro storico di Lecce. Qui dai tetti piatti dei palazzi, dai frontoni delle chiese e dai capricci del barocco, spunta all’improvviso Sant’Oronzo, con il suo corteo di angeli e santi, che se la ride dall’alto della sua colonna del brulichio affannoso della città. E forse anche di me.

Drawing © Vincent Gavarino

Soundtrack: Yves Montand, La ballade de Paris

Just a drawing

“Non esiste alcun modo di stabilire quale decisione sia la migliore, perché non esiste alcun termine di paragone. L’uomo vive ogni cosa subito per la prima volta, senza preparazioni. Come un attore che entra in scena senza aver mai provato. Ma che valore può avere la vita se la prima volta è già la vita stessa? Per questo la vita somiglia sempre a uno schizzo. Ma nemmeno «schizzo» è la parola giusta, perché uno schizzo è sempre un abbozzo di qualcosa, la preparazione di un quadro, mentre lo schizzo che è la nostra vita è tutto uno schizzo di nulla, un abbozzo senza quadro.

   «Einmal ist keinmal». Tomáš ripete tra sé il proverbio tedesco. Quello che avviene soltanto una volta è come se non fosse mai avvenuto. Se l’uomo può vivere una sola vita, è come se non vivesse affatto.” (da L’insostenibile leggerezza dell’essere di Milan Kundera)

Nello studio di Eugène Delacroix, a Parigi, furono ritrovati più di seimila schizzi. Il più tragico dei pittori francesi dipingeva senza sosta, disegnava ogni giorno, fregiandosi del tocco rapido e veloce della sua matita.

Se non sei capace di fare uno schizzo di un uomo che cade dalla finestra prima che dal quinto piano arrivi a terra, allora non sarai mai capace di produrre lavori monumentali. Si dice fosse tra le sue sentenze preferite.

Oggi i disegni più belli, gli schizzi più intensi di Delacroix, direttamente dal Louvre di Parigi, sono a New York per l’esposizione allestita presso la Morgan Library sugli artisti francesi e la Rivoluzione.

Faccio, disfaccio, ricomincio e non raggiungo mai il risultato che cerco”, scrive in una lettera del 21 febbraio 1821 indirizzata a Charles-Raymond Soulier.

Per ogni tela commissionata, Delacroix scriveva incessantemente, tratteggiava profili, curve, movimenti, e li trascriveva nelle lettere che spediva ai suoi amici pittori. Riversava il tormento dell’incompiutezza in un foglio bianco, sfogava il perenne senso di insoddisfazione che lo perseguitava, fino alla realizzazione finale, inevitabilmente superba, di ogni sua opera.

Stuck in a moment. Molti degli schizzi di Delacroix non sono mai più stati ripresi. Intrappolati in una sfumatura del carboncino, semplici testimoni di genesi controverse, restano immobili su fogli ormai ingialliti, racchiusi in un movimento sviluppatosi altrove. Primo passo a cui non è mai seguito un secondo.

Einmal ist keinmal. Ciò che succede una sola volta non è mai accaduto. Lo diceva Kundera. Se questo è vero, gli schizzi del pittore che usava colori dolenti sono scaramucce, come diceva Alexandre Dumas a fine Ottocento parlando di Delacroix. Bagatelle di poco conto, di cui la storia potrebbe fare a meno.

“Guai a chi in un bel quadro vede soltanto un’idea precisa e guai al quadro che a un uomo dotato d’immaginazione non fa veder nulla al di là del finito. Il pregio del quadro sta nell’indefinibile: è proprio ciò che sfugge alla precisione”, scriveva Delacroix nel suo diario.

Questi giorni a New York assomigliano a uno “schizzo di nulla”, un “abbozzo senza quadro”. Scappano a ogni pianificazione. A ogni tentativo isterico di dare un appuntamento alle meraviglie della città, nell’idea vana di non mancarne neanche una. Procedono senza la preoccupazione di prendere sempre e necessariamente la decisione migliore o seguire l’itinerario consigliato, alla ricerca costante del bello nell’imprevisto.

Io debutto ogni mattina. Vivo New York come se fosse la mia città e, allo stesso tempo, cerco di abituarmi alla temporaneità. Mi calo nella dimensione di uno schizzo.

“In pittura l’esecuzione deve sembrar sempre improvvisata, e in ciò sta la differenza capitale da quella dell’attor comico. L’esecuzione del pittore sarà bella soltanto se egli si sarà lasciato andare un po’, se ricercherà nel corso dell’elaborazione. Prendo esempio da Delacroix e improvviso a ogni risveglio. Ho la matita sempre in mano e imbastisco leggerezze più o meno sostenibili. E cerco di trattenere il carosello di facce che mi volteggia intorno.

