Sulla strada

Qualche mese fa, di ritorno a Parigi, ho finalmente svuotato lo zaino che mi sono trascinata dietro per tutto l’ultimo anno. Sono partita dalla Francia lo scorso gennaio, diretta in Veneto. A marzo mi sono trasferita al settimo piano di un palazzo a Milano Sud, ma tornando ogni lunedì sera in quel di Piazza Napoli a Padova per il mio corso di teatro. A fine giugno sono sbarcata nel Basso Salento e sono ripartita a settembre, destinazione Grecia, poi Portogallo, Francia e infine una breve e onirica parentesi americana.

Ho passato un anno a incontrare nuovi amici, chi in classe, tornando dietro i banchi di scuola, il sabato e la domenica, chi in teatro, altri talmente fugaci che probabilmente non rivedrò mai più. Una lunga serie di arrivederci e partenze, mesi interi trascorsi nel reame ben familiare della temporaneità e del precariato esistenziale. A ripensarci, non vedevo l’ora di svuotare lo zaino, di usarlo solo per fare la spesa, almeno per un po’, di smettere di cercare casa, di poter fare progetti con respiro più ampio di un singolo trimestre. Allo stesso tempo, non mi sono mai sentita così bene e così libera. Per un po’, mi sono rifiutata di portarmi dietro qualsiasi tipo di fardello, lasciavo a casa anche la borsa, rimettendomi alla capacità delle tasche del mio cappotto.

GLORIA STEINEM

Per questo, quando a ottobre sono tornata a casa a Montmartre, ho svuotato lo zaino, ho riposto i libri, ho sistemato i vestiti nell’armadio, una volta per tutte, è come se qualcosa si fosse spezzato. A Pasadena, alla libreria Distant Lands, paradiso dei viaggiatori, avevo acquistato On Vagabonding, un vademecum per inguaribili nomadi, per sopravvivere alle urgenze pratiche e alla nostalgia, per portarsi dietro lo stretto necessario e prepararsi alle prossime partenze. L’ho conservato sullo scaffale più alto, rassegnandomi a qualche anno di sedentarietà, a mettere da parte le zingarate, la terra che manca sotto i piedi, quella strana sensazione di familiarità e di casa che si prova a sedersi da soli al tavolino di un bar. Ho cominciato a guardare con diffidenza ai libri di viaggio, come se d’ora in poi potessero solo farmi sentire inadeguata.

Così è stato anche quando ho preso in mano My Life on the Road, le memorie autobiografiche di Gloria Steinem, libro che per tutto il mese di gennaio, almeno a Parigi, è stato introvabile, grazie all’intervento di Emma Watson e del suo club letterario Our Shared Shelf. Attivista, giornalista e autrice, classe 1934, di recente alla ribalta per un intervento improbabile sulle presunte motivazioni delle supporter di Bernie Sanders, Gloria Steinem ha passato almeno cinquant’anni della sua vita attraversando gli Stati Uniti, sostenendo la causa dei diritti delle donne e organizzando conferenze, convegni, campagne, incontri studenteschi e soprattutto quelli che lei chiama “talking circles“, occasioni di dialogo in cui, come nelle assemble dei Nativi Americani o delle donne indiane, ci si siede in cerchio e si comincia a parlare, “tra le forme più efficienti di democrazia esistenti al mondo”.

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My Life on the Road racconta l’inizio dei suoi viaggi da quando, in camper insieme al padre, a pochi anni, senza aver mai messo piede in una scuola, lo accompagnava a smerciare antichità agli antiquari del MidWest. Racconta di come un medico le ha cambiato la vita, accettando di praticarle un aborto a 22 anni e permettendole di partire per l’India e iniziare un nuovo capitolo della sua esistenza. Di come lentamente, dall’essere una scrittrice nella sua torre d’avorio, si sia trasformata in una attivista in grado di parlare davanti a platee di migliaia di persone. Di come viaggiare l’abbia tenuta in vita e continui a farlo, insegnandole giorno dopo giorno a parlare con gli sconosciuti, ad ascoltarli, a far incontrare le persone, a organizzarle e aiutarle a far sentire la propria voce.

Ho sempre sostenuto, insieme a Maeve Brennan, che sentirsi a casa fosse uno stato d’animo. Che ci si può ritrovare anche in un posto in cui si mette piede per la prima volta, al tavolo di un caffè quando si arriva in anticipo in stazione, tra le braccia di qualcuno, in un’altra nazione, in riva all’oceano in Bretagna o in Portogallo. Gloria Steinem ci mostra come anche il viaggio possa diventare uno stato mentale, che in qualsiasi momento si può cominciare a vivere “in un on-the-road state of mind, senza andare alla ricerca di quello che ci è più familiare, ma restando aperti e ricettivi a quello che arriva. L’avventura può cominciare nel momento esatto in cui si chiude la porta di casa”. Come l’improvvisazione di un musicista jazz, come un surfista alla ricerca dell’onda, come un gabbiano che vola sulla corrente del vento. “Una dipendenza al viaggio, alla strada, può esistere dappertutto”, scrive Steinem. La rivoluzione inizia ascoltando gli altri, costringendosi a vivere nel presente, nell’immediato, come quando si è in viaggio e ogni coordinata spazio-temporale sembra ridursi al qui e ora.

