Un amore a fumetti

“Vivono, quasi.

Un po’ trasparenti, questo sì,

per di più non conoscono più la speranza

che è il più malvagio dei supplizi

non hanno il dolore

non hanno ospedali, funerali, cimiteri, tombe.

Gente fortunata, no?”

copertina

“Capita nella vita di fare cose che piacciono senza riserve, cose che vengono su dai visceri, Poema a fumetti è per me una di queste”.

Il romanzo a fumetti di Dino Buzzati è stato irreperibile per decenni nelle librerie. E, offuscato dalla malinconia del suo narrare, è rimasto nascosto anche il lato fumettista di uno scrittore che troppo spesso viene ricordato solo come l’autore de Il deserto dei Tartari.

Scritto e illustrato dallo stesso Buzzati nel 1968, Poema a fumetti esce per i tipi di Mondadori nel 1969 e viene premiato come “Miglior fumetto dell’anno” da Paese Sera. E pensare che l’autore avrebbe voluto consegnarlo direttamente ai posteri, avendo pregato la moglie Almerina di affidarlo alla casa editrice solo dopo la sua morte. Pioniere del romanzo per immagini, in anticipo sui tempi, Buzzati si rivela specchio della sua epoca, esplicitamente contaminato dalle invenzioni della Pop-Art, che aveva conosciuto durante i suoi due viaggi a New York, dalle suggestioni letterarie degli anni Sessanta, mescolando nei tratti geometrici delle sue architetture e sulle curve delle sue donne tutte le sue passioni, dal surrealismo alla metafisica.

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All’epoca in cui passare dal romanzo alla graphic novel non era ancora una scelta alla moda, Buzzati lascia a bocca aperta il salotto intellettuale italiano, tratteggiando un’irriverente versione del mito di Orfeo ed Euridice, ambientato in una Milano onirica e fumosa.

Valentina scattava le sue prime fotografie, i primi numeri di Linus comparivano nei chioschi, qualcuno cominciava a sospettare della sinuosa coppia Diabolik-Eva Kant, ma di certo nessuno avrebbe immaginato che Buzzati avesse nel cassetto una fantasia a fumetti, intrisa di surreale visionarietà, dallo spirito un po’ dark, inquieto, sognante.

Buzzati si rivela immaginifico architetto del surreale, azzarda una libera riscrittura del mito intrecciandola alle più tipiche angosce contemporanee, mettendo in scena un Ade postmoderno: Orfi, annoiato rampollo milanese, idolo canoro delle figlie della Milano bene degli anni Sessanta, scende negli inferi della città, alla ricerca della sua Eura. Qui, le anime dell’inferno di Buzzati rimpiangono la “perduta angoscia” che era la “bellezza, la luce, il sale della vita”, ma sono intrappolate nella “povera pace eterna” di chi è condannato a un’esistenza grigia e senza fine. “Rimpianto è la malattia del posto”. Ricordare la peggiore condanna. Le stelle hanno luce fissa. Il cielo non palpita più. La notte non cela più misteri.

“Dico: ma qui che cosa vi manca? Quasi niente. Da qualche tempo hanno messo perfino la tv a colori. Però manca il più importante: la libertà di morire.”

“La cara morte”, questo doveva essere il titolo originale del poema a fumetti di Buzzati, che alla fine assume le sembianze di un vero e proprio inno alla vita, quella vera, fatta di tremori e angosce quotidiane, quei dubbi e quelle stesse paure che fanno battere il cuore.

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“Oh la perduta angoscia, gli incubi, l’angustia, i dolori sociali perduti. Tutti sani, qui, uguali, appagati. Cara infelicità!”.

“Non è spaventoso tutto questo, la vita il lavoro i soldi il successo l’amore?”

Poche parole questa volta. Per alcune sensazioni quelle giuste ancora non le ho trovate.

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Dino Buzzati e il suo bulldog Cicci

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Morire per amore è bello, ma stupido

Irene ha 24 anni, studia antropologia all’École de Hautes Études en Sciences Sociales a Parigi e vive nel decimo arrondissement della città. Gioca qualche volta a pallavolo, lavora poche ore in una cartoleria, collabora con un’associazione di volontariato per le donne colpite da cancro al seno, si ferma a guardare da vicino i barboni di Parigi. Lei stessa ha dovuto farsi asportare un seno, “per assomigliare di più alle amazzoni”. I suoi obiettivi sono tre: realizzare un reportage a fumetti sui clochard a Parigi, diventare protagonista di un fumetto e suicidarsi. Un progetto che propone agli stessi autori Ruppert & Mulot, durante una sessione di dediche in una libreria in città. E i due rifiutano. È da questo fumetto nel fumetto, da questa sequenza metanarrativa che prende il via la storia, divisa in capitoli, di “Irene e i clochard”.

