Il rovescio e il diritto

Sbarcato a Praga, senza alcun appoggio, senza l’indirizzo di un hotel in tasca, un conoscente che lo aspetti a casa, pochi soldi nel portafoglio, sperduto nella fredda stazione mitteleuropea, Albert Camus si sente gonfio d’uno strano sentimento di libertà, perché le sue due valigie non pesano ormai più di tanto, il braccio è leggero, il passo veloce. Poco importa della solitudine, della paura di ritrovarsi in un paese sconosciuto, dove anche la lingua, il biglietto del tram, il gusto dei piatti tipici, si ignora, poco importa dell’apatia che sopraggiunge talvolta in quei viaggi solitari, in fondo “ogni paese dove non mi sono annoiato non mi ha mai insegnato niente”.

Camus scrive del suo arrivo a Praga, ma anche delle sue notti algerine, di sua madre silenziosa, della scoperta del sole italiano, dei cafè chantant spagnoli, nel suo primo libro L’envers et l’endroit, letteralmente Il rovescio e il diritto, una raccolta di cinque saggi autobiografici, scritti tra il 1935 e il 1936 e pubblicati nel 1937 ad Algeri, in pochissimi esemplari. Composti a soli 22 anni, rimasti introvabili a lungo, Camus ne ha consentito una nuova edizione solo dopo vent’anni, accompagnandoli con una prefazione, una vera e propria dichiarazione di poetica e di linea di pensiero.

“Nonostante viva adesso senza la preoccupazione del domani, quindi da privilegiato, non sono capace di possedere. Di tutto quello che ho, e che mi è stato offerto senza che io l’abbia cercato, non posso tenere nulla. Non per generosità, ma in virtù d’un’altra specie di parsimonia: sono avaro di quella libertà che sparisce non appena comincia l’eccesso delle proprietà. Il maggiore dei lussi non ha mai cessato di coincidere per me con una certa nudità. […] Non ho mai saputo abbandonarmi a quella che chiamano ‘vita d’interni’ (che spesso si rivela essere l’esatto opposto della vita interiore); la felicità cosiddetta borghese mi annoia e mi spaventa”.

Jusqu’où ira cette nuit où je ne m’appartiens plus ?

L’esperienza, la proprietà, la ricchezza, sono sopravvalutate, scrive Camus. Pochi sanno che, almeno una volta nella vita, bisogna aver perso tutto, restare da soli, andarsene. E offrirsi, ogni tanto, una prospettiva nuova, consentirsi un domani diverso, imprevedibile. La possibilità di perdersi, di fermarsi ad ascoltare il rumore della notte su un marciapiede arabo di Algeri, farsi sconvolgere dalla semplicità della cattiveria, insozzarsi per sempre della crudeltà e dello squallore delle periferie occidentali, la libertà di lasciarsi intimorire, spaventare dall’ignoto, da nuove destinazioni, chiedere alla propria madre “A cosa pensi?”, “A niente”, e sapere che è vero.

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A poco più di vent’anni, Camus intravede già nei caffè e nei giornali un elemento importante del viaggio. Qualche tempo fa, avevo letto in un articolo che l’odore del caffè e quello della carta stampata sono in grado di far sentire a casa chiunque. Fa parte dei trucchi del viaggiatore, quelli che si adoperano per mitigare la solitudine, per rinfrancarsi lo spirito. Ce n’è uno, classico, secondo Camus, quello di fare quattro passi in un museo, a tempo perso, continuare le proprie flânerie tra tele e sculture, per trasformare l’angoscia in malinconia. Trucco collaudato dallo scrittore francese, e tra i preferiti di chi ha vissuto a Parigi, aggiungo io. E poi c’è quello di infilarsi in un bar, di sedersi al bancone e svuotare i pensieri in una tazza di caffè, rifugiarsi in “un luogo”, scrive Camus, “in cui si può tentare di avvicinarsi agli altri, che ci permette di mimare in un gesto familiare l’uomo che eravamo a casa, e che, a distanza, ci sembra uno straniero”.

“Perché il pregio del viaggiare consiste nella paura. Spezza in noi una specie di apparato scenico interno. Non è più possibile barare – mascherarsi dietro ore di ufficio e di cantiere (quelle ore contro cui protestiamo tanto e che ci difendono con tanta sicurezza dalla sofferenza di esser soli). Per questo avrei sempre voglia di scrivere romanzi i cui personaggi dicano: ‘Che sarebbe di me senza le ore di ufficio?’ o anche: ‘Mia moglie è morta, ma per fortuna ho un gran fascio di atti da redigere per domani’. Il viaggio ci toglie questo rifugio. Lontano dai parenti, dalla lingua, strappati a tutti i nostri sostegni, privi delle nostre maschere (non si conoscono le tariffe dei tram ed è tutto così), siamo completamente alla superficie di noi stessi. Ma sentendoci male all’anima, restituiamo ad ogni essere, ad ogni oggetto, il suo valore di miracolo. Una donna che balla senza pensare, una bottiglia sul tavolo intravista dietro una tendina: ogni immagine diventa simbolo.”

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 Tornando a Praga, nelle fredde strade della capitale, Camus ricorda i suoi caldi viaggi in Italia, “terra fatta a immagine e somiglianza della mia anima”, le vigne profumate, le lunghezze dei cipressi, i nodi degli ulivi, l’odore forte dell’albero di fichi, le piazze ricolme d’ombra sotto un sole indifferente, il flauto acuto e tenero delle cicale, il silenzio che nasce dal rincorrersi lento delle giornate. Mettere a fuoco il linguaggio di un orizzonte nuovo, sentire finalmente che si accorda con il nostro, e non perché trovi una risposta alle nostre domande, ma perché queste domande le rende inutili.

Camus rivendica il diritto all’indifferenza, sprezza la ricerca della felicità a tutti i costi e a questa preferisce l’essere cosciente, la presenza a se stessi, il vivere il buono e il cattivo tempo, sperimentare tutto, il rovescio e il diritto di ogni momento, sfuggire il sonno, “avevo voglia d’amare come si ha voglia di piangere”, come qualcosa di forte e naturale, a cui bisogna solo lasciarsi andare. La sua indifferenza, assicura, è molto simile alla compassione, a un’empatia panica con il creato, con la bellezza dei paesaggi, del moto delle onde, del vento tra le spighe di granturco, con l’atteggiamento freddo della natura, che raramente s’accompagna ai moti dell’animo umano e che, proprio per questo, sembra comprenderli tutti.

“Adesso non desidero più di essere felice ma solo d’essere cosciente. Tra questo diritto e questo rovescio del mondo, non voglio più scegliere”.

Soundtrack: Scott Matthews, Myself Again

Images © Emiliano Ponzi

Storie di Procida

“Quelli come te, che hanno due sangui diversi nelle vene, non trovano mai riposo né contentezza; e mentre sono là, vorrebbero trovarsi qua, e appena tornati qua, subito hanno voglia di scappar via. Tu te ne andrai da un luogo all’altro, come se fuggissi di prigione, o corressi in cerca di qualcuno; ma in realtà inseguirai soltanto le sorti diverse che si mischiano nel tuo sangue, perché il tuo sangue è come un animale doppio, è come un cavallo grifone, come una sirena”.