Seguire Gloria nei suoi racconti è stato un succedersi di epifanie, di improvvise rivelazioni, di quei momenti in cui lasci il libro sulle ginocchia e resti dieci secondi con gli occhi incollati al muro. Insieme alle storie di Steinem, ci sono poi anche quelle di Florynce Kennedy, attivista afro-americana, della straordinaria Wilma Mankiller, prima donna eletta capo della regione Cherokee negli Stati Uniti, e poi i viaggi di suo padre, il suo improbabile senso degli affari, e la depressione di sua madre, pioniera del giornalismo d’inchiesta, che ha abbandonato il lavoro e il mondo esterno per seguire i sogni di suo marito, l’infanzia delle sue figlie e gli alti e bassi del suo umore. E ancora le coraggiose battaglie degli Indiani d’America nelle riserve, nelle scuole che ne vogliono cancellare la lingua, le tradizioni, la cultura.

Ogni storia individuale diventa di interesse generale. Nelle pagine di Gloria si succedono nazionalità, accenti, mestieri, facce, tutte con la propria esistenza. Come ribadivano le femministe nostrane negli anni Settanta, il personale è politico, e il più delle volte va raccontato in prima persona. E l’effetto collaterale di questo libro è stato anche quello di ricordarmi quale scrittura preferisco, quella dove ci sono io, a parlare, a registrare, illustrare la realtà secondo il mio punto di vista. E che forse a questa scrittura dovrei dedicarmici un po’ di più.

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Ma la parte più bella è il ritorno di Gloria. La costruzione di una casa, dove finalmente sparpaglia i suoi appunti per terra, conserva i libri in una biblioteca, uno spazio dove invitare gli amici, un indirizzo a cui raggiungerla facilmente, ma soprattutto la scoperta che essere domiciliata in un posto non le avrebbe impedito di viaggiare. Realizzare finalmente che non è necessario scegliere una vita polarizzata, o dentro o fuori, che, nonostante si sia nati di sesso femminile, non si è sempre costretti a un’alternativa, ma si possono avere entrambe le esistenze, il calore di un luogo al cui tornare e l’ebbrezza del viaggio, anzi “l’atto più rivoluzionario per una donna sarebbe tornare dai suoi viaggi e trovare tutto il conforto della sua famiglia“, restando libera di ripartire.

“Molto prima che nascessero queste divisioni tra la casa e la strada, tra il posto di una donna e il mondo dell’uomo, gli esseri umani seguivano i raccolti, le stagioni, viaggiando con le proprie famiglie, i nostri compagni, i nostri animali, le nostre tende. Costruivamo tende e ci spostavamo da un posto all’altro. Questo modo di viaggiare e di vivere è ancora scritto nella memoria delle nostre cellule”. Si può fare una tenda e poi smontarla e ripartire, e decidere in corso d’opera quanto tempo starci, un mese, un anno, tutta la vita. “Mio padre non avrebbe dovuto passare la vita da solo, vendendo porta a porta antichità, solo per la gioia di essere in viaggio. Mia madre non avrebbe dovuto abbandonare la sua strada per restare a casa. Nessuno dovrebbe farlo. Nemmeno io. Nemmeno tu”.

Con questo articolo, inizia una serie di appuntamenti mensili, considerazioni, spunti e riflessioni sui libri suggeriti dal club letterario di Emma Watson, al quale consiglio vivamente di aderire. Alla prossima, con Il colore viola di Alice Walker. 

Soundtrack: 4 Non Blondes, Spaceman 

 

 

Le città invisibili

Le descrizioni di città visitate da Marco Polo avevano questa dote: che ci si poteva girare in mezzo col pensiero, perdercisi, fermarsi a prendere il fresco, o scappare via di corsa.

Succede spesso di andare lontano per smaltire un carico troppo ingombrante di nostalgia, come il Marco Polo di Italo Calvino. Di riuscire a realizzare quanto buio c’è tutto intorno solo aguzzando la vista sulle fioche luci lontane. Partire quasi per abitudine, per inerzia, per inseguire un desiderio che non ha forma, se non quella astratta e vaga del cambiamento, della svolta, il colore mai visto di una pagina bianca, ma non vuota.

Puntare il dito sul mappamondo e scegliere una nuova destinazione, solo per avere la possibilità di scappare via di corsa, di cambiare identità, immaginare una nuova vita, di godere del privilegio di sentirsi straniero e del caldo abbraccio del ritorno a casa.

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Viaggiando ci s’accorge che le differenze si perdono: ogni città va somigliando a tutte le città, i luoghi si scambiano forma ordine distanze, un pulviscolo informe invade i continenti.

Può succedere anche di impregnarsi di quell’abitudine di paragonare le città, di ritrovarle, una nell’altra, di riconoscerne schemi, meccanismi, patologie. Di parlare di una mentre ci si ricorda di un’altra. E a volte, all’estremo di quest’insana mania, si finisce per vivere altrove, pur continuando a ritrovarsi in un vecchio appartamento di qualche tempo fa. “Tutto è mio, niente mi appartiene, nessuna proprietà per la memoria, mio finché guardo”, scriveva Wislawa Szymborska, “Parigi dal Louvre fino all’unghia si vela d’una cateratta. Del boulevard Saint-Martin restano scalini e vanno in dissolvenza.”