suicidio

“L’amore romantico è stato inventato per manipolare le donne”

“Un giorno dovrei mettermi a girare per strada con una pistola per far fuori tutti quelli con una faccia poco convincente”, si dice Irene, schivando le facce meschine dei parigini annoiati. Innamorata di Naïma, giornalista di Libération, Irene non riesce a liberarsi del disincanto, del pessimismo, dell’indifferenza che la accompagna e che lei stessa considera tra le migliori armi personali. Seduta sul divano del suo monolocale, davanti al cielo di Parigi, immagina di capitolare dal balcone, di mollare anche l’ultimo ormeggio che continua a tenerla legata a terra. Impastoiata in una vita metropolitana che ha perso ormai ogni luccichio, angosciata dalle conversazioni di chi le sta intorno, cammina portandosi dietro una katana, per uccidere, almeno nella testa, chi intavola discussioni arroganti, si sofferma su argomenti banali, la sua amante, che non è innamorata di lei ma ci esce lo stesso insieme anche se le sue amiche di Versailles “scopano meglio”. Un climax di violenza costante, a volte triviale, se non splatter, ma sempre effimero, instabile, in equilibrio tra comicità e disperazione.

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Intanto Irene si lascia trasportare dalla città, continua ad andare a letto con Naïma, perché senza anche quel minimo sussulto la vita sarebbe forse uguale a quella dei suoi clochard, in pieno sfacelo psico-emotivo. Si lascia andare a un’aggressività repressa, fin troppo riconoscibile e familiare, facendo affiorare un lato oscuro, che, sulla carta, diventa estremamente realistico e struggente. Sopravvive in un sentire acuto, come carne viva, afflitta da una realtà che vive di vita propria e della quale si ritrova spesso a essere semplice spettatrice, sfiancata da Parigi, dai suoi tentacoli di ferro, dall’inerzia delle sue strade e dal suo lancinante anonimato.

“L’indifferenza e la menzogna sono potenti armi personali”

Il tratto del disegno è nervoso, quasi asincronico, leggerissimo, senza alcuna campitura e la predominanza del bianco sulla pagina è solo un’illusione. Il disegno è una trama di linee nere che intessono la polifonia dei tetti di Parigi, le facciate liberty dei palazzi, il frontone barocco delle stazioni. Ma non solo, la traiettoria di una mosca sulle pareti, i volti confusi della noia in metropolitana, la scenografia di una Parigi muta e indifferente, che scorre via quasi senza far rumore. Jérôme Mulot, in un’intervista, ha parlato di “ligne claire fragile”, una linea labile e sottile, sincopata, quasi una trasposizione per matite dell’essenza di Irene.

Le sequenze sono precise, i movimenti esatti, senza alcun orpello o dettaglio ornamentale, lo stesso tratto fragile delimita corpi e palazzi, arti umani e strade, ancora una volta nel tentativo di annientare l’introspezione e la carica emotiva e affidare tutto all’essenzialità dell’azione e del movimento. Il volto in sé non esiste, al suo posto un anonimo accento circonflesso trionfa sull’ovale di ogni personaggio, per annullare la mimica facciale e sfuggire all’identificazione del lettore a tutti i costi. Come già avevano fatto nei loro libri precedenti, Ruppert e Mulot veicolano l’interiorità dei personaggi attraverso le azioni, la gestualità, lo slancio essenziale di un movimento, come in un intenso behaviorismo a fumetti.

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“Il disgusto è la risposta appropriata alla maggior parte delle situazioni”

“Irène et les clochards” è stato pubblicato in Francia nel 2009 dalla casa editrice indipendente L’Association, la stessa di Marjane Satrapi e David B. Florent Ruppert e Jérôme Mulot sono i due autori, presenti in una sequenza del fumetto, probabilmente in un episodio realmente accaduto della propria vita. Cammei improvvisi in tutte le loro storie, fantasmi privati messi su carta, Ruppert e Mulot non hanno rinunciato ad avere la loro parte anche nella vita di Irene. I due, rispettivamente classe 1979 e 1981, si conoscono all’École nationale supérieure d’arts di Dijon e iniziano a lavorare insieme dal 2002. Il loro sito è una miniera di piccoli tesori a fumetti, dai fenachistoscopi ispirati a Muybridge ai “Petits accidents sur commande“, incidenti mortali à la carte, realizzati dalla coppia su richiesta dei lettori che hanno inviato loro descrizione del bersaglio e morte desiderata.

