Outside party

Somebody was boring me, I think it was me.

Frankie Roberts è reduce dal Vietnam. Torna a casa, in una piccola cittadina agricola del Nebraska, Plattsmouth, dove Joe, il fratello, lavora come sceriffo. Niente è cambiato qui, neanche i suoi genitori, che Frankie decide di sollevare dal peso dei convenevoli, disertando la rimpatriata. Neve, indiani d’America vestiti in jeans, villette a schiera, distintivi, cadillac impolverate, vecchi bar senza finestre. Tutto è uguale. Tranne quelli che se ne sono andati. Frankie va in cerca della vecchia copia di se stesso, che ormai non c’è più. Anche Joe, quando vede Frankie saltare su un treno in corsa e allontanarsi, riconosce di non essere più in grado di intravedere suo fratello nell’uomo che lo sta guardando negli occhi.

“The Indian Runner”, uscito nel 1991, è il film del debutto alla regia di Sean Penn, tratto dalla canzone di Bruce Springsteen, Highway Patrolman, con Viggo Mortensen nella parte di Frankie Roberts. La trama della pellicola riporta esattamente quanto dice il brano, raccontando la storia dei due fratelli, persino i nomi dei protagonisti sono gli stessi. Io l’ho fatto partire una sera, senza saperne più di tanto, ed è finito per diventare una delle pellicole a cui voglio bene, come alcuni libri, mi rassicura il fatto che ci siano, mi piace averle intorno, sapere che c’è qualcuno che abbia raccontato questa storia e altri che, forse in maniera diversa, l’hanno vissuta.

Tornato a casa, Frankie vuole darsi un’opportunità, quella di una vita regolare. Sposa Dorothy, che aspetta un bambino da lui, ripara una bicicletta, comincia a lavorare ai cantieri della città, convince persino suo fratello che sarebbe bello riprendere la terra di una volta, tornare a piantarci il grano forse, ritornare a quello che era stato.

Poi qualcosa s’incrina, nel film è un’esplosione improvvisa, ma nella testa di Frankie è una agonia, giorno dopo giorno, una solitudine insostenibile, la sensazione di non riuscire a trovare il proprio posto, una connessione, un filo che lo leghi a qualcuno. L’impossibilità di mettere il silenziatore all’indiano che continua a corrergli nel cervello.

alone

The bigger they come, the harder they fall.

La voglia di distruggere ogni cosa, di mandare all’aria ogni piano, di non vivere più schiavo della necessità di pensare al futuro, alle “cose importanti”, alle “cose concrete”, a sistemarsi, che poi si fa troppo tardi, si resta soli, senza un lavoro e senza la pensione e non si sa cosa rispondere quando in banca ti chiedono la professione o cosa dire a chi si aspettava che avresti fatto strada, senza curarsi dei progetti, di costruirsi un avvenire, prevenire le difficoltà, risparmiarsi i disagi e le altre piccole meschinità dell’esistenza dell’uomo, l’unico animale che, come diceva Pirandello, ha il triste privilegio di sentirsi vivere.

In un momento del film, parte la canzone Comin’ back to me, dei Jefferson Airplane e resta da sfondo a tutto quello che succede in una notte: Frankie che ruba la macchina ai ricchi del quartiere e passa a prendere Dorothy, Joe che ricomincia a fumare e non riesce a dormire, il padre dei due fratelli che torna a vedere le vecchie pellicole di una volta, quando tutti erano piccoli e tutto poteva ancora succedere.

La voce di Marty Balin basta da sola a lasciare un nodo in gola, quello della nostalgia, che come diceva Marquez, nasce nel momento esatto in cui si comprende che l’avvenire è già iniziato e non è quello che ci aspettavamo. Ci sono vite che abbiamo cominciato per gioco e hanno finito per non lasciarci liberi di uscire. Sogni trasparenti che avremmo voluto non iniziassero mai e ora sono qui a chiederci conto dei desideri espressi, delle convinzioni in cui credevamo, della paura del giorno dopo, di cui di credevamo immuni.