Una dissolvenza che continua, fino ad avvolgere tutto l’orizzonte, fino a creare una città invisibile, dove ci si muove, ci si sposta, si cammina, in una dimensione spazio-temporale altra, sconosciuta. Risalendo la rue Saint-Eleuthère, che dalle scale della Basilica del Sacro-Cuore porta alla Place du Tertre, se ci si ricorda di guardare a sinistra, lontana, nascosta tra la bruma del mattino, si scorge la Tour Eiffel. Seguendo la rue Caulaincourt, tra un caffè e una boulangerie, si aprono affacci improvvisi sulla città di Parigi, sulle mansarde, sulle mani alzate dei comignoli, sulla distesa di tetti grigi, sulle cupole dorate in lontananza. Cosa è reale e cosa non lo è?

Non riconosco nulla, eppure niente è estraneo, ricordo a memoria i nomi delle strade, i colori delle insegne dei negozi, le canzoni dei musicisti sulla rue Norvins. Come una città invisibile, Parigi ha un altro nome e un’altra forma, deriva la sua figura dal deserto a cui si oppone, dalla risposta che ha dato, finalmente, alle mie domande, al cambiamento, giunto all’improvviso, una mattina americana come tante.

È delle città come dei sogni: tutto l’immaginabile può essere sognato ma anche il sogno più inatteso è un rebus che nasconde un desiderio oppure il suo rovescio, una paura. Le città come i sogni sono costruite di desideri e di paure.

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Parigi non ha indirizzi, non ha strade, non ha fermate della metropolitana. Oggi si compone di desideri e di paure, di entusiasmi ingiustificati, di timore, di meraviglia insignificante, di facce che rivedo per la prima volta. Mi sveglio la mattina senza l’impulso di andare via, di rincorrere quella dissolvenza, senza la voglia di sparire il più presto possibile. Sono esattamente dove dovrei essere, forse.

Come un cambio nell’armadio dei ricordi, ripongo tutto quello che è stato per fare spazio al nuovo, che è arrivato senza chiedere il permesso, senza preavviso. Metto da parte quello che ho accumulato durante anni di viaggi, di domicili incerti, di lettere che continuavano ad arrivare nella buca sbagliata. Mi guardo indietro senza capire bene dove tutto sia cominciato, “per questi porti non saprei tracciare la rotta sulla carta, né fissare la data dell’approdo”, ma riesco ad intravedere una direzione. Un disegno che inizia a formarsi, unendo i puntini, finalmente.

Alle volte mi basta uno scorcio che s’apre nel bel mezzo d’un paesaggio incongruo un affiorare di luci nella nebbia, il dialogo di due passanti che s’incontrano nel viavai, per pensare che da lì metterò assieme pezzo a pezzo la città perfetta, fatta di frammenti mescolati col resto, d’istanti separati da intervalli, di segnali che uno manda e non sa chi li raccoglie. Se ti dico che la città cui tende il mio viaggio è discontinua nello spazio e nel tempo, ora più rada ora più densa, tu non devi credere che si possa smettere di cercarla. Forse mentre noi parliamo sta affiorando sparsa entro i confini del tuo impero.

Images © Thomas Campi

Soundtrack: Cat Power, No Sense

Quotes: Italo Calvino, Le città invisibili

Il rovescio e il diritto

Sbarcato a Praga, senza alcun appoggio, senza l’indirizzo di un hotel in tasca, un conoscente che lo aspetti a casa, pochi soldi nel portafoglio, sperduto nella fredda stazione mitteleuropea, Albert Camus si sente gonfio d’uno strano sentimento di libertà, perché le sue due valigie non pesano ormai più di tanto, il braccio è leggero, il passo veloce. Poco importa della solitudine, della paura di ritrovarsi in un paese sconosciuto, dove anche la lingua, il biglietto del tram, il gusto dei piatti tipici, si ignora, poco importa dell’apatia che sopraggiunge talvolta in quei viaggi solitari, in fondo “ogni paese dove non mi sono annoiato non mi ha mai insegnato niente”.

Camus scrive del suo arrivo a Praga, ma anche delle sue notti algerine, di sua madre silenziosa, della scoperta del sole italiano, dei cafè chantant spagnoli, nel suo primo libro L’envers et l’endroit, letteralmente Il rovescio e il diritto, una raccolta di cinque saggi autobiografici, scritti tra il 1935 e il 1936 e pubblicati nel 1937 ad Algeri, in pochissimi esemplari. Composti a soli 22 anni, rimasti introvabili a lungo, Camus ne ha consentito una nuova edizione solo dopo vent’anni, accompagnandoli con una prefazione, una vera e propria dichiarazione di poetica e di linea di pensiero.

“Nonostante viva adesso senza la preoccupazione del domani, quindi da privilegiato, non sono capace di possedere. Di tutto quello che ho, e che mi è stato offerto senza che io l’abbia cercato, non posso tenere nulla. Non per generosità, ma in virtù d’un’altra specie di parsimonia: sono avaro di quella libertà che sparisce non appena comincia l’eccesso delle proprietà. Il maggiore dei lussi non ha mai cessato di coincidere per me con una certa nudità. […] Non ho mai saputo abbandonarmi a quella che chiamano ‘vita d’interni’ (che spesso si rivela essere l’esatto opposto della vita interiore); la felicità cosiddetta borghese mi annoia e mi spaventa”.

Jusqu’où ira cette nuit où je ne m’appartiens plus ?