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“A una certa età, gli ideali vengono rimpiazzati da obiettivi convenzionali”

Mi sono imbattuta la prima volta in Irene per caso, restando folgorata dalla sua figura che sorvola la città di Parigi, tratti bianchi su sfondo nero, con una katana in mano. Quell’immagine mi ha fatto compagnia per tanto tempo, senza sapere da dove venisse fuori, finché non me la sono ritrovata davanti sullo stand di Canicola Edizioni, associazione culturale e casa editrice di fumetti con sede a Bologna, durante l’edizione 2013 del Festival Lucca Comics & Games, al quale mi ci sono trovata sempre per puro caso. Prima di ritornare a Parigi, a seguire anche io traiettorie incerte e un sogno sempre più vicino allo sfacelo. Ma senza katane.

Il risveglio di Irene sul sito di Ruppert & Mulot.

Di interviste, fantascienza e meschinità

La prima volta che ho guardato negli occhi Dora e Raniero, protagonisti dell’ultimo album di Manuele Fior, è stato a Parigi, in un pomeriggio di pioggia a Gare de l’Est. Erano ancora spalmati sulle tavole, in attesa di essere impaginati, stampati e recapitati nelle librerie francesi e italiane. All’epoca il titolo era uno solo, “L’Intervista” (Coconino Press), pensato per rimanere in italiano anche nella versione francese, e la trama era un groviglio di fantasticherie che si sono animate in libertà nella mia testa, dopo l’intervista, quella vera, con Manuele Fior.

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È una storia di fantascienza”, raccontava, “che non ha nulla a che vedere con la mia vita”. “L’Intervista” è ambientato nell’Italia del 2048, in un futuro prossimo dove, in seguito ai moti del 2021, il paese ha subito la “disunificazione” e gli adolescenti delle ultime generazioni non sanno cosa sia una matita o un compasso, adepti della Nuova Convenzione, che “si basa sul principio di non esclusività emotiva e sessuale”. Una promiscuità discreta e comunemente accettata, che continua a turbare le menti più tradizionali ma sembra fatta apposta per salvaguardare dal male di vivere e dall’abisso dell’abbandono, che invece pare assediare Raniero.

Raniero, vittima di un incidente e di strane allucinazioni, e di un matrimonio caduto nelle grinfie della quotidianità più feroce, porta in giro la sua faccia rassegnata, con “l’aria di uno che soffre parecchio… ed è convinto per questo di meritarsi qualcosa”. “Perseguitato dal disgusto”, teme di intravedere in Dora, una delle sue pazienti, seguace della Nuova Convenzione e incapace di essere gelosa, una via d’uscita, fin troppo piacevole, alla sua grigia routine.

Voglio scoprire anche io, come un semplice lettore, come andrà a finire la storia“, aveva dichiarato Fior nella nostra intervista, “lasciarmi portare dai personaggi e seguirli“, raccontandomi di non avere alcun piano, alcuna trama in mente all’inizio di ogni bozza, ma solo il desiderio di creare un’opera di fantascienza, che, inevitabilmente, si è mescolata ai suoi temi ricorrenti: l’amore, la difficoltà di restare sulla stessa linea, senza un secondo, o più, di distanza. “Ho pensato molto ad Antonioni“, ha rivelato Fior ad un giornale francese, indicando come “La Notte”, con una splendida Monica Vitti, eroina romantica di un dramma borghese, l’abbia ispirato non poco.

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Abbandonati gli acquarelli di “Cinquemila chilometri al secondo”, Manuele Fior si perde in un chiaroscuro di ombre e tratti morbidi, in una fantasia di grigi e bianchi sfumati, tra un nero indeciso e un avorio timido, come un ritratto vintage di un futuro distopico, come una fotografia degli anni ’60 spedita nello spazio e nel tempo, quasi cento anni dopo.

Tra sinuosità umane e geometrie aliene, sul nero delle pagine de “L’Intervista” si stagliano finestre improvvise spalancate su un centro storico blindato, i fari delle auto nella notte, inattesi triangoli disegnati nel cielo, sintomo che una nuova era è vicina. La luce come forza creatrice di nuove forme inattese, come ne “La Guerra dei Mondi” di Steven Spielberg, pellicola che ha ispirato Fior, insieme a tutto il filone classico della fantascienza, da Asimov a Orwell.

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Le tinte chiaroscurali, le sfumature del bianco e nero, raccontano un futuro prossimo ma intriso di mistero, dove l’umanità sembra decisa a semplificare ogni complicazione sentimentale, puntando alla trasparenza coatta, alla chiarezza ultima.

Nelle pagine finali dell’album, tale eccesso di franchezza diventa radicale e tutti i personaggi possono leggere nella mente altrui. Sembra di trovarsi davanti allo stadio evolutivo ultimo dell’essere umano, in cui bipedi previdenti hanno imparato a salvaguardarsi dai soprusi delle emozioni, dai nodi in gola della gelosia, dal male acuto del fallimento, sviluppando un nuovo istinto di sopravvivenza e rinunciando una volta per tutte alle emozioni dell’amore. E alle sue meschinità.