Se tutto quello che ho fatto solo una volta non fosse vero e reale, secondo Kundera potrei non aver mai visto i ballerini di tango del West Village sulla riva dell’Hudson, teatro malinconico della domenica pomeriggio, la notte stellata di Van Gogh o quella tagliata dalle punte dei grattacieli che disegnano la High Line. Non ho mai sfiorato l’oceano a Coney Island e rubato le conchiglie giganti alla marea. Non ho mai cercato, e trovato, il duello tra gli angeli di Delacroix nella chiesa di Saint-Sulpice a Parigi, un giorno freddissimo di novembre.

Soltanto l’esperienza può dare, anche all’ingegno più grande, la fiducia d’aver fatto tutto quello che poteva esser fatto. Solo i pazzi e gli impotenti si tormentano per l’impossibile“, (dal diario di Delacroix).

Forse New York necessita un piano. Una strategia. Una seconda volta da programmare. Forse mi sto sbagliando. Ma, in fondo, questo è il mio schizzo, la mia brutta copia. Rimarrà una bozza, incapace per natura di colmare un’inquietudine. Ma nel migliore dei casi, sarà sublime come un disegno dimenticato di Delacroix. Come una scaramuccia. Un tormento da narratore contemporaneo imbevuto di ansie metropolitane, che non accenna a svanire, anche a costo di andare incontro a ogni rischio di incoerenza.

Images © Eugène Delacroix

Soundtrack: The Tempest, third movement, Beethoven

New room, new home, New York City

Da Manhattan a Brooklyn, trasloco veloce e indolore, dai palazzi di vetro ai sobborghi della Grande Mela. I marciapiedi si allargano e i tetti si abbassano, scompaiono i taxi gialli. Il mio corre sul ponte di Brooklyn, si lascia alle spalle Manhattan. Si spegne Times Square e saluta Midtown.

Direzione il quartiere di Williamsburg, annunciato dal ponte che attraversa l’East River. New York rallenta il ritmo, riprende il respiro. Gli accenti portoricani convivono con i riccioli ebrei e le felpe della The North Face abbinate a cappucci calati sugli occhi. Le ruote frenano a Lorimer street.

Metto i piedi a terra. Chiudo anche io la porta, mi butto sul letto e guardo il soffitto della mia nuova ennesima stanza. Sposto lo sguardo un poco più oltre, guardo fuori dalla finestra, scivolo sugli alti e bassi dei grattacieli di Manhattan, che si arrampicano fino al quinto piano, ammiccano da lontano nella notte e quasi si nascondono durante il giorno tra le tende e la nebbia che affolla il cielo di una New York appena sveglia. Rispondo con un sorriso idiota all’Empire State Building che si affaccia nella mia stanza.

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Sono a casa. Di nuovo. Sul soffitto altre forme. Dalla finestra altri rumori, mai sentiti.

Tutti i traslochi e le case di questo strampalato 2011, le valigie sempre piene, da fare e disfare ogni mese, i taxi che non si fermano, i nodi in gola e quelli che alla fine sono venuti al pettine, gli sbuffi degli autoctoni pigri, i “can you repeat, please?”, i “j’ai pas compris”, le lacrime, le metro perse e quelle sbagliate, le etichette ambigue dei surgelati e le facce incredule davanti alle sedicenti marche italiane ai supermercati, le notti bianche, i portafogli rubati, la nostalgia banalissima del caffè e della pizza, le parole che non avrei mai voluto sentire e quelle scappate per sempre, le indicazioni incomprensibili e i marciapiedi ricoperti di ghiaccio.

Mi è bastato alzare gli occhi e guardare il soffitto per non sentirmi più stanca di tutto questo. Vederci un’altra vita che prendeva forma. Non più solo quella vecchia che ritornava insistente. Non più ricordi. O perlomeno non solo. Immaginarmi altre strade che ancora non ho attraversato. Le porte ancora da schiudersi. Gli indirizzi che imparerò a memoria. Le mani da stringere e i nomi da ricordare. Una nuova metropolitana da decifrare. Una geografia tutta da scoprire.

Niente mi è sembrato più faticoso al pensiero di poter avere sempre nuove stanze. E nuovi soffitti.