L’esperienza, la proprietà, la ricchezza, sono sopravvalutate, scrive Camus. Pochi sanno che, almeno una volta nella vita, bisogna aver perso tutto, restare da soli, andarsene. E offrirsi, ogni tanto, una prospettiva nuova, consentirsi un domani diverso, imprevedibile. La possibilità di perdersi, di fermarsi ad ascoltare il rumore della notte su un marciapiede arabo di Algeri, farsi sconvolgere dalla semplicità della cattiveria, insozzarsi per sempre della crudeltà e dello squallore delle periferie occidentali, la libertà di lasciarsi intimorire, spaventare dall’ignoto, da nuove destinazioni, chiedere alla propria madre “A cosa pensi?”, “A niente”, e sapere che è vero.

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A poco più di vent’anni, Camus intravede già nei caffè e nei giornali un elemento importante del viaggio. Qualche tempo fa, avevo letto in un articolo che l’odore del caffè e quello della carta stampata sono in grado di far sentire a casa chiunque. Fa parte dei trucchi del viaggiatore, quelli che si adoperano per mitigare la solitudine, per rinfrancarsi lo spirito. Ce n’è uno, classico, secondo Camus, quello di fare quattro passi in un museo, a tempo perso, continuare le proprie flânerie tra tele e sculture, per trasformare l’angoscia in malinconia. Trucco collaudato dallo scrittore francese, e tra i preferiti di chi ha vissuto a Parigi, aggiungo io. E poi c’è quello di infilarsi in un bar, di sedersi al bancone e svuotare i pensieri in una tazza di caffè, rifugiarsi in “un luogo”, scrive Camus, “in cui si può tentare di avvicinarsi agli altri, che ci permette di mimare in un gesto familiare l’uomo che eravamo a casa, e che, a distanza, ci sembra uno straniero”.

“Perché il pregio del viaggiare consiste nella paura. Spezza in noi una specie di apparato scenico interno. Non è più possibile barare – mascherarsi dietro ore di ufficio e di cantiere (quelle ore contro cui protestiamo tanto e che ci difendono con tanta sicurezza dalla sofferenza di esser soli). Per questo avrei sempre voglia di scrivere romanzi i cui personaggi dicano: ‘Che sarebbe di me senza le ore di ufficio?’ o anche: ‘Mia moglie è morta, ma per fortuna ho un gran fascio di atti da redigere per domani’. Il viaggio ci toglie questo rifugio. Lontano dai parenti, dalla lingua, strappati a tutti i nostri sostegni, privi delle nostre maschere (non si conoscono le tariffe dei tram ed è tutto così), siamo completamente alla superficie di noi stessi. Ma sentendoci male all’anima, restituiamo ad ogni essere, ad ogni oggetto, il suo valore di miracolo. Una donna che balla senza pensare, una bottiglia sul tavolo intravista dietro una tendina: ogni immagine diventa simbolo.”

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 Tornando a Praga, nelle fredde strade della capitale, Camus ricorda i suoi caldi viaggi in Italia, “terra fatta a immagine e somiglianza della mia anima”, le vigne profumate, le lunghezze dei cipressi, i nodi degli ulivi, l’odore forte dell’albero di fichi, le piazze ricolme d’ombra sotto un sole indifferente, il flauto acuto e tenero delle cicale, il silenzio che nasce dal rincorrersi lento delle giornate. Mettere a fuoco il linguaggio di un orizzonte nuovo, sentire finalmente che si accorda con il nostro, e non perché trovi una risposta alle nostre domande, ma perché queste domande le rende inutili.

Camus rivendica il diritto all’indifferenza, sprezza la ricerca della felicità a tutti i costi e a questa preferisce l’essere cosciente, la presenza a se stessi, il vivere il buono e il cattivo tempo, sperimentare tutto, il rovescio e il diritto di ogni momento, sfuggire il sonno, “avevo voglia d’amare come si ha voglia di piangere”, come qualcosa di forte e naturale, a cui bisogna solo lasciarsi andare. La sua indifferenza, assicura, è molto simile alla compassione, a un’empatia panica con il creato, con la bellezza dei paesaggi, del moto delle onde, del vento tra le spighe di granturco, con l’atteggiamento freddo della natura, che raramente s’accompagna ai moti dell’animo umano e che, proprio per questo, sembra comprenderli tutti.

“Adesso non desidero più di essere felice ma solo d’essere cosciente. Tra questo diritto e questo rovescio del mondo, non voglio più scegliere”.

Soundtrack: Scott Matthews, Myself Again

Images © Emiliano Ponzi

Storie di Procida

“Quelli come te, che hanno due sangui diversi nelle vene, non trovano mai riposo né contentezza; e mentre sono là, vorrebbero trovarsi qua, e appena tornati qua, subito hanno voglia di scappar via. Tu te ne andrai da un luogo all’altro, come se fuggissi di prigione, o corressi in cerca di qualcuno; ma in realtà inseguirai soltanto le sorti diverse che si mischiano nel tuo sangue, perché il tuo sangue è come un animale doppio, è come un cavallo grifone, come una sirena”.