Arturo ha 14 anni e vive sull’isola di Procida. Il sangue misto, incapace di arrestarsi in alcun luogo, è suo padre, Wilhelm, origini tedesche, trapiantato nell’isola napoletana, luogo di infinite partenze e permanenze irrequiete. Procida è una ghirlanda di case colorate. Guardandola da lontano, dal traghetto che porta a Ischia, le barche attraccate al porto, come la Torpediniera delle Antille di Arturo, la banchina con poche sparute persone dall’aria un po’ perduta, appare come un pezzo di terra che non sembra capace di appartenere all’oggi ma è confinata nell’eterno, nel sempre.

L’isola di Arturo è un romanzo di Elsa Morante, ambientato interamente nella dimensione fantastica e atemporale dell’isola. Una storia che racconta la scoperta dell’inquietudine della vita circondata dal mare, della tragicità dell’amore “quello vero, che non ha nessuno scopo e nessuna ragione”, dell’inevitabilità del dolore e della disperazione.

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Unica figura degna d’attenzione, tra tutti i procidani insignificanti, è il padre, Wilhelm, il condottiero valente, l’eroe macedone, un dio, anzi di più, un enigma, dall’espressione altera e indifferente. “Talvolta, un baleno delle segretezze gelose, alle quali i suoi pensieri parevano sempre intenti, passava sul suo viso: per esempio, dei sorrisi rapidi, selvatici e quasi lusingati; o delle lievi smorfie subdole, ingiuriose; o un malumore inaspettato, senza apparente motivo. Per me, che non potevo attribuire, a lui, nessun capriccio umano, il suo broncio era maestoso come l’oscurarsi del giorno, indizio certo di eventi misteriosi, e importanti come la Storia Universale”.

La compagnia di suo padre, intermittente, inaspettata, è un privilegio superbo, al quale Arturo dedica tutta la sua persona, con l’accanimento d’un lavoro meraviglioso, come su per l’albero d’un veliero, come una corsa a perdifiato, dove si segue qualcosa o qualcuno a precipizio, ci si butta giù senza guardare cosa c’è sotto, quando non si ha più contezza dell’oggi e si dimentica il resto del mondo. Per prendersi tutto, prima che anche quell’euforia tramonti e si finisce per ritrovarsi nel letto più grande della casa, ancora vestiti, come un capitano stanco, come Wilhelm, che osservava fuori dalla sua finestra e, dopo tante disavventure, si scopriva ogni volta sorpreso di ritrovarsi sempre solo e soltanto a casa sua, nella stessa stanza di tutti i giorni e meditava idee di fuga. “Luna nuova”, diceva, “con l’aria di dire invece – Sempre la stessa luna. La solita luna di Procida!”.

“E potrai anche trovare qualche compagnia di tuo gusto, fra tanta gente che s’incontra al mondo; però, molto spesso, te ne starai solo. Un sangue misto di rado si trova contento in compagnia: c’è sempre qualcosa che gli fa ombra, ma in realtà è lui che si fa ombra da se stesso, come il ladro e il tesoro, che si fanno ombra uno con l’altro”. 

Avevo dimenticato l’effetto della scrittura di Elsa Morante. Quando vivevo a Lecce, trovai La Storia in una libreria dell’usato e la terminai in pochi giorni. Qualche anno dopo, m’imbattei in Menzogna e Sortilegio, in una casa in affitto, un libro che mi ha letteralmente stregato, al punto da farmi immaginare l’odore di sapone e tessuti conservati negli armadi delle vecchie stanze da letto di Elisa, la protagonista. Ho comprato L’isola di Arturo su consiglio di Salvatore, il padrone di casa dell’antica libreria Ricci di Ischia, una capanna di legno, una piccola oasi di pace tra le vetrine concitate, i tacchi alti delle signore, gli spritz a 7 euro dell’isola. Sono bastate pochissime pagine per ritrovare i periodi assorti, la scrittura sensoriale, un incantesimo d’inchiostro e sogni, che in questo libro ha il profumo di salsedine del Tirreno.

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Sono tornata a casa da qualche giorno, ripiombata in quella sensazione di straniamento, come alla fine di ogni libro, quando si rimane un po’ con le pagine in mano, a tornare indietro, a ritrovare dei passaggi, a cercare di non perdere la magia della scrittura e dell’invenzione fantastica, di restare ancora qualche minuto in quella condizione di sospensione d’incredulità, indispensabile per leggere un romanzo, o per vivere un’illusione. Nella speranza di conservare qualcosa in più della nostalgia, ma la speranza, a volte “indebolisce le coscienze, come un vizio” e non si distingue più la realtà dalla fantasia, finendo per perdere la lucidità e immaginarsi d’essere un pesce qualunque, di ritorno a Procida.

“Io non chiederei di essere un gabbiano, né un delfino; mi accontenterei di essere uno scorfano, ch’è il pesce più brutto del mare, pur di ritrovarmi laggiù, a scherzare in quell’acqua”.

Images © Shout

Soundtrack: Pino Daniele, Je’ so pazzo

Quotes: Elsa Morante, L’isola di Arturo

Outside party

Somebody was boring me, I think it was me.

Frankie Roberts è reduce dal Vietnam. Torna a casa, in una piccola cittadina agricola del Nebraska, Plattsmouth, dove Joe, il fratello, lavora come sceriffo. Niente è cambiato qui, neanche i suoi genitori, che Frankie decide di sollevare dal peso dei convenevoli, disertando la rimpatriata. Neve, indiani d’America vestiti in jeans, villette a schiera, distintivi, cadillac impolverate, vecchi bar senza finestre. Tutto è uguale. Tranne quelli che se ne sono andati. Frankie va in cerca della vecchia copia di se stesso, che ormai non c’è più. Anche Joe, quando vede Frankie saltare su un treno in corsa e allontanarsi, riconosce di non essere più in grado di intravedere suo fratello nell’uomo che lo sta guardando negli occhi.

“The Indian Runner”, uscito nel 1991, è il film del debutto alla regia di Sean Penn, tratto dalla canzone di Bruce Springsteen, Highway Patrolman, con Viggo Mortensen nella parte di Frankie Roberts. La trama della pellicola riporta esattamente quanto dice il brano, raccontando la storia dei due fratelli, persino i nomi dei protagonisti sono gli stessi. Io l’ho fatto partire una sera, senza saperne più di tanto, ed è finito per diventare una delle pellicole a cui voglio bene, come alcuni libri, mi rassicura il fatto che ci siano, mi piace averle intorno, sapere che c’è qualcuno che abbia raccontato questa storia e altri che, forse in maniera diversa, l’hanno vissuta.

Tornato a casa, Frankie vuole darsi un’opportunità, quella di una vita regolare. Sposa Dorothy, che aspetta un bambino da lui, ripara una bicicletta, comincia a lavorare ai cantieri della città, convince persino suo fratello che sarebbe bello riprendere la terra di una volta, tornare a piantarci il grano forse, ritornare a quello che era stato.

