La buona scuola

Ci sono pensieri e idee che arrivano nottetempo, intuizioni a cui bisogna stare attenti perché, come scriveva Least Heat-Moon nel suo meraviglioso Strade Blu, “non hanno la giusta direzione, arrivano a tradimento da luoghi remoti e son privi di senso e di limiti”. Ci sono itinerari della testa, traiettorie minori, che, a volte, ci si diverte giusto a immaginare, per gioco, come ha magistralmente scritto Maria Perosino, “le scelte che non hai fatto”, le strade che non hai preso, le vite che avremmo potuto avere e che forse ci aspettano ancora da qualche parte.

Così, eccomi qui a Parigi, in una notte d’inverno, come il viaggiatore di Calvino, a tornare indietro, ai tempi dell’università, quando, sotto i portici del chiostro della facoltà di Lingue e Letterature Straniere a Lecce, mi proposi saggiamente di lasciare aperta la possibilità a più strade. Ché “se mi va male con il giornalismo, almeno mi resta l’insegnamento”. Mi faccio quasi tenerezza. Erano giorni in cui mi emozionavo al mio nome pubblicato on-line, in cui credevo davvero che qualche mese di visibilità e lavoro gratis fossero il viatico per un posto in redazione, in cui scrivevo entusiasta per una decina di testate e la gloria mi bastava per non preoccuparmi troppo di quello che sarebbe successo dopo.

Poi, è venuto tutto il resto. In pochi anni, tutto è cambiato. I pagamenti inesistenti, trenta euro lordi dopo novanta giorni dalla pubblicazione; il blog di un quotidiano nazionale che non ti retribuisce “perché è un blog, scrivete quello che volete, come un diario”, e poi ti scrive la domenica mattina per chiederti di seguire le elezioni comunali a Parigi tutta la giornata; il portale di innovazione culturale che si fregia di professori e filosofi e scrive di dignità del lavoro intellettuale e poi non risponde alle mail e ti promette una retribuzione da anni, “almeno cento euro a reportage ma non da subito, intanto cominciamo”; le inchieste di cinque giorni lavorativi pagate 24 euro; l’agenzia di comunicazione veneta che ti paga dieci euro ad articolo, “di solito facciamo sette ma tu hai esperienza e arrotondiamo”, dove la caporedattrice, ignara dei miei trascorsi professionali nelle testate del Meridione, ti spiega il trucco per avere sempre foto d’attualità, “quando non ne ho di prima mano, spulcio sui quotidiani del Sud, tanto una rissa è sempre una rissa, gli incidenti poi si assomigliano tutti, chi vuoi che venga a controllare sul nostro sito, la Gazzetta del Mezzogiorno?”.

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Anno dopo anno, la scrittura è diventata un oggetto estraneo, quasi nemico e, allo stesso tempo, ha iniziato a seguire un corso parallelo, a essere qualcosa di mio, da proteggere dalla mediocrità che mi circondava, da riservare ai miei tempi e ai miei spazi o a quelle poche testate che rispecchiano la mia filosofia, che hanno obiettivi simili ai miei, la stessa voglia di raccontare. Con gli anni, è sopraggiunto però anche l’imbarazzo, l’esitazione davanti alla domanda “che lavoro fai?”, sentirsi parte di tutto e di niente, senza una strada precisa, passare dal più sfrenato entusiasmo al più triste degli avvilimenti, guardare le offerte di lavoro come si guarda la televisione stanchi sul divano, senza la pretesa di trovarvi qualcosa di interessante.

Succede allora che una sera a Parigi, nonostante ogni prospettiva di impiego a lungo termine mi sia per ora preclusa, nonostante non abbia intenzione per ora di tornare in Italia, io ricominci a fantasticare su altre strade, altre possibilità e che nottetempo si faccia largo l’idea bislacca di qualche anno prima, che forse se non è un paese per giornalisti, forse lo è ancora per gli insegnanti, che se adesso si chiama buona scuola, l’insegnamento avrà pure qualcosa da offrire. Ebbene, dopo aver spulciato almeno tre siti ufficiali diversi, aver schivato insistenti pop-up a tradimento di offerte di un corso in Bulgaria per ottenere rapidamente, al solo costo di 3000 euro, l’abilitazione all’insegnamento in Italia, aver letto e riletto le dichiarazioni di Manuela Ghizzoni (prima firmataria dell’emendamento targato Pd e approvato dalla Commissione Cultura della Camera, con il quale viene riscritta la delega al Governo sul riordino delle modalità di reclutamento del personale docente all’interno della Buona scuola) sull’abolizione di ogni via secondaria all’accesso all’insegnamento, tirocinio formativo attivo compreso, ho realizzato che non ho alcuna possibilità di avvicinarmi al mondo della cosiddetta buona scuola: non posso partecipare al prossimo concorso, ma non posso nemmeno partire da zero e tentare di accedere all’anno di tirocinio formativo (a pagamento), che per il 2016 sarà aperto solo per le classi di concorso esaurite, per esempio matematica nella scuola secondaria. Posso sperare di entrare in qualche graduatoria minore per supplenze e maternità, ma come mi risposero già al Provveditorato lo scorso anno: “signorina, ma le graduatorie le abbiamo già riaperte nel 2014, ora tocca aspettare”.