Arturo ha 14 anni e vive sull’isola di Procida. Il sangue misto, incapace di arrestarsi in alcun luogo, è suo padre, Wilhelm, origini tedesche, trapiantato nell’isola napoletana, luogo di infinite partenze e permanenze irrequiete. Procida è una ghirlanda di case colorate. Guardandola da lontano, dal traghetto che porta a Ischia, le barche attraccate al porto, come la Torpediniera delle Antille di Arturo, la banchina con poche sparute persone dall’aria un po’ perduta, appare come un pezzo di terra che non sembra capace di appartenere all’oggi ma è confinata nell’eterno, nel sempre.

L’isola di Arturo è un romanzo di Elsa Morante, ambientato interamente nella dimensione fantastica e atemporale dell’isola. Una storia che racconta la scoperta dell’inquietudine della vita circondata dal mare, della tragicità dell’amore “quello vero, che non ha nessuno scopo e nessuna ragione”, dell’inevitabilità del dolore e della disperazione.

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Unica figura degna d’attenzione, tra tutti i procidani insignificanti, è il padre, Wilhelm, il condottiero valente, l’eroe macedone, un dio, anzi di più, un enigma, dall’espressione altera e indifferente. “Talvolta, un baleno delle segretezze gelose, alle quali i suoi pensieri parevano sempre intenti, passava sul suo viso: per esempio, dei sorrisi rapidi, selvatici e quasi lusingati; o delle lievi smorfie subdole, ingiuriose; o un malumore inaspettato, senza apparente motivo. Per me, che non potevo attribuire, a lui, nessun capriccio umano, il suo broncio era maestoso come l’oscurarsi del giorno, indizio certo di eventi misteriosi, e importanti come la Storia Universale”.

La compagnia di suo padre, intermittente, inaspettata, è un privilegio superbo, al quale Arturo dedica tutta la sua persona, con l’accanimento d’un lavoro meraviglioso, come su per l’albero d’un veliero, come una corsa a perdifiato, dove si segue qualcosa o qualcuno a precipizio, ci si butta giù senza guardare cosa c’è sotto, quando non si ha più contezza dell’oggi e si dimentica il resto del mondo. Per prendersi tutto, prima che anche quell’euforia tramonti e si finisce per ritrovarsi nel letto più grande della casa, ancora vestiti, come un capitano stanco, come Wilhelm, che osservava fuori dalla sua finestra e, dopo tante disavventure, si scopriva ogni volta sorpreso di ritrovarsi sempre solo e soltanto a casa sua, nella stessa stanza di tutti i giorni e meditava idee di fuga. “Luna nuova”, diceva, “con l’aria di dire invece – Sempre la stessa luna. La solita luna di Procida!”.

“E potrai anche trovare qualche compagnia di tuo gusto, fra tanta gente che s’incontra al mondo; però, molto spesso, te ne starai solo. Un sangue misto di rado si trova contento in compagnia: c’è sempre qualcosa che gli fa ombra, ma in realtà è lui che si fa ombra da se stesso, come il ladro e il tesoro, che si fanno ombra uno con l’altro”. 

Avevo dimenticato l’effetto della scrittura di Elsa Morante. Quando vivevo a Lecce, trovai La Storia in una libreria dell’usato e la terminai in pochi giorni. Qualche anno dopo, m’imbattei in Menzogna e Sortilegio, in una casa in affitto, un libro che mi ha letteralmente stregato, al punto da farmi immaginare l’odore di sapone e tessuti conservati negli armadi delle vecchie stanze da letto di Elisa, la protagonista. Ho comprato L’isola di Arturo su consiglio di Salvatore, il padrone di casa dell’antica libreria Ricci di Ischia, una capanna di legno, una piccola oasi di pace tra le vetrine concitate, i tacchi alti delle signore, gli spritz a 7 euro dell’isola. Sono bastate pochissime pagine per ritrovare i periodi assorti, la scrittura sensoriale, un incantesimo d’inchiostro e sogni, che in questo libro ha il profumo di salsedine del Tirreno.

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Sono tornata a casa da qualche giorno, ripiombata in quella sensazione di straniamento, come alla fine di ogni libro, quando si rimane un po’ con le pagine in mano, a tornare indietro, a ritrovare dei passaggi, a cercare di non perdere la magia della scrittura e dell’invenzione fantastica, di restare ancora qualche minuto in quella condizione di sospensione d’incredulità, indispensabile per leggere un romanzo, o per vivere un’illusione. Nella speranza di conservare qualcosa in più della nostalgia, ma la speranza, a volte “indebolisce le coscienze, come un vizio” e non si distingue più la realtà dalla fantasia, finendo per perdere la lucidità e immaginarsi d’essere un pesce qualunque, di ritorno a Procida.

“Io non chiederei di essere un gabbiano, né un delfino; mi accontenterei di essere uno scorfano, ch’è il pesce più brutto del mare, pur di ritrovarmi laggiù, a scherzare in quell’acqua”.

Images © Shout

Soundtrack: Pino Daniele, Je’ so pazzo

Quotes: Elsa Morante, L’isola di Arturo

Notturno italiano

“Questo libro, oltre che un’insonnia, è un viaggio. L’insonnia appartiene a chi ha scritto il libro, il viaggio a chi lo fece”. Questa è una delle più belle epigrafi della letteratura italiana, utilizzata da Antonio Tabucchi per introdurre il suo Notturno Indiano, romanzo pubblicato nel 1984 e premiato tre anni dopo con il Prix Médicis Etranger.