A transparent dream
Beneath an occasional sigh
Most of the time
I just let it go by
Now I wish it hadn’t begun

What are you doing here? D’you come here to fucking guilt me to death?

Tutto sembra svuotarsi, nessuno riesce a scavalcare il muro. Dorothy, il figlio che sta arrivando, il fratello, sono solo sensi di colpa, ombre le cui aspettative non saranno mai realizzate, “outside party”, parti esterne, che poco c’entrano con quello che accade quando si resta con la testa sul cuscino, il buio, gli occhi aperti.

Frankie se ne va, prende la macchina, un ultimo sguardo a tutto quello che è stato e non torna più, non si guarda neanche più indietro, chiude la porta per sempre e non riesce nemmeno a chiedere scusa, corre lungo le colline, per dimenticarsi di tutto, un chilometro dopo l’altro.

Poi ci sono certe porte che finiscono per restare aperte, per la paura di chiuderle e restare nella stessa stanza con il vuoto di notte o per il timore di guardarsi allo specchio e chiedersi se davvero è tutto qui, per trovarci una scusa e fare finta di essere vivi, di provare entusiasmo, di mostrarsi interessati, di sentire qualcosa, di avere ancora un desiderio che non sia quello di dissolversi e sparire all’orizzonte, come la fine del film, fari accesi, serbatoio pieno, verso il deserto.

Soundtrack: Highway Patrolman, Bruce Springsteen

Image © Witchoria

Note a margine

“Bisogna stare attenti ai pensieri che vengono di notte: non hanno la giusta direzione, arrivano a tradimento da luoghi remoti e son privi di senso e di limiti”. Questo è l’incipit di Strade Blu di William Least Heat-Moon, un viaggio lungo l’America minore, lontano dalle Interstates, arrivato sul mio comodino un po’ di tempo fa. La storia è quella di una partenza solitaria, per tre mesi, dal Missouri al Texas meridionale, la Louisiana, il New Mexico, lo Utah, la California, il Montana e il Minnesota, tutto seguendo le strade blu, quelle secondarie, “aperte, invitanti, enigmatiche: uno spazio dove l’uomo può perdersi”.

“Quella notte, mentre mi rigiravo nel letto chiedendomi se avrei fatto prima a prender sonno o ad esplodere, ebbi appunto l’idea. Un uomo che non riesce a far quadrare le cose può sempre levare le tende. Può mollare tutto cercando di tirarsi fuori dalla solita vita. Può mandare al diavolo il tran tran quotidiano e correre il rischio di vivere il momento secondo le circostanze, è una questione di dignità”. Succede in un attimo, quello che prende più tempo è il pensarci, rigirarsi nel letto, immaginare le conseguenze, le reazioni, i ripensamenti, poi, una volta deciso, basta chiudere gli occhi e saltare nel vuoto, senza nemmeno preoccuparsi se sotto qualcuno avrà pensato di metterci una rete.

salto

Heat-Moon perde il suo matrimonio e il suo lavoro in un colpo solo. Per sfuggire al passato, che continua ad annusarlo sul collo, la sera, prima di addormentarsi, decide di partire dopo aver rimesso a posto il suo furgone, il Ghost Dancing, “seguendo la primavera, come le anatre – nell’oscurità, col collo dritto in avanti”. Ha 38 anni, senza un posto di lavoro e senza progetti precisi, il che comporta, durante il viaggio, anche inevitabili dialoghi come:

– E tu che mestiere fai?

– Nessuno

– E com’è che funziona?

– Non funziona in nessuna maniera.

Ma anche incoraggiamenti inaspettati:

– Dove va?

– Non lo so.

– Allora è impossibile perdersi.