Poi qualcosa s’incrina, nel film è un’esplosione improvvisa, ma nella testa di Frankie è una agonia, giorno dopo giorno, una solitudine insostenibile, la sensazione di non riuscire a trovare il proprio posto, una connessione, un filo che lo leghi a qualcuno. L’impossibilità di mettere il silenziatore all’indiano che continua a corrergli nel cervello.

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The bigger they come, the harder they fall.

La voglia di distruggere ogni cosa, di mandare all’aria ogni piano, di non vivere più schiavo della necessità di pensare al futuro, alle “cose importanti”, alle “cose concrete”, a sistemarsi, che poi si fa troppo tardi, si resta soli, senza un lavoro e senza la pensione e non si sa cosa rispondere quando in banca ti chiedono la professione o cosa dire a chi si aspettava che avresti fatto strada, senza curarsi dei progetti, di costruirsi un avvenire, prevenire le difficoltà, risparmiarsi i disagi e le altre piccole meschinità dell’esistenza dell’uomo, l’unico animale che, come diceva Pirandello, ha il triste privilegio di sentirsi vivere.

In un momento del film, parte la canzone Comin’ back to me, dei Jefferson Airplane e resta da sfondo a tutto quello che succede in una notte: Frankie che ruba la macchina ai ricchi del quartiere e passa a prendere Dorothy, Joe che ricomincia a fumare e non riesce a dormire, il padre dei due fratelli che torna a vedere le vecchie pellicole di una volta, quando tutti erano piccoli e tutto poteva ancora succedere.

La voce di Marty Balin basta da sola a lasciare un nodo in gola, quello della nostalgia, che come diceva Marquez, nasce nel momento esatto in cui si comprende che l’avvenire è già iniziato e non è quello che ci aspettavamo. Ci sono vite che abbiamo cominciato per gioco e hanno finito per non lasciarci liberi di uscire. Sogni trasparenti che avremmo voluto non iniziassero mai e ora sono qui a chiederci conto dei desideri espressi, delle convinzioni in cui credevamo, della paura del giorno dopo, di cui di credevamo immuni.

A transparent dream
Beneath an occasional sigh
Most of the time
I just let it go by
Now I wish it hadn’t begun

What are you doing here? D’you come here to fucking guilt me to death?

Tutto sembra svuotarsi, nessuno riesce a scavalcare il muro. Dorothy, il figlio che sta arrivando, il fratello, sono solo sensi di colpa, ombre le cui aspettative non saranno mai realizzate, “outside party”, parti esterne, che poco c’entrano con quello che accade quando si resta con la testa sul cuscino, il buio, gli occhi aperti.

Frankie se ne va, prende la macchina, un ultimo sguardo a tutto quello che è stato e non torna più, non si guarda neanche più indietro, chiude la porta per sempre e non riesce nemmeno a chiedere scusa, corre lungo le colline, per dimenticarsi di tutto, un chilometro dopo l’altro.

Poi ci sono certe porte che finiscono per restare aperte, per la paura di chiuderle e restare nella stessa stanza con il vuoto di notte o per il timore di guardarsi allo specchio e chiedersi se davvero è tutto qui, per trovarci una scusa e fare finta di essere vivi, di provare entusiasmo, di mostrarsi interessati, di sentire qualcosa, di avere ancora un desiderio che non sia quello di dissolversi e sparire all’orizzonte, come la fine del film, fari accesi, serbatoio pieno, verso il deserto.

Soundtrack: Highway Patrolman, Bruce Springsteen

Image © Witchoria

Milano – game over

“Allora, com’è Milano?”. Ho perso il conto di tutte le volte che mi è stata rivolta questa domanda nel corso degli ultimi mesi. Per un po’ di tempo, avevo anche pensato di registrarne tutte le intonazioni, da quella più sufficiente a quella più entusiasta, passando per il milanese che non sa cosa dire alla signora preoccupata che “è un po’ un trauma per te che vieni da Lecce”, ed è un trauma anche se le ho ripetuto che ho vissuto altre volte in città che superano il milione di abitanti e ha insistito, nonostante tutto, a volermi spiegare il funzionamento della metropolitana e ad accompagnarmi alla fermata, “non vorrei che ti perdessi tra i tanti corridoi”.

Milano, per me, era qui ancor prima di viverci. Era la stazione centrale almeno cinque volte al mese, quando ho iniziato a seguire il corso a Lotto, a venirci sempre più spesso per vani colloqui di lavoro. Erano i binari lunghissimi prima di arrivare a destinazione, il panorama dal finestrino di un treno, quasi sempre graffiato di pioggia. L’autostrada che ho imparato a memoria con i tanti passaggi in auto. Ritrovare, anche se per poco tempo, il calore di una redazione e quello di una classe. La certezza di poter vivere bene in una città che non fosse Parigi. Una nuova tessera dei trasporti. Qualche nuovo amico e altri che sono riuscita ad incontrare finalmente anche fuori dalla virtualità.

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“Il bello di vivere in una città che non conosci è provare continuamente l’eccitazione dell’esploratore”, ha scritto di recente Cristiano de Majo, su RivistaStudio, parlando proprio di Milano. A questa eccitazione ci si può anche abituare, diventarne dipendenti, ma aiuta anche a preservare dalle lamentele, dal malcontento, dall’insoddisfazione. In questi mesi di stupidità collettiva a Milano, di crociate distruttive contro Expo, di attivismo con spugnetta e detersivo, mi sono sentita leggera come pochi, godendo di quel piacere che Pavese ha descritto meglio di chiunque altro, quello di “sfiorare innumerevoli scene ricche e sapere che ognuna potrebbe esser nostra e passar oltre da gran signore”.

Scene che si compongono una strada dopo l’altra, con la sensazione di mettere insieme i pezzi di una città: il pomeriggio al quartiere Maggiolina, tra le case igloo, le ville residenziali e la ferrovia; una sera al Piccolo Teatro e poi tornare a piedi lungo via dei Mercanti deserta; la scoperta dei vicoli dei Navigli e degli atelier di pittura; seguire la pista della Martesana fino alle porte della città; intrufolarsi nei teatri più piccoli e meno conosciuti; esplorare le viscere di Macao insieme ai ragazzi di Proprietà Pirata; i tarocchi per due dalla zingara di Brera; una panchina di Parco Sempione con i libri di Rumiz e poi il Bar Magenta; un sabato sera da sola a perdermi nell’Hangar Bicocca, sotto i palazzi celesti; il tram numero 9, da Porta Romana a Porta Genova; il bus diretto a Linate con il cuore in gola.

Sentirsi finalmente a casa, realizzare come si legano i viali, imparare le prime scorciatoie, essere in grado di rispondere quando qualcuno chiede indicazioni, come scrive sempre De Majo, “è bellissimo quando inizi a capire che quella strada porta in un posto dove sei già stato arrivandoci da un’altra parte, ed è rassicurante sapere che per un bel pezzo potrai permetterti una certa naiveté, che significa anche che ti lamenterai poco”.