 

Gonzo: una biografia di Hunter S. Thompson

“No More Games. No More Bombs. No More Walking. No More Fun. No More Swimming. 67. That is 17 years past 50. 17 more than I needed or wanted. Boring. I am always bitchy. No Fun – for anybody. 67. You are getting Greedy. Act your old age. Relax – This won’t hurt.”

Questo è quanto ha scritto Hunter S. Thompson prima di sparire a tutta velocità dalla terra e lasciare a quanti sono rimasti a guardarlo dal basso un’eredità e un mito difficili da gestire e comprendere.

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Dopo l’epopea cinematografica e il rosario di pamphlet e scritti, nel 2011, Will Bingley e l’illustratore Anthony Hope-Smith danno vita alla prima graphic novel biografica su Hunter S. Thompson, radicale e inconsapevole apripista di quel gonzo journalism, ramo estremo del New Journalism che ha poi visto tra i suoi cultori anche Truman Capote e Tom Wolfe.

Le prime immagini sembrano confermare la forza scenica del mito. Hunter S. Thompson, il fuorilegge, l’alcolista, il giornalista scapestrato, il maledetto. Un’immagine di successo che ha trovato perfetto compimento nell’interpretazione di Johnny Depp in “Fear and Loathing in Las Vegas” e nell’ultimo “The Rum Diary”.

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Le prime recensioni dai lettori d’oltreoceano, tuttavia, stroncano il libro: poca aderenza alla realtà, estrema caratterizzazione del personaggio, un elogio del mito più che della persona. La storia sembra appiattita tra aneddoti, curiosità e un inevitabile abuso di alcool e droga, con il rischio di fare del gonzo journalism una sorta di scrittura automatica che sgorga dal pugno dopo tre birre.

Non è improbabile che gli autori siano stati vittime di un certo timore reverenziale nei confronti di un mito. Così come Thompson, nel suo tentativo di sgretolare l’oggettività giornalistica attraverso un uso altro del linguaggio, era terribilmente a disagio con alcune specifiche parole, “the big ones”, come Felicità, Amore, da evitare o, al limite, manipolare con cautela.

La volontà degli autori era quella di liberarsi dai limiti di uno stereotipo che ha colonizzato la figura di Thompson, ma spesso la storia pare inciampare in facili cliché, rivelandosi una contestualizzazione storica di un mito.

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Alan Rinzler, tra i migliori editor e strettissimo collaboratore del gonzo journalist, non manca di ricordare nella prefazione come la forza espressiva della scrittura di Thompson sia stata dimenticata a favore di una mitologia quasi adolescenziale. Il suo intervento è il vero squarcio dello stereotipo e mette a nudo Thomspon, descrivendone i blocchi dello scrittore, il carattere spigoloso e scostante, la difficoltà produttiva. Un eroe del giornalismo analizzato e decostruito anche nei suoi squallori e nelle sue infime bassezze quotidiane.

Tutti conoscono the big Hunter. Ma quanti l’hanno davvero letto? Da “Hell’s Angels”, studio etnografico sulle orde di centauri che attraversavano l’America intrisi di alcool e anarchia, a “Generation of Swine”, racconto ossessivo della degradazione del potere negli anni Ottanta, da “Fear and Loathing: On the Campaign Trail 72″, cronaca caustica della campagna elettorale statunitense del ’72, all’ultimo “Kingdom of Fear”, resoconto delle vicende politiche del secolo scorso, per andare oltre lo stereotipo del Dottor Gonzo, non resta che aprire uno dei suoi libri e perdersi nella sua scrittura altalenante, vertiginosa, visionaria e, tuttavia, inevitabilmente attaccata alla realtà.

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Nonostante ciò, il libro contiene numerose citazioni dalle sue opere e può essere un ottimo punto di partenza per addentrarsi nell’universo del gonzo journalist per eccellenza e, perché no, lasciarsene affascinare. Anche grazie al tratto di Hope-Smith, che si discosta per scelta dall’espressionismo di Ralph Steadman, per un disegno realista e più aderente al genere biografico, basato su un meticoloso lavoro di studio a partire da immagini, foto e documentari.

“Some may never live, but the crazy never die.” -H. S. Thompson-

Qui, il booktrailer della graphic novel pubblicata da SelfMadeHero.

Soundtrack: Piece of my heart, Janis Joplin

Israele a fumetti

Se fosse stato il semplice resoconto di un viaggio, probabilmente 60 giorni, in 200 pagine, non sarebbero bastati. Ma il viaggio di Sarah Glidden, autrice di “Capire Israele in 60 giorni (e anche meno)”, scava in profondità, ritorna in superficie, plana su dubbi, convenzioni e preconcetti. A ogni passo, esercita il diritto al dubbio, il rifiuto della propaganda acritica, ma anche la messa in discussione dei suoi stessi pregiudizi contro un paese che tutti conoscono solo attraverso il filtro della stampa.