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Affacciandomi sull’East River, alla fine ho deciso di dare una chance a questa città: è troppo grande e troppo bella per lasciarle lo spazio di un paragone, per concederle solo le pause tra una nostalgia e un interrogativo. E ha la sola colpa di andare troppo veloce, di essere troppo sfuggente per poterla afferrare al primo colpo.

Sono in una città che si dilata. Ad ogni passo sembra espandersi sempre più. Si allarga e si allunga, rimanda ad atre altezze, ad altri ponti. Sembra infinita, come l’oceano che l’abbraccia. Le strade s’intrecciano formando un reticolato di numeri che si srotola lungo tutta Manhattan e continua a diradarsi in ogni direzione.

Come se tutto dovesse moltiplicarsi e imporsi, per sopravvivere alla velocità.

Ho deciso di attraversare il ponte e lasciarmi stupire, senza cercare a tutti i costi di comprendere. Solo per il gusto di perdermi in questa fitta rete di strade e verticali. Di lasciare che questa avventura, cominciata a due passi dai ribelli più famosi di tutto il mondo, provi a rivoluzionare le mie giornate.

E dal ponte di Williamsburg non è difficile dire addio a tutto il resto. O almeno un arrivederci.

in a sentimental mood

La Gare du Nord a Parigi è un vuoto terribile di partenze.

Scendo dalla linea 4 della metropolitana, subito dopo Gare de l’Est. Chi va a Barbès prosegue la corsa fino al diciottesimo arrondissement. Ma i più si fermano alla stazione, scendono con me e mi accompagnano mentre salgo le scale. Sbaglio uscita. Torno indietro. Risalgo. Arrivo vicino ai treni. Non posso fare a meno di fissarli. I bar tutt’intorno sono ancora aperti. Qualcuno mangia un hot dog. I francesi bevono cafè crème. È notte. La metropolitana sta per chiudere ma la stazione è sempre aperta.

I treni sono in fermento, riflessi nelle vetrate oblique della Gare du Nord. I cartelloni elettronici sbattono gli occhi.

Mi guardo intorno. Le rotaie sembrano infinite. È aria di casa. Sono da sola. Sono felice.

Passo accanto ai binari. Al chiosco dei giornali. Al bar. Al ristorante della stazione. Qualcuno mi chiama. Mademoiselle. Sono di nuovo io. Chez moi.

Esco e Parigi mi esplode davanti. La Gare du Nord non dorme mai. Il decimo arrondissement è sempre sveglio, riecheggia dei fischi dei treni, odora di orari e partenze. Stretto intorno alle due stazioni, è tappa obbligata, assiste a ogni arrivo e accompagna ogni partenza. Dall’altro lato, si alza la facciata illuminata di Gare de l’Est, a due passi dal Canal Saint-Martin.

Il piazzale della stazione brulica di gambe in tuta nera e valigie. Ragazzi che confabulano ed eleganti messieurs dal profilo basso che camminano guardando dritto. Il freddo esce allo scoperto, sbatte sulle vetrate del nuovo padiglione e torna a pungermi. Mi avvolgo nello scialle nero.

Di fronte i ristoranti uno in fila all’altro aspettano di sfamare i viaggiatori, di fare da sfondo a chiacchiere stanche. Camerieri in camicia si annoiano dietro i banconi. Attendono l’ora di chiusura. Arriva l’eco di baruffe.

C’è ancora qualcuno, in quel miscuglio di insegne e menu.

Sono io che non ci sono più.

Non passo più accanto alle rotaie. Non conto più le fermate della metro. Non rincorro i miei stessi passi per fare in fretta, sempre più in fretta. Non posso aspettare. Corro ma poi rallento, perché sono appena arrivata. E ho paura di entrare. Ho paura di svegliarmi. Di sbattere la testa. Contro il mio sogno di Parigi, più bello e irreale che mai. Più veloce e sfuggente di un treno. Aspetto. Guardo indietro verso la stazione. Giusto il tempo di chiedermi se tutto questo sia vero.

Sì, lo è. O lo è stato. Chiudo gli occhi. Un respiro. Sorrido.

Bonsoir.

Sono andata via. Lontano da casa. Lontano dalle città. Lontano dalla stazione.

Dove sono? E chi l’ha detto poi che tutti devono avere una casa? E che ci si deve sempre tornare?

Quella stazione restava a guardare ogni esitazione e ogni fuga. E io mi sentivo a casa tra una partenza e un addio. Con gli arrivi e gli abbracci a fare da sfondo. Una vita fatta di valigie e chilometri da lasciarsi alle spalle. Si parte. E così niente più progetti da cominciare, solo faccende da concludere. E in fretta. Con la pancia in subbuglio, con in mano solo l’incertezza del viaggio, come tutte le volte che si deve prendere un treno. E si ha paura di perderlo, oppure di salirci.

