Lo scontro quotidiano

Ormai una decina d’anni fa, scrissi il mio primo post su un blog. “Il vento cattivo” non era ancora nato, ma al suo posto c’era “Lo scontro quotidiano“, uno spazio tutto dedicato ai fumetti o, come si chiamano adesso, alle graphic novel, nato durante i primi mesi a Parigi, dove le librerie dedicate ai comics sono un universo a parte e molti fumetti si trovano nel reparto letteratura.

Il titolo è la traduzione di una storia su quattro tomi di Manu Larcenet, ormai illustre fumettista francese, che nel suo “scontro” racconta un tormento personale, quello di Marco, ex reporter di guerra assediato dall’angoscia e dagli attacchi di panico, ma anche il rimosso e il travaglio di un paese in cui sta rifacendo capolino l’oscurantismo di Le Pen e non tanto antichi principi nazionalisti. La versione originale, “Le combat ordinaire”, forse rende ancora di più il senso di quello che mi sembra di vivere in questi giorni. Una lotta che più che quotidiana è ordinaria, normalizzata, necessaria.

Fa freddo. E non solo perché, dopo un’inaspettata lunghissima estate, Parigi è stata spazzata via da raffiche di freddo glaciale. Non solo perché in Italia i paesini del Salento cadono a pezzi sotto i nubifragi e le alluvioni. Fa freddo, dentro. Nelle ossa. Nella testa. Anche qui nel mio appartamento in città, dove il puntuale ed efficace riscaldamento automatico è già in moto dai primi di ottobre.

fuocoartificio

Tra i miei buoni propositi d’autunno, c’era quello di ritrovare una certa empatia che pensavo aver perso. I come e i perché li racconterò in un’altra storia, ma i risultati non si sono fatti aspettare. Sento su di me anche la solitudine dei sassi. Non so se è un bene ma a volte mi sembra di percepire la rotazione della terra. Mi sento sulle spalle tutta l’ingiustizia del mondo. Quando mi affaccio metaforicamente dalla mia finestra, guardo le informazioni, assisto all’ennesimo episodio di violenza, mi sento coinvolta, ferita. Soffro regolarmente di insonnia, non capisco più in che direzione va questo pianeta. E io con lui.

Qualche tempo fa lessi un articolo di Marina Petrillo, sul suo bel blog Alaska. Il titolo è Il Grande Rancore. Proverò a riassumerne qualche concetto, ma vale la pena prendere cinque minuti per leggerlo e sentirsi meno soli nel mondo. Qui uno stralcio:

Un giorno mi sono svegliata e il rancoroso era ovunque. È al bar, è sul tram, e non c’è inibizione sociale o principio di educazione civica che lo trattenga. Gli piace l’ordine ma non si ferma sulle strisce pedonali, è il commentatore seriale pieno d’odio e frustrazione, l’aspirante vigilante di quartiere. Prova un senso di ingiustizia ma non dà mai la colpa ai veri potenti – che invece invidia e cerca di imitare.

Il rancoroso – come la signora con le perle al collo e gli ori alle dita che sul tram ho sentito pronunciare il fatidico “vengono qui a rubarci il lavoro” – è raramente un vero spodestato, ma più spesso un deluso; ha perso del tutto contezza dei propri piccoli privilegi ed è convinto di essere assediato da qualcun altro – il senzatetto, il “negro”, il forestiero, per non parlare dei “rompipalle che li difendono”.

Il desiderio d’ordine del rancoroso è uno specchio del disordine che percepisce dentro di sé. Il rancoroso confonde i diritti con la capacità di consumo, percepisce chiaramente che c’è qualcosa che non va, che gli hanno venduto una fregatura (il televisore gigante, il Suv, il figlio all’università, la villetta con le telecamere, il rottweiler, la fabbrichetta, le tasse, il centro commerciale, la mentalità vincente, il lifting, e in genere il comprare come protezione da ogni cosa), ma non sapendo con chi prendersela – e annaspando in cerca di un mondo che in realtà non è mai esistito – nel dubbio se la prende con te.

Petrillo parla del fenomeno dell’erosione della cultura, descrivendone in poche righe i tratti comuni, tracciandone l’evoluzione (o involuzione) sociale e cronologica, che ha portato alla perdita di quello strumento che ci permetteva di collegare i fatti, comprenderne le cause, chiederci il perché delle cose. La cultura, che “tiene insieme memoria e presente” e che ci consente di esprimerci pienamente e nel rispetto di ogni forma vivente. Basta aprire un giornale, mettere un piede su Facebook, leggere malauguratamente qualche scriteriato commento, per rendersi conto di come tutto ciò sia diventato inevitabilmente minoritario.

 

fate

Non solo. Oltre ai conati di rabbia dell’umanità intera, ci sono le tragedie, quelle dell’umano e quelle della natura, a ricordarci, qualora non ce lo fossimo “segnato” da qualche parte, che non siamo imperituri. Che dall’altra parte del mondo, la vita non è un bene di prima necessità.

Mentre cerchiamo di andare avanti con le nostre giornate, ci interpella di continuo la povertà di qualcun altro, la disperazione che spinge ad attraversare il mare anche a prezzo della vita, la vastità dei mondi più poveri del nostro, l’effetto delle scelte dei nostri governi sulla vita di persone in altri paesi, l’abisso dell’ingiustizia sociale, le emergenze climatiche, le iniquità del mercato, l’ansia della competizione, i bambini degli altri, i guai degli altri, gli attentati che colpiscono gli altri.