In Notturno Indiano, il narratore parte in India alla ricerca di Xavier, da Bombay a Goa, passando per Madras e Mangalore. Il protagonista si reca in Asia senza alcuna esperienza del continente indiano, dopo aver letto solo qualche guida essenziale alla sopravvivenza in India ma, come riferisce Tabucchi in persona, “il vero pregio di quel piccolo romanzo consiste nell’inconsapevolezza di quel viaggio”, nell’aver evitato, forse volontariamente, di documentarsi, di studiare un itinerario, di interpretare usi e costumi prima di ritrovarseli di fronte. Per Tabucchi, il viaggio è quello che succede nelle “alonature del possibile”, è quello che accade ma potrebbe non accadere, o essere diverso. Viaggiare è ritrovare un luogo che fa parte anche un po’ di noi: “in qualche modo, senza saperlo, ce lo portavamo dentro e un giorno, per caso, ci siamo arrivati”.

Qualche anno fa, per caso, io sono arrivata a Perugia, al festival del giornalismo, dove, seduta sulle mura del centro storico con un nugolo di nuovi amici, mi sono imbattuta in Tabucchi, grazie ai consigli letterari di un amico, con il quale continuiamo a essere spacciatori di libri e titoli, l’uno per l’altra. Segnai nome e titoli sull’agenda e, il giorno dopo, nell’attesa del pullman per tornare a Lecce, andai a riempirmi lo zaino di libri, iniziando con Autobiografie altrui. Pensavo fosse il titolo adatto per cominciare a conoscere Tabucchi, erano tempi in cui m’interessavo di scrittori migranti, di identità al confine, di autori che si sentono a casa in più linguaggi. Non è cambiato poi tanto da allora.

Oggi, altrettanto per caso, o per una serie di contrarietà, sono a Padova, da poco più di due mesi. In pochissimo tempo, la mia vita è cambiata radicalmente e, spesso, ho l’illusione di credere che la svolta sia stata in positivo. Come dire, contrarietà sì, ma, per riprendere Tabucchi in Viaggi e altri viaggi, “nella vita ci sono contrarietà che sono provvidenziali”.

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waiting for a sign

Sono qui a prendere treni, intrecciare contatti, volare da una città all’altra del Veneto, e non solo, fedele alla convinzione che, se avessi già rinunciato a trovare quello che mi fa sentire viva, me ne sarei tornata a casa, senza pretese e altre velleità. Invece, resto in movimento, sebbene creda che questo sia l’ennesimo periodo di passaggio, che io non sia destinata a restare e che l’iperattività sia solo il mio personale antidoto contro l’ignoto che, come diceva Tabucchi, non è prendere un aereo per andare lontano, ma restare in “quel pozzo d’immobilità in una giornata passata a pensare senza muoversi di casa, guardando un muro senza vederlo”.

In poche parole, dove voglio arrivare lo so già, mi serve solo una conferma. Per quanto stupido possa sembrare, sto cercando un segno, anche minimo. Ne intravedo nelle persone incontrate per caso, nei ragazzi che negli ultimi giorni mi hanno dato un passaggio in auto e che, a un’età poco canonica secondo i più, hanno abbandonato una strada per prenderne un’altra. “Non mi piaceva e ho cambiato”, sembra semplice, no? Resto in posizione d’attesa, con la presunzione che, alla fine, si può stare bene, sentirsi finalmente se stessi, anche e soprattutto “nei frattempi”, in quei momenti interstiziali tra un’era e l’altra dell’esistenza.

Eppure, come Pereira, non mi sento rassicurata e mi capita di provare una grande nostalgia, per una vita passata e per una vita futura. Spesso mi capita di pensare che sto dove non dovrei stare e, a volte, ho perfino nostalgia di casa, “il che è evidentemente una sciocchezza, da quelle parti non sono mai stato uno stimato sciovinista”. Sarà che i momenti di pausa, in tutti i contesti, non mi sono mai piaciuti e che ho sempre preferito andare da qualche parte, anche senza sapere esattamente la destinazione.

E allora, dato che anche io detesto i poemi ciclici, procedo per approssimazioni, mi avvicino gradualmente all’idea di me che ho in testa. Continuo a viaggiare, perché, come diceva Fernando Pessoa, scrittore portoghese, musa e ossessione di Tabucchi, per viaggiare basta esistere: “passo di giorno in giorno come di stazione in stazione, nel treno del mio corpo, o nel mio destino, affacciato sulle strade e sulle piazze, sui gesti e sui volti, sempre uguali e sempre diversi come in fondo sono i paesaggi.”

L’esistenza stessa “è un viaggio sperimentale fatto involontariamente”, da attraversare senza documentarsi troppo, lasciando spazio per imprevisti e sorprese e senza svelarsi troppo in anticipo il finale. 

Image © Bootsy Holler

Soundtrack: How It Ended, The Drums

Una giornata al mare

Se la strada per l’inferno è lastricata di buone intenzioni, quella per il paradiso è lastricata di spazzatura e prevendite per il Rio Bo. Almeno a Gallipoli, precisamente sul tratto del litorale che porta alla Baia Verde, un pezzo di costa che fino a qualche anno fa era sinonimo di fondali trasparenti e cristallini, e da un po’ di tempo a questa parte è diventato il regno della movida più kitch, quella del Mojito annacquato con i piedi a mollo nello Ionio, della musica house da somministrare a tardo-adolescenti intontiti già alle 3 del pomeriggio, delle vagonate di testosterone spalmate di olio e slip bianchi attillati. E delle montagne di rifiuti che affollano le spiagge, e non solo la mattina presto (per prevenire le obiezioni di quelli che “le foto della spazzatura le fanno quando ancora non sono passati gli operatori”).

