New room, new home, New York City

Da Manhattan a Brooklyn, trasloco veloce e indolore, dai palazzi di vetro ai sobborghi della Grande Mela. I marciapiedi si allargano e i tetti si abbassano, scompaiono i taxi gialli. Il mio corre sul ponte di Brooklyn, si lascia alle spalle Manhattan. Si spegne Times Square e saluta Midtown.

Direzione il quartiere di Williamsburg, annunciato dal ponte che attraversa l’East River. New York rallenta il ritmo, riprende il respiro. Gli accenti portoricani convivono con i riccioli ebrei e le felpe della The North Face abbinate a cappucci calati sugli occhi. Le ruote frenano a Lorimer street.

Metto i piedi a terra. Chiudo anche io la porta, mi butto sul letto e guardo il soffitto della mia nuova ennesima stanza. Sposto lo sguardo un poco più oltre, guardo fuori dalla finestra, scivolo sugli alti e bassi dei grattacieli di Manhattan, che si arrampicano fino al quinto piano, ammiccano da lontano nella notte e quasi si nascondono durante il giorno tra le tende e la nebbia che affolla il cielo di una New York appena sveglia. Rispondo con un sorriso idiota all’Empire State Building che si affaccia nella mia stanza.

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Sono a casa. Di nuovo. Sul soffitto altre forme. Dalla finestra altri rumori, mai sentiti.

Tutti i traslochi e le case di questo strampalato 2011, le valigie sempre piene, da fare e disfare ogni mese, i taxi che non si fermano, i nodi in gola e quelli che alla fine sono venuti al pettine, gli sbuffi degli autoctoni pigri, i “can you repeat, please?”, i “j’ai pas compris”, le lacrime, le metro perse e quelle sbagliate, le etichette ambigue dei surgelati e le facce incredule davanti alle sedicenti marche italiane ai supermercati, le notti bianche, i portafogli rubati, la nostalgia banalissima del caffè e della pizza, le parole che non avrei mai voluto sentire e quelle scappate per sempre, le indicazioni incomprensibili e i marciapiedi ricoperti di ghiaccio.

Mi è bastato alzare gli occhi e guardare il soffitto per non sentirmi più stanca di tutto questo. Vederci un’altra vita che prendeva forma. Non più solo quella vecchia che ritornava insistente. Non più ricordi. O perlomeno non solo. Immaginarmi altre strade che ancora non ho attraversato. Le porte ancora da schiudersi. Gli indirizzi che imparerò a memoria. Le mani da stringere e i nomi da ricordare. Una nuova metropolitana da decifrare. Una geografia tutta da scoprire.

Niente mi è sembrato più faticoso al pensiero di poter avere sempre nuove stanze. E nuovi soffitti.

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Affacciandomi sull’East River, alla fine ho deciso di dare una chance a questa città: è troppo grande e troppo bella per lasciarle lo spazio di un paragone, per concederle solo le pause tra una nostalgia e un interrogativo. E ha la sola colpa di andare troppo veloce, di essere troppo sfuggente per poterla afferrare al primo colpo.

Sono in una città che si dilata. Ad ogni passo sembra espandersi sempre più. Si allarga e si allunga, rimanda ad atre altezze, ad altri ponti. Sembra infinita, come l’oceano che l’abbraccia. Le strade s’intrecciano formando un reticolato di numeri che si srotola lungo tutta Manhattan e continua a diradarsi in ogni direzione.

Come se tutto dovesse moltiplicarsi e imporsi, per sopravvivere alla velocità.

Ho deciso di attraversare il ponte e lasciarmi stupire, senza cercare a tutti i costi di comprendere. Solo per il gusto di perdermi in questa fitta rete di strade e verticali. Di lasciare che questa avventura, cominciata a due passi dai ribelli più famosi di tutto il mondo, provi a rivoluzionare le mie giornate.

E dal ponte di Williamsburg non è difficile dire addio a tutto il resto. O almeno un arrivederci.

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