Moon Palace

Nella mia immaginaria e ambiziosa lista delle cose da fare in tempi migliori, c’è il teatro. Dall’altra parte della scena. Tornare sul palco. Realizzare il desiderio di dare vita alle parole, ai personaggi, a quei testi che tanto mi tengono compagnia durante il lavorio della quotidiana esistenza. Essere una commedia, piangere in una tragedia, vivere dentro una storia.

In questi giorni di attesa e incertezza, una mattina, al terzo piano di un edificio in una città più silenziosa e impaurita del solito, io e un esserino di pochi mesi, mentre tutti dormono, ci imbattiamo in un monologo. Quello dello zio Victor al nipote Marco Stanley Fogg, protagonista di “Moon Palace“, romanzo di Paul Auster uscito nel 1989, una di quelle storie di famiglia in cui tuffarsi senza volerne più uscire. L’abbiamo letto ad alta voce, due volte, quel discorso d’addio prima della partenza per la tournée insieme all’orchestrina dei Moon Men in tutti gli Stati Uniti, due pagine in cui lo zio si congeda e abbraccia, per l’ultima volta, il nipote.

Ecco, io questo monologo sogno di recitarlo in teatro, immersa nel buio, sotto l’occhio di bue della scena. Perché? Forse perché dentro c’è tutto: i libri, l’America, la musica, i viaggi, gli addii, le partenze, tutto quello che possa rendermi nostalgica delle vite che non ho vissuto, o vissuto solo in parte, e che giacciono da qualche parte del cuore, insoddisfatte, in attesa che qualcuno un giorno le tiri fuori.

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Olivia Snaije, freelance in bicicletta

Olivia Snaije è nata in Egitto, da madre statunitense e padre cinese, naturalizzato americano. Giornalista, editor e traduttrice, si occupa principalmente di Medio Oriente, multiculturalismo, letteratura e cucina. Dopo aver lavorato a Milano, Londra, Parigi, New York, è tornata nella capitale francese, “da dove”, dichiara, “non mi muoverò più”. 

Olivia in biciclettaIncontro Olivia un lunedì pomeriggio d’agosto, al caffè Le Select, nel cuore del 14simo arrondissement di Parigi. “Venendo qui, mi è venuta un’idea per una graphic novel“, esordisce in perfetto italiano, prima di accomodarsi in terrazza. E iniziare a raccontarmi della sua vita in Francia. “Mi definirei piuttosto una nomade globale, nonché una falsa americana”, ride, “ho ereditato uno stile di vita internazionale da un’infanzia itinerante e questo vuol dire che anche i miei amici sono nomadi come me”, conclude, “sembra quasi che ci si riconosca”. Trasferitasi a Parigi per motivi personali, Olivia oggi lavora da freelance nella capitale. “Ho scelto di circondarmi di persone con le quali posso parlare tre lingue, scivolare dal francese all’inglese all’italiano senza aver paura di essere percepita come una snob o con un’ammirazione fuori luogo quando dico che ho delle origini cinesi e americane e vivo a Parigi”.

Ho l’impressione di vivere più realtà allo stesso tempo”, continua, “sarà perché i miei amici sono sparsi per il mondo o perché cerco di restare aggiornata su quello che succede in varie città e perché ho vissuto in più continenti ma non mi sembra di vivere a Parigi”. Intrecciare legami e coltivarli nel tempo, spostarsi nell’arco di un clic da Beirut a New York, da Tangeri a Roma, transitare in una città, averne la residenza, ma restare viaggiatrice nello stile di vita e nel pensiero. “Qui a Parigi i miei amici sono quasi tutti viaggiatori, come me, affondano le radici in più parti del mondo”, continua, “ho una sola amica che è una francese puro-sangue, io la chiamo la mia amica esotica”.

Vanity Fair, o fact-cheking nello scantinato

Il giornalismo francese non assomiglia a quello inglese, secondo Olivia, dal lavoro sulle notizie alla scritture, decisamente meno asciutta e chiara. “Ho un background anglosassone che ha reso i miei articoli oggettivi, imparziali”, spiega, “sono ossessionata dal fact-checking”. Una deformazione professionale: “ricordo quando lavoravo a New York, da Vanity Fair, come fact-checker, in un ufficio buio al piano di sotto, mentre i giornalisti più conosciuti lavoravano nella redazione principale, luminosa, con uffici da star”.