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Questa è la strada che dal villaggio porta al mare, se mare si può chiamare quella striscia di sabbia ogni anno più angusta che gli stabilimenti balneari concedono ai comuni mortali. Insieme alle bottiglie di birra, ci sono le prevendite per i vicini templi del divertimento, le riduzioni per il Rio Bo o per la Praja, le pubblicità dell’ultimo divo tv che ci fa l’onore di scendere nel Salento. Tonnellate di carta che finisce anche in mare. Locandine e manifesti per le discoteche, ma anche per i parcheggi e per le navette, tutto in mano ai soliti noti, che a ogni estate si ritagliano una porzione in più. 

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Per non fare il verso agli articoli di Vice dove, al di là dell’atteggiamento scafato, c’è parecchia verità, mi limiterò a pochi dettagli: come i sacchi di spazzatura nelle campagne, le bottiglie di birra buttate dal finestrino della macchina nei boschi, l’indolenza e il fatalismo del “tanto ad agosto è sempre così, poi quando se ne vanno i turisti…”, l’affitto selvaggio di ogni buco libero nel centro di Gallipoli e Otranto, i prezzi alle stelle di un lettino, un succo di frutta che arriva a costare 8 euro, l’accoglienza proverbiale che invece è solo un tentativo disperato di spremere quanto più possibile “perché se non guadagniamo ora che è estate, quando facciamo soldi?”, la grande illusione del turismo e della destagionalizzazione.

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E questo non solo a Gallipoli. Anche a Portoselvaggio, area protetta e parco naturale, ci sono bicchieri di plastica in riva al mare, il sentiero che porta all’insenatura è ricoperto di mozziconi di sigaretta e non mancano mai i soliti cretini che scavano la roccia calcarea della scogliera e se la spalmano sulla faccia e sulle natiche perché “dice che fa bene” e, ahimè, nessuno aveva un accento del Nord. E, per restare sullo Ionio, poco più in là, la spiaggia libera non esiste quasi più e, dove non ci sono gli ombrelloni dello stabilimento balneare, regnano bottiglie e spazzatura.

Forse non ci meritiamo nulla. Non ci meritiamo la ricchezza del turismo, la curiosità dei viaggiatori, l’apertura di nuovi orizzonti. Stiamo bene così, ci sentiamo dritti di natura e, alla fine, se ci hanno regalato il mare, pensiamo di avere il diritto di farne quello che vogliamo. O forse sono solo io a prendermela sul personale quando scorgo l’ennesima sigaretta in acqua e il mio è solo lo sfogo di un’estate particolarmente nevrotica e di pochissime ore passate all’aria aperta, dove c’è anche un po’ di nostalgia per i lunghi cinque mesi di bella stagione di una volta, mai congestionati dal traffico, della Baia Verde che conoscevano in pochi, di Portoselvaggio, il tesoro nascosto alla fine di un viale di pini d’Aleppo. Alla fine, sono in tanti a non pensarla come me. E tra questi, alcuni hanno anche una certa autorevolezza. Il National Geographic e la Lonely Planet hanno accolto la Puglia nell’Olimpo delle destinazioni migliori al mondo e nei viaggi da consigliare per il 2014. Saranno sicuramente venuti a settembre, quando i turisti non ci sono più. 

 

 

 

 

 

Couchsurfing: istruzioni per l’uso

Nel 1999, Casey Fenton, studente universitario di Boston, in procinto di partire per l’Islanda manda una mail ai 1500 universitari della capitale islandese per chiedere ospitalità. Fenton ha bisogno sì di risparmiare qualche soldo, ma vuole soprattutto mescolarsi ai suoi coetanei di Reykjavík, guardarli da vicino, vivere come loro. Sono in 50 a rispondere e a proporre una soluzione: alla fine Fenton trova un divano dove dormire e, alla fine del viaggio, una risposta all’esigenza di autenticità avvertita dai tanti viaggiatori che nel terzo millennio non sono più soddisfatti dal semplice week-end in ostello a tariffe low-cost. Era ufficialmente nato il couchsurfing. “In viaggio sul sofà” (Morellini Editore) è la prima guida non ufficiale al couchsurfing, ideata e scritta da Elena Refraschini e Davide Moroni. I due raccontano, attraverso esperienze dirette e ironia, il bello di bussare a una porta e incrociare la vita di un altro viaggiatore, anche grazie alle parole di chi ha sperimentato sulla propria pelle cosa vuol dire dormire sul divano di uno sconosciuto e a volte anche farselo amico.