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E poi Milano è stata una nuova casa, il piacere di essere sola, di addormentarmi con la musica, di costruire marionette di carta sul pavimento e lasciarle lì per giorni, di partire, di tornare, senza dover informare nessuno, di esplorare libri sconosciuti trovati nel soggiorno, di rientrare e chiudere il mondo fuori. Vivere quella solitudine che, quando c’è, come diceva De Andrè, aiuta “ad avere contatto con il circostante”, che non è fatto solo dei nostri simili ma comprende anche “tutto l’universo, dalla foglia che spunta di notte in un campo fino alle stelle”.

Mentre scrivo, Milano è deserta. Non arriva nessun rumore dalla finestra aperta di casa, al settimo piano e non è difficile pensarsi già altrove. Immagino lo stesso silenzio, tanti tanti chilometri più a sud, un altro vento, altri domicili, altre stanze, lontane da questo appartamento, che è il posto dove pensavo di aver scacciato definitivamente alcuni fantasmi, che invece s’erano solo nascosti sotto il letto e mi hanno teso un agguato all’improvviso, a pochi giorni dalla fine.

Provo a contrastarli con il solito antidoto: l’attitudine alla partenza, l’arte del bagaglio minimo, un biglietto di sola andata già pronto, “il senso della ferrovia”, l’istinto di sopravvivenza: cambiare decoro, per sfuggire al vero ignoto, quello di una domenica pomeriggio passata a fissare il soffitto di casa. La dimensione domestica, scriveva Magris, cela più insidie di un viaggio avventuroso e la spedizione da una stanza all’altra della propria abitazione non è meno ricca di rischi e pericoli.

Soundtrack: Mino De Santis, Sempre in viaggio

Image: © Witchoria

Andrea s’è perso

Non erano i monti di Trento e non era neanche una mitraglia. Andrea s’era perso, senza una lettera, senza la firma d’oro del re. Forse proprio per questo si era perso Andrea e non sapeva tornare. Nessuno gli aveva detto da che parte andare. Di incertezza si può anche morire.

Il bosco non era solo quello degli occhi di un contadino del regno, era quello fitto che era cresciuto intorno. Erano le finestre oscurate. Era la paura di uscire. Erano le langhe, con la luna sempre piena, la cenere dei falò sempre nell’aria, l’odore di erba bruciata, i tempi in cui bastava una ventata di tigli per sentirsi accesi, la verità sbattuta in faccia da un paesino adagiato sui colli, di quelli dove per sopravvivere non bisogna mai allontanarsi, mai mettere un piede oltre la svolta dello stradone, ché poi si perde la strada e non si ritorna più.

bosco

O forse s’era perso in una stanza vuota, quelle di città, che si affittano per un paio di mesi e poi restano come dei gusci vuoti al momento della partenza, nessun segno, nessun ricordo, o quasi, stanze che non esistono se nessuno le ha viste, disponibili per chiunque, nulla di personale. Quelle dove si finisce quasi per caso, quelle che ci si è immaginati per una vita intera e poi, una volta arrivati, viene da chiedersi se sia tutto lì. Dove non prende neanche bene il telefono e la notte si passa sulla scala del condominio ad aspettare notizie, perché forse il foglio del re arriva prima o poi ad avvisare che qualcuno è morto sulla bandiera.

Andrea se l’era anche chiesto, se ne valeva la pena, di fare tanta strada, “di traversare il mondo per vedere chiunque”, di crederci così tanto, di simulare tanto entusiasmo per poi non saper più distinguere un amore da un altro, per saltare giù dal palco, per prendere l’ennesimo treno, per tornare ancora una volta sulle stesse strade, sentirsi dire le stesse parole. “Valeva la pena esser venuto? Dove potevo ancora andare? Buttarmi dal molo? Ma dove andare? Ero arrivato in capo al mondo, sull’ultima costa, e ne avevo abbastanza”.

Ritornare e trovare amici che si ricordano di cose che aveva fatto, parole che aveva detto, storie che aveva vissuto, aneddoti che una volta era solito raccontare e lui che non si ricorda più niente, perché i filtri sono sbagliati, la memoria al contrario, l’abitudine a fare finta di niente e a eseguire gli ordini, è pur sempre un soldato del regno e non ha nemmeno il profilo francese, e “magari è meglio così, meglio che tutto se ne vada in un falò d’erbe secche e che la gente ricominci”.

Perché io Andrea me lo immagino e forse a volte me lo sogno anche la notte, mentre raccoglieva violette. Sono quelle mattine che mi sveglio e mi ricordo di aver parlato con un secchio, mi avvertiva che il pozzo era profondo. E io ultimamente ho le vertigini, ma le profondità non mi fanno paura. Mi ci butto, non guardo nemmeno cosa c’è dentro. Mi basta che sia più profondo di me.

Soundtrack: Andrea, Fabrizio De Andrè

Image: © Witchoria

Quotes: La luna e i falò, Cesare Pavese

Paris, rue Seveste

“Une bouteille de scotch pour coller le vide intérieur”

Parmi les plaisirs du voyage, il y a aussi celui du retour. Surtout, pour ce type de flâneurs qui se sentent chez eux dans des endroits qu’ils visitent pour la première fois. Ces étrangers qui se méfient des origines marquées sur leur carte d’identité et qui n’appartiennent qu’à ces villes où ils ont été heureux pour la première fois. Leur chez eux, c’est un lieu qui n’existe pas, qui n’est pas écrit sur le plan du centre, qui n’a pas d’arrêt de métro. C’est la table d’un café où ils sont allés diner plusieurs fois, c’est un cinéma désert dans l’après-midi ou les bras de quelqu’un, où ils avaient imaginé de rester quelques jours ou toute leur vie.

Il arrive très souvent aussi que le voyage du retour prenne la forme d’un saut dans le vide, pour aller voir si ces maisons éphémères sont toujours là, si la vie laissée à moitié nous a oubliés. C’est comme un pèlerinage dans le passé, pour aller dire bonjour à ces alter ego perdus sur le chemin, qui auraient bien continué à vivre notre ancienne vie, qui n’ont pas toujours envie de remplir des cartons et repartir. On a envie de sentir des odeurs qui nous manquent ou savoir si on est toujours capable de trouver les vieux raccourcis, de se souvenir de l’emplacement des boutiques et des restaurants ou si, par absurdité, notre nom est toujours sur la boîte à lettres. Pour la plupart des fois, la destination finale vaut bien le risque de se noyer parmi les souvenirs.

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« Je veux m’amuser à écrire. Personne ne comprend que c’est sérieux »

C’est peut-être pour cette raison que j’ai repris la rue Seveste quand je suis retournée à Paris il y a quelque temps. C’est une petite ruelle qui mène à la Basilique du Sacré-Cœur, juste à coté de la plus connue rue de Steinkerque, mais sans ses vendeurs, ses joueurs de cartes, ses touristes hypnotisés par les sacs et les Tour Eiffel en plastique, sans les crieuses qui se battent pour le dernier manteau en soldes chez Sympa, sans l’homme-poulet de Subway qui tourne sur lui même en vous rassurant parce que “votre prochain sandwich complet n’est pas loin”.