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L’album, entrato direttamente nella classifica delle migliori 10 graphic novel del 2010 e pubblicato da Rizzoli Lizard nel 2011, è il primo libro di Glidden, classe 1980, ebrea americana di Brooklyn, e racconta la sua esperienza a ritroso nel tempo e nello spazio, alla ricerca delle proprie origini e della storia del suo popolo. A 26 anni, infatti, Sarah decide di partecipare al programma Taglit, una sorta di viaggio-studio, finanziato dagli ebrei di tutto il mondo, perché i più giovani possano visitare Israele e vedere da vicino le tappe del popolo eletto.

ISRAELE COME UNA CELEBRITY. Scegliendo di parlare in prima persona, come hanno fatto prima di lei grandi del fumetto autobiografico, da Marjane Satrapi a Joe Sacco fino ad Art Spiegelman, Glidden approccia la storia confrontando la versione israeliana della situazione al suo punto di vista personale, alle sue letture, rifiutando ogni sorta di propaganda e facile retorica. Ogni capitolo è introdotto da una mappa dell’area visitata e, a fine album, a completare le informazioni ci sono un piccolo glossario e una breve cronologia del conflitto israelo-palestinese, per decifrare più facilmente la storia del paese. Perché visitare Israele, scrive Sarah, “è come avvistare una celebrità in una strada affollata, qualcuno la cui vita folle ce la ritroviamo sempre sbattuta in prima pagina sui giornali, e poi alla fine è là, proprio di fronte a noi”.

LA SCONFITTA DEI BEDUINI. Il viaggio inizia dalle alture del Golan, il maestoso altopiano situato ai confini tra Giordania, Libano, Siria e Israele, tra i territori più contesi dell’area israeliana. La terra, vista fuori dal finestrino, appare come un piano susseguirsi di campi, tutti non edificabili per via delle centinaia di mine anti-uomo disperse. L’autobus trasporta il lettore di scoperta in scoperta, dal Lago di Tiberiade ai tanti kibbutz sperduti nelle campagne, dall’incontro con i soldati israeliani, giovanissimi e quasi inconsapevoli, al campo dei beduini nel deserto del Negev, nella parte meridionale dello stato d’Israele, una distesa di sabbia che occupa più della metà del paese stesso. Qui, la calma apparente delle dune dissimula una delle storie più tristi di Israele, quella dei beduini, la cui sconfitta, considerata ormai a livello internazionale come un fatto compiuto, non desta più interesse. Un tempo signori del deserto, dopo l’indipendenza di Israele, nel 1948, i beduini furono espulsi o confinati nel 2% del loro antico territorio, senza diritti sulla terra, acqua ed energia elettrica. Così oggi, per non soccombere alla miseria, guidano le caravane di turisti lungo i luoghi della loro sconfitta. “Per lo stato di Israele, siamo erbacce da sradicare”, conclude la guida.

QUELLO ZIO IMPAZZITO. “Ho sempre pensato di essere progressista, questo vorrebbe dire che sono anti-Israele”, rimugina Sarah, “ma sono ebrea, quindi dovrei sostenere il mio stato, invece sono pro-Palestina”. Lentamente, ogni convenzione sembra allentare le redini, ogni etichetta cancellarsi e svanire nel grande caos finale di Gerusalemme, della sua città vecchia dalle tre anime, cristiana, araba ed ebrea, dove i minareti si confondono con le stelle di David e le stazioni della via crucis, i bazar profumano di spezie e incenso sacro e i copricapi sono di tutte le forme e dimensioni. “Essere a Gerusalemme è un po’ come essere a New York o a Parigi”, ha dichiarato Glidden in un’intervista, “ci si sente al centro del mondo, si ha voglia di restare, inventarsi qualcosa per cambiare la realtà, ma sono fantasie un po’ ingenue, e anche un po’ egoiste”. Si finisce per non farsi più le stesse domande, per non cercare più risposte forse, per accettare le contraddizioni di un paese per quelle che sono. Come Sarah, che alla fine del viaggio, resta semplicemente a guardare. “Alcuni di noi vedono Israele come un povero zio impazzito… sul quale abbiamo ormai perso ogni controllo, ma del cui comportamento siamo in qualche modo responsabili, e rigettarlo pubblicamente sarebbe come sbandierare la vergogna della nostra famiglia”.

 

Qui la recensione pubblicata su OggiViaggi.

Pesche a colazione

Zelda era libri contemporanei che parlavano di lei, come Il diavolo dagli occhi blu di Michael Muhammad Knight, o canzoni pop come Being Boring dei Pet Shop Boys, continuava a ispirare scrittori, musicisti, registi, ultimo Woody Allen con Midnight in Paris”. Fino ad arrivare a lei, Tiziana Lo Porto, giornalista, traduttrice, instancabile cercatrice di piccole perle letterarie, musicali e cinematografiche che dispensa sul web, e autrice, insieme a Daniele Marotta, della graphic novel Superzelda, edita da Minimum Fax, sulla vita della signora Fitzgerald.

