“L’ingresso in stato di ebbrezza è severamente proibito e l’utilizzo delle docce non è consentito oltre i venti minuti”. È quanto si legge all’ingresso dei 16 stabilimenti di docce municipali sparsi per la città di Parigi. Nati nel 19simo secolo, per affiancare le prime piscine comunali, i cosiddetti “bains-douches” sono oggi diventati la sala da bagno di senzatetto, pensionati in difficoltà e sempre più lavoratori poveri e precari.
Joëlle, 58 anni, lavora da dieci anni presso la struttura di rue de la Bidassoa, nel 20simo distretto, tra gli stabilimenti più piccoli della città, con 30 cabine, che tuttavia conta tra le 250 e le 300 docce giornaliere. Da quando Jean Tiberi, ex sindaco di Parigi, ne ha reso l’accesso gratuito, nel mese di marzo del 2000, gli utenti delle docce municipali sono triplicati. Conseguenza immaginabile in una città le cui condizioni di vita non accennano alcun miglioramento, e i cui affitti salgono a vista d’occhio. “Ogni cliente è una storia”, racconta Joëlle, spiegando come siano in tanti ad attardarsi una volta finita la doccia per condividere malumori e miserie quotidiani. “I più numerosi sono gli anziani del quartiere, sui 70 anni, che di solito vivono in appartamenti minuscoli, con il bagno sul corridoio, sprovvisti di doccia, o ne hanno una talmente piccola da aver paura di entrarci dentro da soli”. Accanto a lei, sempre in rue de la Bidassoa, lavora Daniel, stessa età, stessi occhi stanchi a fine giornata: “spesso ci si riscalda per un nulla, per un bagnoschiuma finito, si arriva alle mani, o ai coltelli”, racconta, “prima erano solo gli abitanti del quartiere a frequentare l’edificio, oggi arrivano da ogni angolo del mondo”.
È come se la clientela delle docce pubbliche parigine rispecchiasse l’attualità: dopo le rivolte sono aumentati i turchi, gli afghani, i siriani e, con la crisi, si cominciano a vedere più studenti e lavoratori, con un tetto sulla testa, ma senza uno stipendio che permetta loro di pagarsi l’acqua calda. Mohammed, 65 anni, sigaretta già pronta tra le mani, scivola via dall’uscita, presso i bains-douches di rue des Pyrénées. “Vengo qui da 2 anni”, racconta, “ho il mio appartamento, ma il mio proprietario si rifiuta di riparare l’impianto idrico e non mi rimane che venire qui, purtroppo”.
“I bains-douches sono lo specchio dell’attualità, con sei mesi di scarto”
La capitale francese conta tra le 900.000 e un milione di docce all’anno, il triplo rispetto ai dati registrati un decennio fa. Tuttavia, secondo Patrick Leclère, responsabile della direzione per la Gioventù e lo Sport della città di Parigi, le ragioni di tale aumento non sono da ricercare nelle difficoltà economiche ma nella gratuità dei servizi. “La crisi non è la causa, ma è soprattutto una conseguenza”, afferma, come se il passaggio dal servizio pagante a quello gratuito fosse da intendersi come un segno dei tempi che cambiano. Nonostante la democratizzazione dell’abitudine, le docce pubbliche sono ancora frequentate per lo più da uomini, che costituiscono il 75% della clientela, e i due terzi degli utenti sono senzatetto. “La popolazione dei bains-douches è uno specchio dell’attualità, con sei mesi di scarto”, afferma Leclère, “se scoppia una rivolta in un paese vicino, qualche settimana o qualche mese più tardi, gli effetti sono chiaramente visibili nelle docce municipali di Parigi”.
E Leclère non parla solo di immigrazione, ma anche di smottamenti finanziari, pur con qualche riserva. “Penso che gli effetti della crisi a Parigi siano molto attenuati, i poveri sono sempre esistiti, così come le abitazioni senza acqua corrente e senza docce”, continua, “la grande causa dell’aumento degli utenti è semplicemente l’evoluzione della società: anche senza la crisi i bains-douches sarebbero pieni e, se fossimo in piena espansione economica, attireremmo stranieri da ogni parte del mondo, che avrebbero sicuramente fatto la prima doccia in una struttura municipale”.