Sur la rue Seveste, il n’y a que de boutiques de rideaux et de tissus, de petits hôtels malfamés et les premiers vendeurs d’iPhone qui ont abandonné le quartier général chez Tati. Le métro Anvers n’est pas loin et Barbès avec ses cigarettes à bon marché vous attend quelques mètres à gauche. Personne ne vous arrête pour vous proposer des affaires à ne pas rater ou aucun selfie stick ne vous rentre dans le dos quand vous essayez d’éviter les couples qui s’embrassent en se prenant en photo. C’est pour ça que j’aimais bien la parcourir en descendant de chez moi.

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Cet après-midi d’avril sur la rue Seveste, il n’y a presque personne, que mes souvenirs peut-être, qui marchent sur le trottoir. Et si je suis là, c’est plutôt pour les remplacer, pour ramener chez moi de nouvelles images qui n’ont rien à voir avec le froid d’une soirée de janvier, une porte verte qui claque derrière moi, la pluie qui me mouille les cheveux, le piano qui sonne son dernier nocturne, le bruit d’une valise pleine à craquer, mon nez qui coule.

Il y a toujours la pluie, mais je n’ai plus de valise, mon nez ne coule même pas, ça je ne l’aurais jamais dit. Peu importe. Je remonte la rue. Je marche très vite. Je suis impatiente. Je ne prête même pas attention aux boutiques ouvertes qui débordent de tissus et d’habits colorés, aux gens que je croise. J’ai presque l’impression d’être heureuse. De ne pas m’être trompée de rue et de ne pas avoir de regrets. De retrouver ma ville sans aucune rancune et sans les larmes aux yeux.

“Mademoiselle !”, j’entends. Je m’arrête tout de suite. Personne ne m’avait jamais appelée sur cette rue. Je tourne la tête. C’est un vieux monsieur, depuis la porte de sa boutique de tissus. “Est-ce que vous êtes pressée ?”, me demande-t-il. Il a un petit bonnet pour se réparer de la pluie, une pair de lunettes à l’ancienne et une chemise à carreaux. “Non, je ne suis que contente”, je lui réponds, sans même pas penser à ce que je dis. Et lui : “Parfois, c’est un peu la même chose, vous ne trouvez pas ?”.

Image: © Shout

Soundtrack: Calexico, Bisbee Blue

Quotes: Fabienne Yvert

Solo per fumatori

“Passeggiamo come automi per città prive di senso. Passiamo da un sesso all’altro per giungere sempre alla stessa dimora. Diciamo più o meno le stesse cose, con leggere varianti. Mangiamo vegetali o animali, ma non più di quelli disponibili, nessuno ci servirà mai l’Uccello del Paradiso o la Rosa dei Venti”.

Chi scrive è Julio Ramon Ribeyro, scrittore peruviano “timido e geniale”, nato a Lima nel 1929 e qui morto nel 1994, autore di Scritti apolidi, un libro trovato girovagando tra le bancarelle di BookPride, la prima fiera dell’editoria indipendente a Milano, qualche tempo fa. A pubblicare e promuovere l’opera di Ribeyro, tra gli autori sudamericani meno conosciuti, è la casa editrice La Nuova Frontiera, impegnata nella diffusione della letteratura ispano-americana e lusofona, che già qualche anno fa aveva conquistato un posto d’onore nel mio olimpo letterario, con Corpo a Corpo di Gabriela Wiener.  

Adocchiando l’aggettivo apolide, ho pensato subito di aver trovato un altro testo da aggiungere alla mia biblioteca di scrittori senza patria. In realtà, Ribeyro chiarisce il titolo sin dalle prime pagine: “non si tratta, come qualcuno ha pensato, degli scritti di un ‘apolide’ o di qualcuno che, pur non essendolo, si sente tale. Si tratta in primo luogo di testi che non hanno trovato posto nei miei libri già pubblicati e che vagavano tra le mie carte, senza una destinazione né una funzione precisi. In secondo luogo, si tratta di testi che non rientrano a pieno titolo in nessun genere”.

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Pensavo di addentrarmi in una lettura squisitamente sudamericana e, invece, scopro che Ribeyro passò più di vent’anni a Parigi dove lavorò come scrittore, traduttore, giornalista e consigliere presso l’Unesco. Si ritirò a Lima solo durante gli ultimi anni della sua vita, per concedersi un ultimo tratto di strada in solitudine, in riva al mare. Non apolide quindi, ma di certo errante: “Per dieci anni ho vissuto emancipato dal senso della proprietà privata, della professione, della famiglia, del domicilio e ho viaggiato per il mondo con una valigia piena di libri, una macchina da scrivere e un giradischi portatile. Ma ero vulnerabile e ho ceduto a sortilegi antichi come la donna, la casa, il lavoro, i beni. Così ho messo radici, ho scelto un luogo, l’ho occupato e ho cominciato a popolarlo di oggetti e presenze. Prima qualcuno da amare, in seguito qualcosa che questa persona amasse, poi l’attrezzatura del caso: un letto, una sedia, un quadro, un bambino. Ma era solo l’inizio, perché ognuno di noi è stato raccoglitore, si è trasformato in collezionista e ha finito per diventare soltanto un anello nell’interminabile catena dei consumatori”.

Come dire, pensavo di aver cambiato rotta e aver intrapreso un filone letterario diverso, invece sul comodino mi ritrovo un girovago migrante, che rifugge fisse dimore e proprietà materiali e si lascia adottare da Parigi. Un professore universitario, che ha seguito la mia tesi sugli scrittori apolidi di due anni fa, di recente mi ha scritto: “non riuscirà mai a liberarsi delle sue letture ontologico-depressiste”. Aveva ragione. Ribeyro mi ha travolto nella sua scrittura, nichilista, autodistruttiva, inseparabile dalla sua sigaretta e mi ha portato alla scoperta del buio, quello più subdolo e inaspettato, “come succede a chi, avendo sempre dormito dal tramonto all’alba, si sveglia una volta a metà del sonno e scopre che esiste anche la notte”.

Quello che Ribeyro chiamava il suo lato da animale notturno era l’insopprimibile istinto a camminare, sfuggire a tutto quello che l’aveva intrappolato dentro casa, intrufolarsi nei panni di un altro e vivere un’altra esistenza, anche solo per il tempo di una passeggiata: “Mettersi il cappotto e iniziare a camminare. Piccole luci, cieli opachi o stellati, gente che esce lavata, pettinata, in cerca di piacere. Soste nei bar, senza fretta, a bere un buon liquore sorso a sorso, guardare, pensare, avvertire il compiersi della trasfigurazione… Di colpo siamo già altri: una delle nostre cento personalità morte o rifiutate ci possiede”.

ribeyro

“Ho vissuto mischiato ai pezzi sparsi, senza sapere dove collocarli. Così, per me vivere sarà stato come cimentarsi in un gioco di cui mi sono sfuggite le regole e dunque non aver trovato la soluzione dell’enigma”. Ribeyro appartiene solo cronologicamente all’esplosiva ondata di scritture latinoamericane degli anni Cinquanta, dove si trovano Vargas Llosa, Marquez, Cortazar. Da sempre a suo agio in una dimensione individuale più che collettiva, Ribeyro resta defilato, “uomo smarrito per la solitudine”, che da solo si rimprovera la sua tendenza alla dispersione, al confondersi per mille strade, fedele alla forma del frammento e del racconto, perché forse “per un sudamericano era più facile fare la rivoluzione che scrivere un romanzo”. Specialista dell’arrivare senza avvisare, passa anni interi seduto nei caffè di Parigi o a camminare lungo i suoi boulevard, riservato sì, ma completamente immerso nella fauna urbana, pronto a coglierne ogni sfumatura e a riprodurla nei suoi racconti, molti ambientati proprio nella capitale francese.