Per me, l’ultima volta è stata sabato sera, guardando un documentario sulla salute del nostro pianeta, sulla discarica a cielo aperto che è diventato il Bangladesh, sull’inizio della sesta estinzione di massa nell’indifferenza generale. Non ho chiuso occhio per tutta la notte. E di fronte a quello che Petrillo chiama “Il Grande Rancore”, che sia quello dell’umanità o della natura, ho scoperto di non sapere esattamente come reagire. Ho tentato la fuga, con goffe e brevissime evasioni dai social. Ho ceduto anche io alla tentazione dell’attivismo da tastiera, pensando di cambiare il mondo rispondendo a un commento. Spesso, mi sono messa sotto le coperte e ho pianto. Lei ha descritto tutto questo così e io non potrei scriverlo meglio:

ho scoperto che ho un limite. Non posso gestire, elaborare, processare più di una certa quantità di informazioni al giorno – soprattutto se contengono sofferenza, morte, sangue, ingiustizia, sopruso – senza perdere la lucidità, la calma, e in fin dei conti, la capacità di comprenderle e di inserirle in un sistema di collegamenti, senza la quale le informazioni non servono a niente, né a me né agli altri.

Allora, ho eretto anche io le mie protezioni del cuore, quelli che chiamo piccoli atti di resistenza quotidiana, il mio “combat ordinaire”, che, per quanto mi riguarda, avviene soprattutto IRL, ovvero off-line, a schermi spenti. Li ho buttati giù, in una sorta di piano di battaglia, mentre seguivo una lezione poco avvincente sulle tecniche di narrazione del marketing (chi mi conosce sa che sono allergica alle pubblicità, ho tre AdBlock sul computer e nessuna televisione blaterante in casa).

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E allora, eccole qui, le mie modeste tattiche di contrattacco, minute, semplici, attuabili anche con poche risorse, con l’ambizioso obiettivo di “restare umani”:

  • abolire il multitasking: per una poderosa dissertazione sul tema rimando al bell’articolo pubblicato su  Soft Revolution, io mi limito a non consultare il telefono quando cammino (salvo emergenza), togliere gli auricolari e smettere di fare altro quando mi chiama un’amica, restando semplicemente ad ascoltare; concentrarmi su quello che dico e faccio, cercare di vivere nel presente
  • parlare con gli sconosciuti: non sono molto dotata per il cosiddetto “small talk”, l’arte della conversazione spicciola, per discettare del tempo in ascensore, ma non ho paura se qualcuno si avvicina a me per strada. Mi fermo e lo ascolto: se posso lo aiuto, se non posso rispondo educatamente e vado avanti. “Mi dispiace, non ho soldi con me” o ancora “sono di fretta, per oggi non posso” sono sempre meglio che tirare avanti, senza neanche girarsi a guardare. L’indifferenza fa sempre male, anche a chi ci è abituato
  • rinunciare all’overdose di notizie: ho selezionato accuratamente newsletter e fonti neutre e affidabili, cerco di informarmi leggendo anche gli articoli, non solo i titoli ed evito di cliccare sulla cascata di post della mia bacheca su fb
  • i commenti sono il MALE: evito di leggerli, di commentare, di rispondere, di reagire con emoticon, li ignoro più che posso, perché aprono uno spaccato umano con cui non riesco a interagire
  • finanziare e sostenere la piccola editoria (sì, sono un po’ di parte ma tant’è): quando ero piccolina, al primo anno di università, pensavo che se non fossi andata a vivere a Parigi, sarei sicuramente andata a Portland. Non so il perché ma ero innamorata dell’idea di questa città sull’oceano nell’Oregon, dall’altra parte del mondo. Ero anche sostenitrice, con le mie modeste finanze, di una rivista locale: stampa radicale e femminista, The Bitch Magazine, detto il titolo, non c’è bisogno di aggiungere altro. Sono tornata tra i suoi lettori, tra i suoi sostenitori, perché in tempi oscuri come questi, c’è bisogno di ascoltare le donne un po’ di più e dare loro voce. Un motivo in più? Articoli interessanti, grafica user-friendly, etica di ferro: di recente hanno anche detto di no a una offerta di sponsor dalla Coca Cola.
  • non seguire più i miei amici: ovvero, ho preso in prestito il trucchetto di una preziosa conoscenza e anche io ho smesso di seguire la maggior parte dei miei contatti su Facebook e… che dire? si vive meglio senza le foto delle vacanze, i post arrabbiati contro il meteo, i video improbabili, le gif, i servizi del matrimonio, gli sproloqui pseudo-politici e i reportage su infelici exploit culinari.
  • avere speranza: un’amica mi ha detto un giorno “a volte l’unico modo per eliminare qualcuno è guardarlo all’opera”. Oggi mi sono svegliata con un fascistoide impazzito eletto in Brasile, che in confronto Trump sembra un gentleman. In Italia, la società va a rotoli, in Francia, la faccia pulita di Macron non è sufficiente per far dimenticare le scelte ultra-liberiste, i tagli alle associazioni d’integrazione sociale, la completa mancanza di provvedimenti sull’ambiente. Forse siamo solo in un periodo nero della storia, viviamo un’alternanza che rientra nell’ordine naturale delle cose, e forse ha il merito di mostrarci concretamente quello che, passati questi lunghissimi e durissimi quattro anni, speriamo non accada più.

Coltivare umanità, lentezza, silenzio, ascoltare prima di rispondere, informarsi prima di parlare. Cercare di fare, e di fare bene. In un libro che ho letto di recente, si diceva che “il bene è contagioso” e, creandone ogni giorno, “magari il mondo si aggiusta un pochettino”. E se fosse davvero così semplice?

Soundtrack: Pink Moon, Nick Drake

Foto: Ellie Davies