“Questo libro, oltre che un’insonnia, è un viaggio. L’insonnia appartiene a chi ha scritto il libro, il viaggio a chi lo fece”. Questa è una delle più belle epigrafi della letteratura italiana, utilizzata da Antonio Tabucchi per introdurre il suo Notturno Indiano, romanzo pubblicato nel 1984 e premiato tre anni dopo con il Prix Médicis Etranger.
In Notturno Indiano, il narratore parte in India alla ricerca di Xavier, da Bombay a Goa, passando per Madras e Mangalore. Il protagonista si reca in Asia senza alcuna esperienza del continente indiano, dopo aver letto solo qualche guida essenziale alla sopravvivenza in India ma, come riferisce Tabucchi in persona, “il vero pregio di quel piccolo romanzo consiste nell’inconsapevolezza di quel viaggio”, nell’aver evitato, forse volontariamente, di documentarsi, di studiare un itinerario, di interpretare usi e costumi prima di ritrovarseli di fronte. Per Tabucchi, il viaggio è quello che succede nelle “alonature del possibile”, è quello che accade ma potrebbe non accadere, o essere diverso. Viaggiare è ritrovare un luogo che fa parte anche un po’ di noi: “in qualche modo, senza saperlo, ce lo portavamo dentro e un giorno, per caso, ci siamo arrivati”.
Qualche anno fa, per caso, io sono arrivata a Perugia, al festival del giornalismo, dove, seduta sulle mura del centro storico con un nugolo di nuovi amici, mi sono imbattuta in Tabucchi, grazie ai consigli letterari di un amico, con il quale continuiamo a essere spacciatori di libri e titoli, l’uno per l’altra. Segnai nome e titoli sull’agenda e, il giorno dopo, nell’attesa del pullman per tornare a Lecce, andai a riempirmi lo zaino di libri, iniziando con Autobiografie altrui. Pensavo fosse il titolo adatto per cominciare a conoscere Tabucchi, erano tempi in cui m’interessavo di scrittori migranti, di identità al confine, di autori che si sentono a casa in più linguaggi. Non è cambiato poi tanto da allora.
Oggi, altrettanto per caso, o per una serie di contrarietà, sono a Padova, da poco più di due mesi. In pochissimo tempo, la mia vita è cambiata radicalmente e, spesso, ho l’illusione di credere che la svolta sia stata in positivo. Come dire, contrarietà sì, ma, per riprendere Tabucchi in Viaggi e altri viaggi, “nella vita ci sono contrarietà che sono provvidenziali”.
Sono qui a prendere treni, intrecciare contatti, volare da una città all’altra del Veneto, e non solo, fedele alla convinzione che, se avessi già rinunciato a trovare quello che mi fa sentire viva, me ne sarei tornata a casa, senza pretese e altre velleità. Invece, resto in movimento, sebbene creda che questo sia l’ennesimo periodo di passaggio, che io non sia destinata a restare e che l’iperattività sia solo il mio personale antidoto contro l’ignoto che, come diceva Tabucchi, non è prendere un aereo per andare lontano, ma restare in “quel pozzo d’immobilità in una giornata passata a pensare senza muoversi di casa, guardando un muro senza vederlo”.
In poche parole, dove voglio arrivare lo so già, mi serve solo una conferma. Per quanto stupido possa sembrare, sto cercando un segno, anche minimo. Ne intravedo nelle persone incontrate per caso, nei ragazzi che negli ultimi giorni mi hanno dato un passaggio in auto e che, a un’età poco canonica secondo i più, hanno abbandonato una strada per prenderne un’altra. “Non mi piaceva e ho cambiato”, sembra semplice, no? Resto in posizione d’attesa, con la presunzione che, alla fine, si può stare bene, sentirsi finalmente se stessi, anche e soprattutto “nei frattempi”, in quei momenti interstiziali tra un’era e l’altra dell’esistenza.