Vivendo nella capitale francese, è impossibile ignorare Le Monde, ma “mi sembra di non ricavarci molto dalle lettura“, scherza Olivia. “Leggo The Guardian, Publishing Perspective (il giornale per cui collabora, ndr) e, tra le riviste on-line francesi, mi piace molto Rue89“. Pur lavorando principalmente per media tradizionali, Olivia si interessa non poco al magmatico mondo dei blog: “Ad esempio, seguo il blogChocolate & Zucchini, di Clotilde Dusoulier, una francese installatasi negli Stati Uniti, che ha fatto di se stessa un vero e proprio marchio, e, virando su argomenti completamente differenti, seguo il blog ArabLit, sulla letteratura araba“.

L’idea del libro di cucina è nata dal mio lavoro di giornalista culturale”, racconta Olivia, “parlando con gli artisti, gli scrittori, i musicisti, di origini differenti ma tutti di base qui a Parigi ho riscontrato che si assomigliano tutti in un punto: la nostalgia per il cibo della propria madrepatria”. Sembra quasi che le menti creative di tutto il mondo una volta giunte in riva alla Senna abbiano una sola preoccupazione: ritrovare gli ingredienti, i sapori che hanno lasciato a casa. Da qui l’idea di raccontare le disavventure per trovare radici, spezie, aromi, ma soprattutto i consigli, quelli di una viaggiatrice ormai parte della città, sui mercatini, le macellerie, le panetterie.

Di hall fumose a Beirut

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Coco, il pappagallo nella lobby del Commodore Hotel, di solito accoglieva gli ospiti cantando la Marsigliese. Rapito durante l’attacco di una milizia, non fu più ritrovato.

Quello che manca a Parigi è sicuramente un punto di ritrovo per la stampa estera”, continua Olivia, “non esiste un’associazione della stampa estera come quella di Londra o un posto come il celebre Commodore Hotel a Beirut”, mi spiega, raccontandomi di atmosfere forse perdute, club fumosi, chiacchierate infinite tra reporter, confronti sulla terrazza di un hotel dove per 16 anni i giornalisti hanno raccontato una delle guerre civili più cruente del Medio Oriente.

Il mio punto d’osservazione è la mia bicicletta”, afferma Olivia, “muoversi in sella alle due ruote mi permette di restare aggiornata sulla vita in città, se un nuovo bar apre, se una galleria chiude, se qualcosa è cambiato”, la bicicletta come radar, per respirare la brezza e le novità. “Abito nella rive gauche, ma continuo a preferire la rive droite, mi piace molto il quartiere vicino Gare du Nord, penso si stia sviluppando molto”, racconta, “mi piace visitare il 104 e andare a bere qualcosa al 61, l’unico posto di Parigi dove i giornalisti siedono allegramente insieme, in riva al canal de l’Ourcq”.

L’arte, la cultura, per me sono un modo di parlare in maniera più leggera di situazioni socio-politiche delicate”, e, in fondo, “essere giornalisti culturali significa anche avere una buona scusa per incontrare persone incredibili”, per imbattersi in progetti, luoghi, orizzonti, che senza il pretesto di un’intervista non sarebbero mai entrati in collisione con le nostre vite. Molti di questi incontri sono finiti nel suo vecchio blog, One Metropolis, un post dopo l’altro, ambientati tutti in una città differente, per esplorare i problemi della fauna metropolitana. “Sono convinta che un cittadino di Beirut e uno di New York abbiano più cose in comune di due connazionali che abitano nella campagna di una stessa nazione”.

Olivia ha di recente tradotto la graphic novel “Bye Bye Babylon di Lamia Ziadé, dal francese all’inglese e editato la pubblicazione del libro fotografico “Keep your eye on the wall“, sul simbolo del muro nel contesto palestinese. In cantiere, annuncia altri entusiasmanti progetti, nuove corse in bicicletta e, chissà, forse una graphic novel scritta da lei.