“Quando qualcuno scopre che ho vissuto a Parigi per quasi vent’anni, mi dice sempre che quella città deve piacermi molto. E io non so mai cosa rispondere. In realtà non so se Parigi mi piace, come non so se mi piace Lima. La sola cosa che so è che tanto Parigi quanto Lima per me vanno al di là del gusto. Non posso giudicarle per i monumenti, il clima, le persone, l’atmosfera, cosa che posso fare per le città in cui sono stato solo di passaggio, […]. Sia Parigi che Lima per me non sono oggetto di contemplazione, ma conquiste della mia esperienza. Sono dentro di me, come i polmoni e il pancreas, per i quali non so formulare nessuna valutazione estetica. Posso dire solo che mi appartengono”. Come dirlo meglio di lui?

Chissà se Ribeyro era a conoscenza che a qualche arrondissement dal suo, un altro celebre apolide metafisico negli stessi anni lasciava la sua inquietudine vagare per le strade di Parigi: Emil Cioran, di origini romene, parigino d’adozione. Schivi e defilati, Ribeyro dal suo appartamento sulla place Falguière, Cioran dalla sua soffitta di rue de l’Odéon, corteggiavano il suicidio senza mai lasciarsene dominare, consapevoli dell’esistenza di tale scorciatoia ma soprattutto della possibilità di non prenderla.

“L’atto creativo è basato sull’autodistruzione. Tutti gli altri valori – salute, famiglia, futuro eccetera – restano subordinati all’atto di creare e perdono ogni validità. L’improrogabile, il primordiale, è il rigo, la frase, il paragrafo che uno scrive”, diceva Ribeyro, “ammiro pertanto gli artisti che creano in accordo con la propria vita e non contro, i longevi, autentici e allegri, che si nutrono della stessa creazione e non ne fanno, come me, ciò che si sottrae a quanto ci era dato di vivere”.

Per finire, Solo per fumatori è una raccolta di racconti, dove Ribeyro narra della sua passione per il fumo. Balzac per un pacchetto di Lucky Strike, le liriche dei surrealisti per un paio di Players e il suo adorato Flaubert per una manciata di Gauloises, per Ribeyro non c’era scrittura degna senza una sigaretta accesa e usava barattare i suoi libri per averne qualcuna, ma soprattutto per quel piacere che gli ricordava quello dello scrivere: estremo benessere durante e poi solo perpetua insoddisfazione.

Chiudo il libro e lo immagino sul balcone del suo appartamento parigino a fumare, mentre osserva il cielo, denso, da tagliare a spicchi come un mandarino, o sbatte la porta in faccia al giorno, rifiutandosi categoricamente di riceverlo: “Abitudine di tirare i mozziconi dal balcone, in piena Place Falguière, quando sono appoggiato alla ringhiera e sotto, sul marciapiede, non c’è nessuno. Perciò mi infastidisce vedere qualcuno fermo lì quando sto per compiere questo gesto. Cosa diavolo ci fa quel tizio nel mio posacenere?, mi domando”.

Soundtrack: Calexico, “Edge of the Sun”

Questo post è vittima di un’esondazione da citazioni. Avrei voluto trascrivere tutti i diari di Ribeyro e tutti i miei frammenti preferiti di Cioran, ma per questo invito i più interessati a rivolgersi alle librerie e a comprare i testi. Ne vale la pena. Per quanto riguarda le poche linee di cui sopra, spero d’aver lasciato intendere quanto abbia amato questo libro e che Ribeyro apprezzi, ovunque si trovi, e non sbuffi dalla sua sigaretta, anche se considerava le tante citazioni un segno d’inciviltà. Io da parte mia ho avuto il timore che da un momento all’altro alle mie spalle spuntasse Troisi per chiedermi: “Ma che fai? Parli con le parole degli altri?”

Note a margine

“Bisogna stare attenti ai pensieri che vengono di notte: non hanno la giusta direzione, arrivano a tradimento da luoghi remoti e son privi di senso e di limiti”. Questo è l’incipit di Strade Blu di William Least Heat-Moon, un viaggio lungo l’America minore, lontano dalle Interstates, arrivato sul mio comodino un po’ di tempo fa. La storia è quella di una partenza solitaria, per tre mesi, dal Missouri al Texas meridionale, la Louisiana, il New Mexico, lo Utah, la California, il Montana e il Minnesota, tutto seguendo le strade blu, quelle secondarie, “aperte, invitanti, enigmatiche: uno spazio dove l’uomo può perdersi”.

“Quella notte, mentre mi rigiravo nel letto chiedendomi se avrei fatto prima a prender sonno o ad esplodere, ebbi appunto l’idea. Un uomo che non riesce a far quadrare le cose può sempre levare le tende. Può mollare tutto cercando di tirarsi fuori dalla solita vita. Può mandare al diavolo il tran tran quotidiano e correre il rischio di vivere il momento secondo le circostanze, è una questione di dignità”. Succede in un attimo, quello che prende più tempo è il pensarci, rigirarsi nel letto, immaginare le conseguenze, le reazioni, i ripensamenti, poi, una volta deciso, basta chiudere gli occhi e saltare nel vuoto, senza nemmeno preoccuparsi se sotto qualcuno avrà pensato di metterci una rete.

salto

Heat-Moon perde il suo matrimonio e il suo lavoro in un colpo solo. Per sfuggire al passato, che continua ad annusarlo sul collo, la sera, prima di addormentarsi, decide di partire dopo aver rimesso a posto il suo furgone, il Ghost Dancing, “seguendo la primavera, come le anatre – nell’oscurità, col collo dritto in avanti”. Ha 38 anni, senza un posto di lavoro e senza progetti precisi, il che comporta, durante il viaggio, anche inevitabili dialoghi come:

– E tu che mestiere fai?

– Nessuno

– E com’è che funziona?

– Non funziona in nessuna maniera.

Ma anche incoraggiamenti inaspettati:

– Dove va?

– Non lo so.

– Allora è impossibile perdersi.

“Con una sensazione quasi disperata d’isolamento e la crescente certezza di vivere in terra straniera, partivo alla ricerca di mondi dove il mutamento non fosse rovina”, inseguendo un cambiamento e forse perché, come Heat-Moon, mi piace rendermi la vita difficile. Insomma, ho cambiato casa. Ora sono al settimo piano di un palazzo, Milano Sud, ho un balcone, tante finestre, spazi inondati di luce e dalla mia cucina si vedono anche le montagne che, per chi viene da regioni il cui unico rilievo sono le dune di sabbia, restano sempre qualcosa di esotico. A pensarci bene, è stato il trasloco più indolore degli ultimi mesi. Solo uno zaino e una valigia, qualche libro, pochissimi vestiti, tanti, forse troppi, quaderni per appunti. Lo stretto indispensabile. Ho anche un solaio e un armadio gigante e per la prima volta non so come riempirli.