Eppure, come Pereira, non mi sento rassicurata e mi capita di provare una grande nostalgia, per una vita passata e per una vita futura. Spesso mi capita di pensare che sto dove non dovrei stare e, a volte, ho perfino nostalgia di casa, “il che è evidentemente una sciocchezza, da quelle parti non sono mai stato uno stimato sciovinista”. Sarà che i momenti di pausa, in tutti i contesti, non mi sono mai piaciuti e che ho sempre preferito andare da qualche parte, anche senza sapere esattamente la destinazione.
E allora, dato che anche io detesto i poemi ciclici, procedo per approssimazioni, mi avvicino gradualmente all’idea di me che ho in testa. Continuo a viaggiare, perché, come diceva Fernando Pessoa, scrittore portoghese, musa e ossessione di Tabucchi, per viaggiare basta esistere: “passo di giorno in giorno come di stazione in stazione, nel treno del mio corpo, o nel mio destino, affacciato sulle strade e sulle piazze, sui gesti e sui volti, sempre uguali e sempre diversi come in fondo sono i paesaggi.”
L’esistenza stessa “è un viaggio sperimentale fatto involontariamente”, da attraversare senza documentarsi troppo, lasciando spazio per imprevisti e sorprese e senza svelarsi troppo in anticipo il finale.
Image © Bootsy Holler
Soundtrack: How It Ended, The Drums
Cara V.,
pensa che conosco poco Tabucchi. L’unica esperienza che ho avuto con lui è in una libreria di Lucca, alla ricerca di un po’ di aria condizionata. Ho letto un racconto che cercavo da tempo: Any where out of the world, lo conosci? Fa parte della raccolta “Piccoli equivoci senza importanza”. Leggendoti credo proprio che sia il tipo di lettura che possa fare al caso tuo. Quando dici che lo sai, che l’hai capito dove andare, e che forse devi solo metterlo a fuoco, che hai bisogni di questi “spazi bianchi” per concederti un po’ di altra vita, sai, ti ammiro. Ricerca sono le cose che amiamo? Stare nelle cose che ci fanno sentire bene? E per il lavoro come si fa? Come conciliare ciò che amiamo, ciò con cui vorremmo passare la giornata, il tempo, la vita, con i soldi, con la possibilità di esistere? Insomma, tante domande. Lo so, non sei un oracolo, ma mi pare che tu sia molto saggia, perlomeno cerchi, ricerchi, inciampi e vivi tanto. E questa è certamente la chiave. Ti abbraccio. I.
Cara Ilaria,
sì, ne ho sentito parlare di quel racconto, ma è ancora nella mia lista delle cose da leggere, che diventa sempre più lunga.
Sai, saggia è proprio l’ultimo aggettivo che userei per me, soprattutto in questo periodo. Ma è vero che continuo a cercare, anche inciampando, andando a dare un’occhiata, imbattendomi in strade sbagliate. Non lo so se è la cosa giusta ma mi piace pensare che posso ancora avere la vita che ho sognato di avere, delle giornate piene, delle attività stimolanti, posso ancora dirmi “questo non mi piace e allora lo cambio” o pensare di poter raggiungere un traguardo. Non ti nascondo che a volte ho un po’ di paura, ma, proprio come dice Tabucchi, mi farebbe più paura la prospettiva di uno sguardo vuoto, fisso a un muro, di giornate immobili, di noia senza via d’uscita. E anche questi “spazi bianchi” mi pesano, li riempio, faccio di tutto perché non siano solo semplici “pause di riflessione”, espressione e concetto che ho sempre detestato.
Come andrà a finire? L’incertezza fa parte del gioco, a quanto ho capito.
Grazie delle tue parole Ilaria, sono davvero preziose.
Alla prossima.
V.
Adoro la tua scrittura! E adesso ho anche voglia di leggere Tabucchi!
Grazie per esserti fermata a leggere e del tuo commento, Sabrina!
Ognuno arriva ai libri e agli autori attraverso percorsi tutti personali.
Che dire…sono lieta di averti condotto fino a Tabucchi.
Alla prossima!
V.