Fonti citate

The Guardian

Publishing Perspectives

Rue89

Chocolate & Zucchini

arablit

Spot preferiti

Le 104

Le 61 bar

La New York di Maeve Brennan

copertinaMaeve Brennan è la scrittrice irlandese più celebre della quale molto probabilmente nessuno ha mai sentito parlare. Giornalista da Harper’s Bazaar prima, al New Yorker poi, newyorchese d’adozione, arrivata in America nel 1934, all’età di 17 anni, insieme al padre, sceglie di restare negli Stati Uniti, lasciando Dublino per sempre, ritrovandola solo di rado, nelle sue fantasie ad occhi aperti e in qualche rara visita alla famiglia in Europa. New York diventa così non la sua nuova casa, ma una sorta di residenza, in cui continua a sentirsi sempre una viaggiatrice, una sconosciuta. Straniera negli Stati Uniti, ormai lontana dai ritmi della sua Dublino, Brennan non riuscì mai a sentirsi a proprio agio e, dopo un po’, smise anche di tentarci. Forse è proprio qui che risiede l’inquietudine della sua scrittura, che palpita a ogni riga dei suoi romanzi, nei profili dei suoi personaggi lievi, e raggiunge il picco in questi racconti, un condensato della rubrica “The Talk of the Town”, apparsa sul New Yorker dal 1954 al 1981, e alla quale regalò indimenticabili bozzetti newyorchesi.

NELLA NEW YORK DEGLI ANNI ’60. Pubblicato per la prima volta nel 1969, con il titolo The Long-Winded Lady, la sua raccolta di affreschi metropolitani è uscita in Italia per i tipi di Rizzoli, nel 2010, con il titolo Racconti di New York. Sono parole che profumano di martini e sigarette, di hall eleganti e valigie, che dipingono la New York degli anni ’60, tra miserie e splendori. Tra le pagine, ci si aspetta di veder passare Dorothy Parker con una coppa di champagne o Audrey Hepburn in collier di perle. Infatti, secondo la leggenda, fu un’algida ed elegantissima Brennan a inspirare a Capote il personaggio di Holly Golightly. La sua vita, tuttavia, non ebbe un lieto fine. Dopo un matrimonio sgangherato, anni di solitudine, terapia, crisi, morì da sola e dimenticata dal mondo della letteratura. Bellissima, affascinante, malinconica e inquieta, Maeve Brennan era di quei giornalisti invischiati nella scrittura a ogni passo, che sapevano individuare un personaggio nella folla di Broadway e mettere insieme un racconto breve solo osservando i volti di Times Square. Se Walt Withman diceva di lavorare anche quando bivaccava nei caffè di Brooklyn, Brennan sicuramente collezionava spunti per la sua rubrica al tavolo de Le Steak de Paris, ristorante francese tra i suoi preferiti, o sulle panchine di Washington Square.

TRA UN HOTEL E L’ALTRO. Una viaggiatrice in residenza, amava definirsi. Di quelle che vivono perennemente in condizioni temporanee. Peregrinava da un hotel all’altro della città, indecisa su quale quartiere la facesse sentire più a casa, descrivendo le suite eleganti e le camere più o meno ordinarie degli sciatti alberghi di downtown, alla ricerca della stanza tutta per sé e della vista migliore su Manhattan. Intanto, descriveva il cambiamento desolante di New York, vittima del boom economico ed edilizio, che spariva, anno dopo anno, sotto i colpi delle ruspe. Bestiario della fauna umana newyorchese, dai primi insospettabili hipster alle polverose star del cinema, i racconti sono soprattutto un dispiaciuto ritratto di una città che scompare piano, quasi senza accorgersene, sotto i primi impulsi della gentrificazione.

LA SAUDADE DI NEW YORK. L’anima del libro, tuttavia, si nasconde tra le foglie dell’ailanto, l’albero del paradiso protagonista di uno dei racconti più intensi. New York qui luccica e disgusta, eccita e deprime, e l’unico modo per sfuggire all’inevitabile morsa di nostalgia è trovare il proprio posto nella città, aggrapparsi disperatamente a una, seppur vaga, sensazione di familiarità, individuare il proprio ristorante preferito, prendere sempre la stessa strada per andare al lavoro o per tornare a casa. Perché alla nostalgia di New York non ci sarà mai scampo, la città semplicemente ci tiene in pugno e noi non sappiamo perché. Ma i viaggiatori hanno nostalgie meno feroci. Il viaggio è di per sé un anestetico e, alla fine della strada, si accumulano troppi orizzonti per poter soffrire a ogni addio.

Qui l’articolo pubblicato su OggiViaggi.