Con Daniele ci siamo ritrovati a recensire a fumetti un romanzo che parlava proprio di Zelda, Alabama Song di Gilles Leroy, e la possibilità di raccontarne la vita a fumetti c’è sembrata reale, fascinosa e praticabile. Così è nato Superzelda, prima il titolo, poi tutto il resto”.

© Tiziana Lo Porto e Daniele Marotta

Tratteggiata con l’ausilio dell’indaco, come fosse una variazione sul tema del bianco e nero, la vita di Zelda Fitzgerald inizia con un album di famiglia e una culla ricoperta da un velo, dove dorme Zelda Sayre, nata il 24 luglio del 1900 a Montgomery, in Alabama, sotto il segno della letteratura, con un nome ispirato alle eroine di due romanzi. Al chiaro di una luna del Sud, molle e focosa, che “mentre dorme diventa più grande”, Zelda cresce libera e spigliata, naso dritto, occhi azzurri e bicchiere di gin in mano.

Una maschietta che “vive soltanto della spuma in cima alla bottiglia“.

© Tiziana Lo Porto e Daniele Marotta

“Il teatro, la letteratura, la musica e il cinema. Sono il lavoro che faccio, dieci e più ore al giorno. A volte anche la notte. Contaminano la mia vita, il giorno e la notte, e sì, ogni tanto m’appaiono anche in sogno, ma non potrebbe essere altrimenti”, racconta Tiziana, che in libreria custodisce i disegni di Robert Crumb, il suo fumettista preferito, insieme a quelli di Phoebe Gloeckner

Con Daniele, abbiamo lavorato in stato di grazia, continuamente affascinati da quello che andavamo scoprendo su Zelda. Lei ha vissuto la sua vita con leggerezza, è passata lieve anche attraverso la malattia, i continui ricoveri e poi la morte di Scott. Le tragedie a volte non le puoi schivare, si tratta solo di decidere come attraversarle”, continua. “Zelda non ha mai smesso di essere Zelda. Che cosa farebbe oggi? Direbbe cose fascinosissime e brillanti, probabilmente nei social network o in tv, vestirebbe senza seguire nessuna moda e farebbe innamorare tutti non per la sua bellezza”.

© Tiziana Lo Porto e Daniele Marotta

La Bella del Sud incontra il luogotenente Francis Scott Fitzgerald ad un ballo. I due finiscono per innamorarsi perdutamente l’uno dell’altra. “Amo talmente quest’uomo e mi sento così vicina a lui, che inizio a distorcerne l’immagine, come quando ci si avvicina a uno specchio e ci si scrutano gli occhi”, confesserà Zelda. Il matrimonio si affaccia come un pensiero con cui bisogna fare i conti, uno spauracchio per una Zelda che non vuole vivere, ma solo “amare e poi incidentalmente vivere”, che non vuole che Scott la veda invecchiare, ma desidera fare suo quest’uomo diverso da tutti gli altri prototipi di marito, “un amante ardente e momentaneo, abbastanza saggio da capire quando è finita e che deve finire”.

© Tiziana Lo Porto e Daniele Marotta

Scott e Zelda si sposano il 3 aprile 1920 a New York.

I coniugi Fitzgerald attraversano l’Europa e l’America, travolgendo ogni grand hotel in cui posano le valigie, trascinandosi dietro i merletti di Parigi e la polvere dei secoli di Roma, innamorandosi ogni giorno di più. Stringono le mani di Dorothy ParkerPablo PicassoErnest Hemingway, passando di coupé in coupé, viaggiando con il vento tra i capelli e il profumo di gin sulle labbra, sognando di pesche a colazione e facendo di se stessi i personaggi dei loro romanzi. Nel 1922, esce Belli e dannati, di Francis Scott Fitzgerald. Zelda diventa il prototipo della maschietta, irriverente e desiderata, una donna che “ricava più felicità dall’essere gaia, spensierata, anticonformista, padrona del proprio destino, che da una carriera che richieda duro lavoro, pessimismo intellettuale e solitudine”.

© Tiziana Lo Porto e Daniele Marotta

Le pagine si rincorrono, colorandosi di follia, polvere di stelle, rimpianti, alcool e lettere d’amore. Zelda ama Scott e Scott ama Zelda ma “la vita procede indipendentemente dalle nostre intenzioni”, si dirà un triste Francis incapace di negare che qualcosa si è rotto nella sua storia d’amore. Zelda tenta il suicidio più volte mentre Scott si rifugia nella letteratura, nutrendosi di finzione e ricordi. “Si ha nostalgia delle loro nostalgie come abbiamo nostalgia delle nostre”, commenta Tiziana, “e di quei momenti in cui hai tutte le possibilità davanti e la sfrontatezza di fare del presente gli anni migliori della tua vita”.