Mi piace pensarmi libera di scegliere. Per consolarmi di ogni cosa che mi sfugge dalle mani quando alla fine decido “per il mio bene”. Per la mia vita, per il mio futuro. E me lo ripeto, sempre, ogni mattina. Insieme al caffè. Per coprire quell’insopportabile rumore di fondo, di tutto quello che c’è in mezzo, tra un arrivo e una nuova partenza, che intanto si spezza e poi si cancella.

Ma non importa. Siamo quelli che abbiamo scelto per il nostro meglio e cogliamo tutte le opportunità.

E allora che cosa ho perso? Un treno?

O una stazione?

 

Soundtrack: Maxence Cyrin, No Cars Go (Arcade Fire Piano Cover)

Times Square Lies

Times Square, disse Qoelet, è “un infinito niente, una fame di vento. Il vuoto”.

Ingannevole, già a partire dal nome, Times Square non è una piazza, è solo un largo incrocio di strade, precisamente Broadway e la Seventh Avenue, una confluenza di due arterie, ricoperta da insegne al neon e cartelloni pubblicitari. Il nulla mascherato da città.

A pochi passi dal mio ostello, primo domicilio conosciuto a New York.

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È forse questo il cuore di Manhattan? Io penso, e spero, di no.

A Times Square, è impossibile non passarci. Non si può non vederla Times Square, dove il giorno non finisce mai e l’elettricità ha vinto ogni pretesa, anche quelle della notte più buia. Ma qui c’è solo folla e luci. Solo intermittenze e cortei frettolosi di passanti. Nucleo pulsante del Theater District, con i suoi tombini fumanti e gli hot dog più cari di tutta la city, “The Crossroads of the World” è la più chiassosa bugia di New York, rinchiusa tra anonimi grattacieli.

Eppure le sedie a bordo strada sono sempre occupate, le persone guardano in faccia i palazzoni che fanno da cornice a questo rumoroso non-luogo di New York City. È curioso come ci s’ingegni e si faccia anche la fila per guadagnarsi il posto a un tavolino affacciato sulla street, per godere forse dell’improbabile piacere di restare abbacinato dai titoli urlanti degli ultimi musical. O forse per sentirsi parte del battito accelerato di queste strade. Perché altrimenti a Times Square non ci sarebbe nient’altro da fare.

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Un parco giochi senza attrazioni, un immenso sfavillare di insegne e negozi dozzinali, un pretenzioso ombelico del mondo dove ogni anno passano circa 26 milioni di turisti. E da cui fugge ogni newyorchese che si rispetti. Perché, se per chi è appena sbarcato nella Grande Mela non c’è niente di più pittoresco dell’accozzaglia di white noise e colori di Times Square, per i cittadini non c’è niente di meno newyorchese.

Si sta stretti sui marciapiedi e si corre per le strade, tutt’intorno sfilano cavalli sfortunati, audaci travestiti da Statua della Libertà, i soliti venditori ambulanti e gli immancabili turisti e collezionisti di souvenir. I newyorchesi passano veloci, gli ultimi arrivati si fermano imbambolati con il naso all’insù mentre nei loro occhi si accendono e si spengono i nomi delle star e delle commedie on stage. “Mamma mia”, “Mary Poppins”, “Billy Elliot”, la city accontenta ogni fantasia. E tutti si lasciano soddisfare dal più effimero e cangiante dei musei.

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Chiusa nel 2009 per decongestionare l’intero quartiere, Times Square è stata ripensata in chiave minimalista, e ultracontemporanea, da Snohetta, uno studio di architetti di Oslo che ha accettato la sfida di ridare a questa piazza un volto più umano, vivibile per gli autoctoni e realmente interessante agli occhi dei visitatori. Prima mossa: eliminare il dislivello tra strada e marciapiede, permettendo così alla piazza di essere fruibile per tutti, attraversabile per chi è solo di passaggio e più lenta per chi ha voglia di fermarsi e lasciarsi rapire dalle fantasmagorie dei neon. Un cambiamento radicale che costerà complessivamente 27 milioni di dollari.

Io intanto sono già passata. Di corsa, subito, nel rettilineo della 47esima strada. Rapida come ogni altra cosa catturata da Times Square. Sua solo il tempo di attraversare.

Illustrations © Greg Betza