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OCCHIO AL LERCIO E ALLO SCROCCONE. La prima parte della guida è ricca di consigli pratici, dalla compilazione del profilo al primo approccio con i membri della community, e approfondisce ogni dettaglio sulla convivenza, cosa fare e cosa evitare, come esser un buon host e un buon guest, e come partecipare agli eventi organizzati dai couchsurfer nella propria città. Dritte semplici, ma utili: come comportarsi se si viaggia con bambini, come riconoscere chi ha scambiato couchsurfing per un sito d’incontri, come mandare la prima richiesta di ospitalità. La seconda parte della guida è, invece, dedicata ai cosiddetti “incontri fuori dal normale”, vale a dire cosa succede e come reagire quando ci accorgiamo di non essere atterrati a casa della persona giusta o quando abbiamo aperto le porte a una persona diversa da quella che ci aspettavamo, con l’analisi di cinque ospitanti “tipo” e di cinque profili di guest che un couchsurfer non vorrebbe mai incontrare sul suo cammino, dall’immancabile “lercio” all’ancor più comune “scroccone”…

 

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Un altro viaggio in Etiopia

“Ricognizioni approfondite in territori poco battuti”, racconti per testo e immagini di viaggi personali, che mescolino l’arte alla scoperta, la letteratura alla geografia, la ricerca dell’inquadratura con quella del semplice indirizzo. È quanto si propone di fare Humboldt Books, giovanissima casa editrice, nata il 14 febbraio del 2012, da un’idea di Giovanna Silva, fotografa e photo-editor, iniziativa fresca e raffinata, in un panorama editoriale difficile e settario come quello italiano, così battezzata in onore di Alexander von Humboldt, avventuroso esploratore ottocentesco. L’idea è quella di situarsi a metà tra la praticità della guida e lo stile lirico della narrativa, una sorta di non-fiction con variazioni, più o meno romanzate, sul tema del viaggio.

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IN VIAGGIO NEL CORNO D’AFRICA. Così è per “Narciso nelle colonie. Un altro viaggio in Etiopia”, il primo tra i libri di viaggio della Humboldt (in coedizione con Quodlibet), la cronaca di una traversata nel Corno d’Africa con i testi di Vincenzo Latronico, giovane penna italiana, e le immagini di Armin Linke, fotografo italo-tedesco. “Ciò che racconta è accaduto davvero”, scrive Vincenzo Latronico in apertura, “scontato di una scusabile misura di epica”. “I luoghi sono abbastanza esotici da evitare il déjà-vu”, continua, “il tutto, nonostante la drammaticità un po’ forzata, rispetta il carattere essenziale del racconto di viaggio, il suo essere portatore sano di panorami”. Una dichiarazione di poetica che si promette di evitare i cliché, il troppo facile, lo strettamente personale e tutti i facili trabocchetti del racconto di viaggio e che fa da preludio a una straordinaria esperienza a ritroso nel tempo.

LE TRACCE DELLA NOSTRA LINGUA. Il viaggio comincia durante i primi mesi del 2012, in Gibuti, sulle tracce di una leggendaria ferrovia, fatta costruire dai colonizzatori italiani. Passata la “Svizzera d’Africa”, Linke e Latronico si addentrano in Etiopia, passando per Dire Dawa, un tempo centro di snodo e manutenzione di treni, e arrivano ad Harar, “antica metropoli di temibili genti”, città di mercati e compravendite sin dall’Ottocento, dove un certo agente commerciale mise radici nella speranza di trovarvi una vita borghese, ma forse il vento, la polvere depositata nei polmoni, lo uccise, facendone un mito chiamato Arthur Rimbaud. Il viaggio abbandona la ferrovia, utopia incompiuta del sogno coloniale italiano, per seguire imprese cinesi alla testa di autostrade giganti, aerei privati gestiti da una misteriosa commerciante di oppiacei, e continua, destinazione Addis Abeba, con la storia di Hailé Selassié, la lingua italiana che fa capolino in quella amarica, le vestigia del nostro colonialismo, di cui nessuno parla più. “In Italia non parliamo di colonialismo”, scrive Latronico, “perché, in fondo, non ci riteniamo dei veri colonizzatori: sarà la convinzione, consolatoria e falsa, che sia stato in fondo poca cosa rispetto a quello di altri paesi europei; sarà l’illusione, comoda e falsa, che la nostra inettitudine bellica ci abbia impedito di commettere atti poi così gravi; sarà la coda lunga dell’apparato fascista che ha impedito elaborazioni collettive delle colpe”.

LA MAPPA INTERATTIVA. Come ogni libro di viaggio che si rispetti, “Narciso nelle colonie” riserva in coda una serie di appendici: un approfondimento sulla figura storica di Hailé Selassié con un’intervista al giornalista e storico Angelo Del Boca, che lo ha incontrato di persona, un excursus sul ruolo del negus nella musica giamaicana, un dizionario dei lasciti italiani nella lingua amarica e un prontuario di indirizzi. E per seguire il viaggio, su Google Maps c’è anche una mappa interattiva, tappa dopo tappa. Alla fine, resta un’ammissione di colpe. “Sono partito cercando una cosa, e non l’ho trovata”, ammette Latronico, perso davanti a quel “collasso della cronologia” che sono gli archivi del Corno d’Africa. E, tra le righe, la consapevolezza che, inevitabilmente, pur sfuggendo al soggetto imperante, si è finiti per parlare di se stessi, tra le polveri rosse delle autostrade, le sagome delle gazzelle e il retrogusto piccante delle cene etiopi. Sarà perché “siamo andati in Etiopia, da europei, cercando un’immagine di noi”, o “come Narciso nelle colonie, convinti di avere a che fare, in buona sostanza, con uno specchio, e di sapere già che immagine avrebbe restituito”.

Qui l’articolo pubblicato su OggiViaggi.