Mi sono ricordata del mio piano di studi all’università, scelto con cura, per non precludermi né l’insegnamento del francese, né quello dell’inglese, né quello della letteratura italiana. Ricordo il mio primo anno a Parigi e una conversazione con un insegnante di storia, di 26 anni, in cui incredula lo ascoltavo mentre mi spiegava come dai banchi dell’università fosse passato alla cattedra, senza tappe intermedie. E ancora le chiacchierate con le mie colleghe di corso, contare i crediti per poter accedere alle classi di concorso, immaginarci per gioco dall’altra parte.

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In tutto questo, resta sconforto, smarrimento. Solidarietà con chi in questo percorso ha investito molto più tempo ed energia e, dopo anni di supplenze, precariato, master, tirocini, graduatorie si ritrova ancora alle prese con superconcorsi dall’esito incerto. Incredulità davanti al percorso a ostacoli che sembra quasi studiato minuziosamente per scoraggiare qualsiasi tipo di iniziativa professionale. E tanta perplessità davanti al linguaggio informale e friendly usato dal sito del Ministero dell’Informazione. “Non siete abilitati? Niente da fare per voi!”, mentre leggo da un momento all’altro mi aspetto che venga fuori una linguaccia da qualche parte.

Invece, il meglio lo riservano nella pagina sui consigli per trovare lavoro, in cui un solerte redattore propone come tecnica innovativa per trovare un impiego il “passaparola con amici e parenti”, siti antidiluviani dove ormai trovare un’offerta di lavoro che non sia un tentativo di vendita on-line è quasi impossibile, preoccupandosi di specificare che “è bene ricordarsi di fare una ricerca mirata, precisando regione e città”. Infine, “l’ultima tecnica, ma non per importanza, per trovare offerte di lavoro interessanti è legata alla motivazione. Mai perdere la speranza!”

Che dire di più? Mai perdere la speranza. In fondo, forse un prossimo concorso sarà previsto tra altri tre anni. Intanto ci sono questioni più importanti da risolvere, ci sono i presepi da rimettere nelle aule, c’è la teoria gender che avanza minacciosa, ci sono le unioni civili da scongiurare, il voto segreto, la libertà di coscienza, c’è Sanremo che è appena iniziato e Padre Pio in tournée a Roma. E l’Italia con un tasso bassissimo di laureati impiegati e con gli insegnanti più vecchi di tutta Europa.

Per saperne di più sulla nostra buona scuola, in maniera precisa e ordinata, e per farsi venire il mal di pancia, l’articolo di Christian Raimo su Internazionale, qui. Per leggere altre storie di lavoratori, o aspiranti tali, il blog della mia amica Valentina, AstrOccupati.

Illustrazioni © Emiliano Ponzi

Soundtrack: Mogwai, Take me somewhere nice

Note a margine

“Bisogna stare attenti ai pensieri che vengono di notte: non hanno la giusta direzione, arrivano a tradimento da luoghi remoti e son privi di senso e di limiti”. Questo è l’incipit di Strade Blu di William Least Heat-Moon, un viaggio lungo l’America minore, lontano dalle Interstates, arrivato sul mio comodino un po’ di tempo fa. La storia è quella di una partenza solitaria, per tre mesi, dal Missouri al Texas meridionale, la Louisiana, il New Mexico, lo Utah, la California, il Montana e il Minnesota, tutto seguendo le strade blu, quelle secondarie, “aperte, invitanti, enigmatiche: uno spazio dove l’uomo può perdersi”.

“Quella notte, mentre mi rigiravo nel letto chiedendomi se avrei fatto prima a prender sonno o ad esplodere, ebbi appunto l’idea. Un uomo che non riesce a far quadrare le cose può sempre levare le tende. Può mollare tutto cercando di tirarsi fuori dalla solita vita. Può mandare al diavolo il tran tran quotidiano e correre il rischio di vivere il momento secondo le circostanze, è una questione di dignità”. Succede in un attimo, quello che prende più tempo è il pensarci, rigirarsi nel letto, immaginare le conseguenze, le reazioni, i ripensamenti, poi, una volta deciso, basta chiudere gli occhi e saltare nel vuoto, senza nemmeno preoccuparsi se sotto qualcuno avrà pensato di metterci una rete.