Appena tornata in Italia, avevo cominciato a occuparmi le giornate accumulando nuove conoscenze, passatempi inediti, pile di libri, progetti appena iniziati. In due mesi, ho collezionato biglietti di treno, numeri di telefono, appunti sull’agenda. Poi, succede sempre quando si fanno le valigie, tutto il superfluo resta fuori, è quasi liberatorio, sapere di poter ancora rinchiudere tutto in uno zaino e partire. Affinare la direzione, eliminare il superfluo, fare fuori brutalmente tutto quello che non mi serve. Come diceva Cesare Pavese, spostarsi, viaggiare, cambiare direzione, è una brutalità. Obbliga a una situazione di disagio perenne. “Nulla è vostro, tranne le cose essenziali – l’aria, il sonno, i sogni, il mare, il cielo”. Sono in questo appartamento, dove nulla è mio. Scrivo su un divano che non è mio, nella tasca ho un mazzo di chiavi che non riconosco, le coperte, le lenzuola non hanno l’odore di casa, devo pensarci per ricordare quale uscita della metro prendere, le strade sono tutte sconosciute, blu, “uno spazio dove l’uomo può perdersi”. Eppure l’essenziale è lì, a portata di mano, è un sollievo che non provavo da tempo, quello di aver bisogno di pochissimo per stare bene. A volte ho quasi l’impressione di camminare a un metro da terra per tutti i pesi che ho lasciato andare via.

spazio

Quando Heat-Moon attraversa la frontiera e raggiunge il West, qualcosa cambia. “La differenza incolmabile, perentoria, evidente e sbalorditiva tra l’Est e il West è dovuta a un fattore ben preciso: lo spazio. Nel West la vastità degli spazi aperti cambia le città, le strade, le case, le fattorie, le coltivazioni, la tecnica, la politica, l’economia e, ovviamente, il modo di pensare”. Lo spazio, soprattutto quello rimasto vuoto, spinge a una maggiore fiducia in se stessi, secondo Heat-Moon. Ma non solo, ci rimpicciolisce, ci riduce alla giusta misura, ridimensiona gli infimi drammi esistenziali, apre orizzonti inimmaginabili. “Nessuno, neppure la gente del posto può sottrarsi alla vastità dello spazio”.

Ora, non che voglia paragonare il deserto del Nevada al soggiorno di un bilocale milanese, ma questo spazio vuoto, sconosciuto, uno zaino leggero, una valigia con lo stretto indispensabile, niente di familiare intorno, era quello di cui avevo bisogno da tempo. Lo spazio. “In perfetta solitudine”, direbbe Federico Fiumani. Per rimpicciolire alcuni nodi, scioglierne altri, ridimensionare problemi e persone, osservarli dalla giusta prospettiva, quella di chi guarda da un punto altro, da una posizione, sì di tiro, ma sempre esterna, lontana. Spazio per mettere a fuoco una direzione, per inseguire i ripensamenti fino a riuscire a capirli ma soprattutto per riprendere vecchi discorsi e recuperare progetti e utopie che credevo d’aver messo da parte una volta per tutte. Lo diceva anche Heat-Moon:

– I sogni occupano molto spazio?

– Tutto quello che gli si dà.

Images © Shout

Soundtrack: Today, Jefferson Airplane

Le due linee

C’era una volta una linea, curva, costretta allo sguardo basso per natura, incattivita e amareggiata per la statura e il portamento cui era stata destinata. Di fronte, bersaglio preferito di sberleffi e motti di spirito, un’altra linea, retta, integra, da capo a piedi, spiccata verso l’alto, sorda, dato l’altezza, a ironie meschine e umane bassezze. Le due si ritrovavano spesso, una dirimpetto all’altra e, quella retta, senza perdersi d’animo, ricordava sempre all’amica curva che, nonostante i tempi bui, le magre consolazioni, gli squallori contemporanei, non c’era da cambiare orientamento, da piegarsi e abbassare lo sguardo. Lo scontro quotidiano si combatte restando dritti e lei era lì, viva, dritta, integra, occhi rivolti verso l’alto e petto in fuori e, sempre e comunque, la strada più breve tra due punti.

Questa è la storia di una poesia, che s’intitola Le to linie, vale a dire Le due linee in dialetto salentino. L’autore è Rocco Cataldi, maestro elementare, poeta dialettale e cantore salentino, originario di Parabita. Era lo zio di mio padre e, nei miei ricordi, una delle prime persone che mi abbia incoraggiato a leggere, ad alta voce e da sola, e forse anche un po’ a scrivere. Abitava a poche centinaia di metri da casa mia, mi regalava libri di favole e racconti, e hanno continuato a fare lo stesso anche i suoi figli negli anni. Lo incontravo spesso in paese, ma l’immagine che ho nella testa, quando penso a lui, è un signore anziano, sulla veranda di casa, nel pomeriggio, forse a godersi gli ultimi raggi di sole del giorno.

Io, che faccio collegamenti improbabili e voli pindarici tutti miei, ripenso a questa poesia dall’ultima volta che sono tornata a casa, durante il periodo di Natale. Una vita intera è cambiata da allora ma, l’altra sera, di ritorno qui, sono corsa a prendere il libro, una raccolta di poesie dialettali, che conservo nella mia stanza, a rileggere quei versi, a guardare l’immagine delle due linee. Sono urgenze personali, alle quali non saprei dare un senso.

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Devo confessare che per le linee rette non ho mai avuto una predilezione, anzi le ho sempre guardate con sospetto. “Attraversavo le vie rettilinee in lunghe oblique da un angolo all’altro e così avanzavo tracciando invisibili ipotenuse tra grigi cateti”, è Italo Calvino a scriverlo, in un libro meraviglioso, che s’intitola Eremita a Parigi.

Calvino, che si guardava bene dal pretendere di realizzare quello che andava predicando, rifiutava non solo le linee rette, itinerari troppo semplici per chi soffriva, come lui, di nevrosi geografica, ma anche ogni piano strategico, ogni tattica di sopravvivenza: “non parto da considerazioni di metodologia poetica: mi butto per strade rischiose, sperando di cavarmela sempre per forza di natura”. Animata dalle migliori intenzioni, io mi sono buttata a capofitto nelle strade più improbabili e, tornando indietro, rifarei tutto allo stesso modo. Se potessi ricominciare domani, mi ci butterei con lo stesso entusiasmo, la stessa incoscienza. Questo perché, come scrive sempre Calvino, “ci si abitua ad avere ostinazione nelle proprie abitudini, a trovarsi isolati per motivi giusti, a sopportare il disagio che ne deriva, a trovare la linea giusta per mantenere posizioni che non sono condivise dai più“.