“Con una sensazione quasi disperata d’isolamento e la crescente certezza di vivere in terra straniera, partivo alla ricerca di mondi dove il mutamento non fosse rovina”, inseguendo un cambiamento e forse perché, come Heat-Moon, mi piace rendermi la vita difficile. Insomma, ho cambiato casa. Ora sono al settimo piano di un palazzo, Milano Sud, ho un balcone, tante finestre, spazi inondati di luce e dalla mia cucina si vedono anche le montagne che, per chi viene da regioni il cui unico rilievo sono le dune di sabbia, restano sempre qualcosa di esotico. A pensarci bene, è stato il trasloco più indolore degli ultimi mesi. Solo uno zaino e una valigia, qualche libro, pochissimi vestiti, tanti, forse troppi, quaderni per appunti. Lo stretto indispensabile. Ho anche un solaio e un armadio gigante e per la prima volta non so come riempirli.

Appena tornata in Italia, avevo cominciato a occuparmi le giornate accumulando nuove conoscenze, passatempi inediti, pile di libri, progetti appena iniziati. In due mesi, ho collezionato biglietti di treno, numeri di telefono, appunti sull’agenda. Poi, succede sempre quando si fanno le valigie, tutto il superfluo resta fuori, è quasi liberatorio, sapere di poter ancora rinchiudere tutto in uno zaino e partire. Affinare la direzione, eliminare il superfluo, fare fuori brutalmente tutto quello che non mi serve. Come diceva Cesare Pavese, spostarsi, viaggiare, cambiare direzione, è una brutalità. Obbliga a una situazione di disagio perenne. “Nulla è vostro, tranne le cose essenziali – l’aria, il sonno, i sogni, il mare, il cielo”. Sono in questo appartamento, dove nulla è mio. Scrivo su un divano che non è mio, nella tasca ho un mazzo di chiavi che non riconosco, le coperte, le lenzuola non hanno l’odore di casa, devo pensarci per ricordare quale uscita della metro prendere, le strade sono tutte sconosciute, blu, “uno spazio dove l’uomo può perdersi”. Eppure l’essenziale è lì, a portata di mano, è un sollievo che non provavo da tempo, quello di aver bisogno di pochissimo per stare bene. A volte ho quasi l’impressione di camminare a un metro da terra per tutti i pesi che ho lasciato andare via.

spazio

Quando Heat-Moon attraversa la frontiera e raggiunge il West, qualcosa cambia. “La differenza incolmabile, perentoria, evidente e sbalorditiva tra l’Est e il West è dovuta a un fattore ben preciso: lo spazio. Nel West la vastità degli spazi aperti cambia le città, le strade, le case, le fattorie, le coltivazioni, la tecnica, la politica, l’economia e, ovviamente, il modo di pensare”. Lo spazio, soprattutto quello rimasto vuoto, spinge a una maggiore fiducia in se stessi, secondo Heat-Moon. Ma non solo, ci rimpicciolisce, ci riduce alla giusta misura, ridimensiona gli infimi drammi esistenziali, apre orizzonti inimmaginabili. “Nessuno, neppure la gente del posto può sottrarsi alla vastità dello spazio”.

Ora, non che voglia paragonare il deserto del Nevada al soggiorno di un bilocale milanese, ma questo spazio vuoto, sconosciuto, uno zaino leggero, una valigia con lo stretto indispensabile, niente di familiare intorno, era quello di cui avevo bisogno da tempo. Lo spazio. “In perfetta solitudine”, direbbe Federico Fiumani. Per rimpicciolire alcuni nodi, scioglierne altri, ridimensionare problemi e persone, osservarli dalla giusta prospettiva, quella di chi guarda da un punto altro, da una posizione, sì di tiro, ma sempre esterna, lontana. Spazio per mettere a fuoco una direzione, per inseguire i ripensamenti fino a riuscire a capirli ma soprattutto per riprendere vecchi discorsi e recuperare progetti e utopie che credevo d’aver messo da parte una volta per tutte. Lo diceva anche Heat-Moon:

– I sogni occupano molto spazio?

– Tutto quello che gli si dà.

Images © Shout

Soundtrack: Today, Jefferson Airplane