I nuovi poveri di Parigi
Lo stesso aumento di beneficiari si riscontra nella distribuzione di cibo, a cura delle numerose associazioni umanitarie operanti a Parigi. E Olivier Raynaud, coordinatore dell’associazione umanitaria Une Chorba pour tous, attiva sin dal 1982, sembra fare eco all’opinione di Leclère. “Siamo i testimoni diretti dell’attualità”, racconta, “aiutiamo soggetti in grosse difficoltà economiche, quindi è difficile interrogarli sulle loro condizioni”, tuttavia occhi abituati a servire pasti caldi al freddo da più di vent’anni riconoscono che tipo di mani sono quelle che chiedono una zuppa a Stalingrad, nel nord della città, tra i quartieri più disagiati di Parigi, dove ogni sera sono distribuiti tra i 300 e i 600 pasti caldi. “Serviamo per lo più senzatetto o giovani che sono appena sbarcati in città e hanno serie difficoltà nell’integrarsi”. Sono differenti, invece, i volti che si presentano alla distribuzione dei pacchi: “si tratta di famiglie o dei cosiddetti lavoratori poveri, persone tra i 40 e i 45 anni, che con un semplice stipendio non arrivano alla fine del mese”. Solo nell’ultimo trimestre del 2012, su 362 pacchi distribuiti, 200 sono finiti nelle mani di minori.
Poco più a nord, in un grigio prefabbricato nascosto nelle pieghe di Porte de la Villette, quartiere marginale di Parigi, ogni sabato e domenica, inizia alle 10 e 45 minuti, la distribuzione dei pasti a cura dell’associazione L’un est l’autre, nata dieci anni fa, che offre circa 600 coperti ai tanti che fanno la coda dietro la porta già dalle 9 e mezza del mattino. “Noi li chiamiamo i nostri ospiti”, dichiara Jean-Paul Lapeyre, co-fondatore dell’associazione, “sono persone che hanno guadagni modesti che non permettono loro di pagare vitto e alloggio”, continua, “e, siccome è più importante avere un tetto e conservare così la propria vita sociale, sono in molti a fare economia nel cibo, scegliendo di fare la fila per una manciata di cous-cous, una banana, un po’ di cioccolata, ma soprattutto un’accoglienza umana”. Scopo dell’associazione è differenziarsi dalle altre che operano sul territorio parigino, offrendo cibo di qualità, senza richiedere documenti, facendo quella che, in gergo, si chiama “distribuzione incondizionata”. In ogni caso, non ce ne sarebbe il tempo: dall’apertura delle porte, il traffico di vassoi, richieste, lamentele, sorrisi, è talmente veloce da non poter permettere alcun controllo. “Abbiamo assistito a un’evoluzione numerica dei nostri ospiti: dai 7000 pasti all’anno degli inizi ai 60.000 attuali”, racconta Lapeyre, “e, inevitabilmente, siamo il riflesso dei conflitti mondiali, delle ondate di immigrazione di persone che cercano un eldorado che non esiste, accogliamo le persone anziane in difficoltà ma anche sempre più lavoratori poveri, che costituiscono circa il 15% della popolazione, soprattutto a partire dal 2007”.
“Non esistono grandi città senza migrazioni e senza persone che vanno in cerca di fortuna”, conclude Patrick Leclère, “e il ruolo della città di Parigi è offrire alla popolazione in difficoltà un servizio di igiene, assicurando dal punto di vista tecnico e umano la prima delle dignità: quella della pulizia personale e del sostentamento”. Tuttavia, è facile immaginare la tensione quando fare la fila per una mezza baguette diventa intollerabile e aspettare il proprio turno per venti minuti d’acqua calda un lusso quotidiano. Una routine che sembra quasi incisa nel dna della città. È per questo, forse, che, bussando alle porte delle mense popolari o affacciandosi con discrezione all’ingresso delle docce municipali, ci si rende conto che la povertà, al di là della crisi, sembra essere un elemento intrinseco alla natura stessa delle metropoli, più o meno evidente, a seconda delle congiunture socio-economiche, ma sempre presente, presso le bocche della metropolitana, in un prefabbricato di periferia, o nelle pieghe di una camicia più sgualcita del solito.
Per saperne di più: il web-documentario realizzato da France24
Qui il link all’estratto pubblicato da Lettera43.it