Ad abitudini di questo tipo, ci si affeziona. In mancanza di domicili fissi, in abitudini del genere, ci si può anche sentire a casa, soprattutto per chi, di città in città, resta sempre a mezz’aria, fatica a stabilire relazioni durature con i luoghi e si porta dietro una serie di incompiuti geografici ed emotivi. “Rifiuto la parte di chi rincorre gli avvenimenti. Preferisco quella di chi continua un suo discorso, nell’attesa che torni attuale, come tutte le cose che hanno fondamento“, perché ho sbagliato tante volte ma l’intenzione era quella di restare integra, di andare per la mia strada, di restare sorda alle voci degli altri. Ma soprattutto perché esiste una coerenza di fondo e un disegno probabilmente verrà fuori quando un giorno mi deciderò a unire i puntini.

“Non credo a niente che sia facile, rapido, spontaneo, improvvisato, approssimativo. Credo alla forza di ciò che è lento, calmo, ostinato, senza fanatismi né entusiasmi”. Da quando la lessi negli appunti parigini di Calvino, questa dichiarazione di intenti è diventata il mio manifesto, il mio paracadute quando perdo la terra sotto i piedi, quando penso che forse sarebbe stato meglio seguire una linea retta, senza perdersi tra innumerevoli andate e ritorni, quando sono stanca, la sera, o come adesso basta poco ad abbattere ogni difesa, a contrastare tutto l’impegno del mio scontro quotidiano.

Non so cosa speravo di trovare nella poesia delle due linee. Non so cosa immaginavo di trovare in quei versi. Forse un punto di riferimento, forse un incoraggiamento ad andare avanti, sempre e comunque, lungo una linea, che di certo non è retta, ma almeno è la mia. Forse qualcuno che, pur non sapendo nulla, mi incoraggiasse ad aspettare che la mia, di direzione, torni attuale, come tutte le cose che hanno fondamento, a restare costante nelle mie abitudini, a non cambiare orientamento perché anche questa erranza geografica ed emotiva sia, sempre e comunque, la strada più breve tra i miei due punti.

Soundtrack: 24-25, Kings of Convenience

Image © Mario Cala, maestro elementare di Parabita

Notturno italiano

“Questo libro, oltre che un’insonnia, è un viaggio. L’insonnia appartiene a chi ha scritto il libro, il viaggio a chi lo fece”. Questa è una delle più belle epigrafi della letteratura italiana, utilizzata da Antonio Tabucchi per introdurre il suo Notturno Indiano, romanzo pubblicato nel 1984 e premiato tre anni dopo con il Prix Médicis Etranger.

In Notturno Indiano, il narratore parte in India alla ricerca di Xavier, da Bombay a Goa, passando per Madras e Mangalore. Il protagonista si reca in Asia senza alcuna esperienza del continente indiano, dopo aver letto solo qualche guida essenziale alla sopravvivenza in India ma, come riferisce Tabucchi in persona, “il vero pregio di quel piccolo romanzo consiste nell’inconsapevolezza di quel viaggio”, nell’aver evitato, forse volontariamente, di documentarsi, di studiare un itinerario, di interpretare usi e costumi prima di ritrovarseli di fronte. Per Tabucchi, il viaggio è quello che succede nelle “alonature del possibile”, è quello che accade ma potrebbe non accadere, o essere diverso. Viaggiare è ritrovare un luogo che fa parte anche un po’ di noi: “in qualche modo, senza saperlo, ce lo portavamo dentro e un giorno, per caso, ci siamo arrivati”.

Qualche anno fa, per caso, io sono arrivata a Perugia, al festival del giornalismo, dove, seduta sulle mura del centro storico con un nugolo di nuovi amici, mi sono imbattuta in Tabucchi, grazie ai consigli letterari di un amico, con il quale continuiamo a essere spacciatori di libri e titoli, l’uno per l’altra. Segnai nome e titoli sull’agenda e, il giorno dopo, nell’attesa del pullman per tornare a Lecce, andai a riempirmi lo zaino di libri, iniziando con Autobiografie altrui. Pensavo fosse il titolo adatto per cominciare a conoscere Tabucchi, erano tempi in cui m’interessavo di scrittori migranti, di identità al confine, di autori che si sentono a casa in più linguaggi. Non è cambiato poi tanto da allora.

Oggi, altrettanto per caso, o per una serie di contrarietà, sono a Padova, da poco più di due mesi. In pochissimo tempo, la mia vita è cambiata radicalmente e, spesso, ho l’illusione di credere che la svolta sia stata in positivo. Come dire, contrarietà sì, ma, per riprendere Tabucchi in Viaggi e altri viaggi, “nella vita ci sono contrarietà che sono provvidenziali”.

bootsy_holler

waiting for a sign

Sono qui a prendere treni, intrecciare contatti, volare da una città all’altra del Veneto, e non solo, fedele alla convinzione che, se avessi già rinunciato a trovare quello che mi fa sentire viva, me ne sarei tornata a casa, senza pretese e altre velleità. Invece, resto in movimento, sebbene creda che questo sia l’ennesimo periodo di passaggio, che io non sia destinata a restare e che l’iperattività sia solo il mio personale antidoto contro l’ignoto che, come diceva Tabucchi, non è prendere un aereo per andare lontano, ma restare in “quel pozzo d’immobilità in una giornata passata a pensare senza muoversi di casa, guardando un muro senza vederlo”.

In poche parole, dove voglio arrivare lo so già, mi serve solo una conferma. Per quanto stupido possa sembrare, sto cercando un segno, anche minimo. Ne intravedo nelle persone incontrate per caso, nei ragazzi che negli ultimi giorni mi hanno dato un passaggio in auto e che, a un’età poco canonica secondo i più, hanno abbandonato una strada per prenderne un’altra. “Non mi piaceva e ho cambiato”, sembra semplice, no? Resto in posizione d’attesa, con la presunzione che, alla fine, si può stare bene, sentirsi finalmente se stessi, anche e soprattutto “nei frattempi”, in quei momenti interstiziali tra un’era e l’altra dell’esistenza.

Eppure, come Pereira, non mi sento rassicurata e mi capita di provare una grande nostalgia, per una vita passata e per una vita futura. Spesso mi capita di pensare che sto dove non dovrei stare e, a volte, ho perfino nostalgia di casa, “il che è evidentemente una sciocchezza, da quelle parti non sono mai stato uno stimato sciovinista”. Sarà che i momenti di pausa, in tutti i contesti, non mi sono mai piaciuti e che ho sempre preferito andare da qualche parte, anche senza sapere esattamente la destinazione.

E allora, dato che anche io detesto i poemi ciclici, procedo per approssimazioni, mi avvicino gradualmente all’idea di me che ho in testa. Continuo a viaggiare, perché, come diceva Fernando Pessoa, scrittore portoghese, musa e ossessione di Tabucchi, per viaggiare basta esistere: “passo di giorno in giorno come di stazione in stazione, nel treno del mio corpo, o nel mio destino, affacciato sulle strade e sulle piazze, sui gesti e sui volti, sempre uguali e sempre diversi come in fondo sono i paesaggi.”

L’esistenza stessa “è un viaggio sperimentale fatto involontariamente”, da attraversare senza documentarsi troppo, lasciando spazio per imprevisti e sorprese e senza svelarsi troppo in anticipo il finale. 

Image © Bootsy Holler

Soundtrack: How It Ended, The Drums