© Tiziana Lo Porto e Daniele Marotta

Tutte le immagini © Tiziana Lo Porto e Daniele Marotta

“Pyongyang”: incubo coreano a fumetti

“Potrebbe essere un racconto di fantascienza, se solo la Corea del Nord non esistesse davvero”. Più un reportage che una storia a fumetti, “Pyongyang” è un perfetto esempio di graphic journalism. Meno serio della Palestina di Joe Sacco, più inquietante della Persepolis di Marjane Satrapi, “Pyongyang”, album del fumettista canadese Guy Delisle, uscito in Francia nel 2003, ripubblicato in Italia lo scorso marzo dalla Rizzoli Lizard, è un vero e proprio ritratto, dall’interno, di una nazione chiusa a doppia mandata su se stessa.

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Residente a Pyongyang per due mesi, inserito in una squadra di disegnatori a lavoro su un cartone animato francese, Delisle tocca con mano la vita quotidiana dei nordcoreani, le loro paure e ipocrisie, le abitudini e le stravaganze. E, dai suoi appunti notturni, ricostruisce per immagini cosa vuol dire vivere nella dittatura del “Presidente eterno”, nella bugia di un paese considerato, insieme all’Afghanistan, il più corrotto del mondo.

LE LACRIME PER IL PRESIDENTE. A metà tra “Fahrenheit 451” e “1984”, Delisle utilizza l’arma del grottesco per far digerire al lettore l’oppressiva realtà di un regime totalitario. Sì perché quello che più inquieta non è la presenza dei ritratti del presidente su ogni superficie della nazione, dalle bluse degli uomini alle classi nelle scuole, non è neppure la completa disinformazione su quanto succede fuori e dentro i confini nordcoreani, ma è la partecipazione attiva, e positiva, del popolo a questa grande menzogna, il coinvolgimento emotivo dei sudditi, incapaci di trattenere le lacrime al cospetto di una statua a grandezza naturale del Presidente Eterno. Il ritmo delle pagine è magistralmente dosato, ma il tempo cola lento, tra visite obbligatorie ai monumenti del regime e provvide fughe presso le comunità occidentali in Corea, oasi di “normalità” in un paese in cui tutto sembra andare al contrario, compresi i suoi abitanti, che si dilettano a camminare all’indietro. “Varie ed eventuali: Non si può far nulla da soli: la presenza della guida o dell’interprete è necessaria in ogni genere di situazione. Mance: vietate. Mai fare dello humour sul grande leader o sul corpo dirigente. Portare rispetto”.

UNA FRONTIERA ANCHE MENTALE. Lo stesso scoppiettare di gag sembra subire l’effetto plumbeo della permanenza a Pyongyang. Il grigiume della vita contamina l’autore e, pagina dopo pagina, si dirada un affresco grottesco di un paese che mantiene la maggior parte della sua popolazione in condizioni di indigenza, ignoranza e ricatto psicologico. I nordcoreani appaiono come congelati in un’epoca senza passato né futuro, in un asfittico presente anchilosato dalla vita di regime. Il cordone militare che racchiude la Corea del Nord si fa frontiera mentale, annientando la libera curiosità dei suoi cittadini.

p4Il culto di Kim Il-Sung, eletto “presidente eterno” dopo la sua morte, e del figlio Kim Jong-il, il “caro leader”, è impressionante soprattutto tra i più semplici, che hanno bisogno di un visto per poter attraversare due villaggi e ai quali si nega anche l’elemosina di un sacco di riso. E qui la stessa presenza di Delisle è una denuncia, quella contro un Occidente che critica l’abietta dittatura ma non esita a delocalizzare in Corea del Nord, ormai preferita alla Cina, pur di approfittare di una produzione a bassissimi costi.

LA PAURA DEI CAMPI. A metà del racconto, Delisle non può fare a meno di chiedersi se i nordcoreani credano davvero alle stupidaggini della propaganda di regime. Ma il dubbio si scontra con la triste realtà, quella della paura di finire in uno dei tanti campi di rieducazione sparsi per la nazione. Si preferisce, quindi, vivere in uno stato paradossale in cui la verità è cangiante, adattabile secondo le circostanze, sempre e comunque prostrata al regime. La Corea del Nord è avvolta dalla membrana fagocitante della dittatura, tanto che poco o nulla traspare del suo paesaggio, dei vasti spazi, della natura, che fa capolino brevemente, anch’essa, sembrerebbe, sottoposta a censura. Le pagine si chiudono su un aeroplano di carta lanciato dalla finestra, unica evasione concessa, unico strappo alla regola in un paese dove anche i bambini ridono previo ordine.