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Heat-Moon perde il suo matrimonio e il suo lavoro in un colpo solo. Per sfuggire al passato, che continua ad annusarlo sul collo, la sera, prima di addormentarsi, decide di partire dopo aver rimesso a posto il suo furgone, il Ghost Dancing, “seguendo la primavera, come le anatre – nell’oscurità, col collo dritto in avanti”. Ha 38 anni, senza un posto di lavoro e senza progetti precisi, il che comporta, durante il viaggio, anche inevitabili dialoghi come:

– E tu che mestiere fai?

– Nessuno

– E com’è che funziona?

– Non funziona in nessuna maniera.

Ma anche incoraggiamenti inaspettati:

– Dove va?

– Non lo so.

– Allora è impossibile perdersi.

“Con una sensazione quasi disperata d’isolamento e la crescente certezza di vivere in terra straniera, partivo alla ricerca di mondi dove il mutamento non fosse rovina”, inseguendo un cambiamento e forse perché, come Heat-Moon, mi piace rendermi la vita difficile. Insomma, ho cambiato casa. Ora sono al settimo piano di un palazzo, Milano Sud, ho un balcone, tante finestre, spazi inondati di luce e dalla mia cucina si vedono anche le montagne che, per chi viene da regioni il cui unico rilievo sono le dune di sabbia, restano sempre qualcosa di esotico. A pensarci bene, è stato il trasloco più indolore degli ultimi mesi. Solo uno zaino e una valigia, qualche libro, pochissimi vestiti, tanti, forse troppi, quaderni per appunti. Lo stretto indispensabile. Ho anche un solaio e un armadio gigante e per la prima volta non so come riempirli.

Appena tornata in Italia, avevo cominciato a occuparmi le giornate accumulando nuove conoscenze, passatempi inediti, pile di libri, progetti appena iniziati. In due mesi, ho collezionato biglietti di treno, numeri di telefono, appunti sull’agenda. Poi, succede sempre quando si fanno le valigie, tutto il superfluo resta fuori, è quasi liberatorio, sapere di poter ancora rinchiudere tutto in uno zaino e partire. Affinare la direzione, eliminare il superfluo, fare fuori brutalmente tutto quello che non mi serve. Come diceva Cesare Pavese, spostarsi, viaggiare, cambiare direzione, è una brutalità. Obbliga a una situazione di disagio perenne. “Nulla è vostro, tranne le cose essenziali – l’aria, il sonno, i sogni, il mare, il cielo”. Sono in questo appartamento, dove nulla è mio. Scrivo su un divano che non è mio, nella tasca ho un mazzo di chiavi che non riconosco, le coperte, le lenzuola non hanno l’odore di casa, devo pensarci per ricordare quale uscita della metro prendere, le strade sono tutte sconosciute, blu, “uno spazio dove l’uomo può perdersi”. Eppure l’essenziale è lì, a portata di mano, è un sollievo che non provavo da tempo, quello di aver bisogno di pochissimo per stare bene. A volte ho quasi l’impressione di camminare a un metro da terra per tutti i pesi che ho lasciato andare via.

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Quando Heat-Moon attraversa la frontiera e raggiunge il West, qualcosa cambia. “La differenza incolmabile, perentoria, evidente e sbalorditiva tra l’Est e il West è dovuta a un fattore ben preciso: lo spazio. Nel West la vastità degli spazi aperti cambia le città, le strade, le case, le fattorie, le coltivazioni, la tecnica, la politica, l’economia e, ovviamente, il modo di pensare”. Lo spazio, soprattutto quello rimasto vuoto, spinge a una maggiore fiducia in se stessi, secondo Heat-Moon. Ma non solo, ci rimpicciolisce, ci riduce alla giusta misura, ridimensiona gli infimi drammi esistenziali, apre orizzonti inimmaginabili. “Nessuno, neppure la gente del posto può sottrarsi alla vastità dello spazio”.

Ora, non che voglia paragonare il deserto del Nevada al soggiorno di un bilocale milanese, ma questo spazio vuoto, sconosciuto, uno zaino leggero, una valigia con lo stretto indispensabile, niente di familiare intorno, era quello di cui avevo bisogno da tempo. Lo spazio. “In perfetta solitudine”, direbbe Federico Fiumani. Per rimpicciolire alcuni nodi, scioglierne altri, ridimensionare problemi e persone, osservarli dalla giusta prospettiva, quella di chi guarda da un punto altro, da una posizione, sì di tiro, ma sempre esterna, lontana. Spazio per mettere a fuoco una direzione, per inseguire i ripensamenti fino a riuscire a capirli ma soprattutto per riprendere vecchi discorsi e recuperare progetti e utopie che credevo d’aver messo da parte una volta per tutte. Lo diceva anche Heat-Moon:

– I sogni occupano molto spazio?

– Tutto quello che gli si dà.

Images © Shout

Soundtrack: Today, Jefferson Airplane