Qui l’articolo pubblicato su OggiViaggi.

How Now Brown Cow

Words do not express thoughts very well, everything immediately becomes a little different, a little distorted, a little foolish”.

Nao Brown è quella che chiamano “hafu”, metà inglese e metà giapponese. Illustratrice, amante dei manga, vittima di disturbi ossessivo-compulsivi, che mette a tacere con un paio di cuffie e una serie di mantra recitati a memoria, imparati al tempio buddista del centro di Londra. Ed è anche la protagonista di The Nao of Brown, ultima graphic novel atterrata sul mio comodino.

Di ritorno da Tokyo, dopo un soggiorno complicato con il padre alcolista, Nao cerca di conciliare le sue aspirazioni da illustratrice con la routine da commessa in un negozio di giocattoli, e trattenere il respiro quando il suo disturbo ossessivo-compulsivo torna a spingerla all’improvviso sull’orlo del baratro, costringendola a immaginare di uccidere un bambino, di trafiggere il suo maestro di meditazione con una penna, di strangolare l’autista del taxi, di aprire la porta di sicurezza dell’aereo e lasciar volare via tutti i passeggeri.

“I get awful thoughts… that just hit me… like a fucking hammer to the head”.

E quando non è impegnata a chiudere a chiave il cassetto dei coltelli, a tenere a bada i pensieri omicidi, a controllare le maniglie delle porte, Nao disegna. La matita che scivola sul foglio sembra esserle di sollievo fino a quando non s’imbatte in  Gregory, un bizzarro operaio del servizio lavatrici, un gigantesco barbuto che assomiglia a un personaggio della sua serie manga preferita, con un’inclinazione irreprimibile alle pinte di birra e alle citazioni colte.

Gregory diventa una nuova ossessione, ancora più insopprimibile quando i due intrecciano una relazione maldestra, scomoda, goffa, ma viscerale, portando in superficie l’uno i segreti dell’altro, spingendosi fino a farsi male, per comprendere, alla fine, che bene e male non esistono in valore assoluto, ma sono solo frutto di un pensiero, di una convenzione, di manicheismi stantii in vigore da sempre.

Glyn Dillon, classe 1971, inglese, figlio e fratello d’illustratori, ha mosso i primi passi nel fumetto sulla rivista del fratello maggiore, Steve, Deadline, sorta di icona degli anni ’90 grazie alla serie DC Comics Vertigo. Glyn, ospite d’onore nelle sceneggiature di amici illustratori tra cui Neil Gaiman, per il quale ha disegnato un episodio di Sandman, ha poi attraversato circa 15 anni di tregua, dedicandosi al cinema e alla televisione, prima di tornare al fumetto con The Nao of Brown, pubblicato dalla casa editrice indipendente londinese SelfMadeHero e premiato all’ultima edizione del Festival di Angoulême.

Nel suo blog, Dillon ha raccontato la convivenza quotidiana con la storia di Nao, con i pensieri e le turbe della sua protagonista. Un racconto sempre più diluito fino a svanire, quando il fumetto ha preso il sopravvento sul suo autore e lo stesso Glyn è finito in ospedale per una crisi di nervi e per un forte dolore alla mano, per via dell’inquietudine del disegno e della colorazione. Quello che era iniziato come un side-project nel 2008, un lavoro da completare nel tempo libero, era diventata un’ossessione, al punto tale da costringerlo al ricovero dopo due settimane dalla fine del lavoro.

Gli stessi cambiamenti di colore rispecchiano il nervosismo del tratto. La storia reale si sfuma nell’acquerello mentre il racconto parallelo di Ichi, ispirato alle fantasie di Moebius e Miyazaki, che si srotola lungo tutto l’album, ha i tratti precisi e i toni esatti del digitale, come se il colore deciso di Photoshop volesse supportare il sogno e l’acquerello realizzato a mano addolcire la realtà. I grigi blu delle strade londinesi sembrano scontrarsi nel rosso acceso degli interni, dei vestiti di Nao, nel nero intenso dei suoi capelli e nei colori squillanti dei giocattoli del negozio dove lavora.

La dolcezza degli acquerelli, la morbidezza del tratto è però solo un’illusione, una cornice alla storia, intensa e perturbante, ai personaggi, spigolosi e imprevedibili, alle spinose ruminazioni di Nao. Lo stesso finale, accelerato, intenso, in medias res, è un pugno nello stomaco, cui segue un calmo ma vibrante epilogo.

Alla fine, nulla sopravvive al disincanto. E, nel turbinio di colori, prende forma la consapevolezza di come sia solo un’illusione pensare che tutto sia soltanto nero o bianco. E di come i sogni, anche quando si realizzano, non possano fare a meno di essere imperfetti.