Il figlio della mezzanotte

“Data presunta del parto: 31 dicembre.” “Proprio il 31 dicembre?” “Sì, al massimo il 1° gennaio, in ogni caso iniziate l’anno col botto”. La battuta infelice del medico non azzeccò le previsioni. Perché i botti del 31 passarono e anche quelli del primo giorno del 2020 e tu non sei arrivato. Ti sei annunciato all’ora del tè del 2 gennaio, hai aspettato un pomeriggio qualsiasi, quasi per non disturbare, arrivando al mondo in punta di piedi ma con determinazione e in pochissimo tempo. Alle 20 del 2 gennaio, ci hai trasformato in una famiglia di quattro persone, cambiandoci la vita, ancora una volta, e regalandoci una dolcezza che non tornerà più.

È stato, questo, l’anno della chiusura del cerchio. L’anno che ha riportato tutto a casa, compresa me. L’anno in cui ho visto allontanarsi amicizie che tali non erano e tagliare una volta per tutte rami secchi. L’anno in cui semi addormentati da tempo immemore hanno dato finalmente frutto e in cui per la prima volta forse mi è sembrato di raccogliere e non solo di spargere e seminare. In questi mesi, velocissimi e pieni, nonostante il tempo vuoto e sospeso dell’epidemia e dell’isolamento, abbiamo fatto insieme tante cose. Abbiamo scritto un libro. Abbiamo superato due concorsi. Abbiamo iniziato un nuovo lavoro. Tutto insieme, perché non c’erano alternative. Perché un giorno, guardando dietro, tu non debba dire: “la mamma non l’ha fatto per me”. Io ti ho consacrato tutto il mio tempo e il mio sonno perduto. Tu mi hai resa impermeabile alla stanchezza e al dolore.

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Quattro candeline

Quattro anni fa, sei nato tu, in una notte di pioggia forte in un cielo di Francia. E sono nata anche io. Abissi si sono svelati, e un universo è venuto fuori, raccontandomi di contrade inesplorate, di umani che sbagliano, di un amore troppo forte per essere perfetto. La tua vita è la mia nostalgia di Parigi, è il mio aggrapparmi con le unghie e con i denti all’infanzia, siamo io e il tuo papà che ti regaliamo un pezzo di noi, sono le fiabe della pioggia, sono i brividi sulle braccia quando mettiamo i piedi nell’acqua il primo giorno d’estate.

Abbiamo attraversato insieme il paese dei mostri selvaggi, la foresta di Riccioli d’Oro, un oceano, le strade di una capitale europea, i corridoi di un aeroporto, le corsie di un ospedale, le notti più irte e le giornate uggiose, sempre mano nella mano. Tu, primo amore e compagno di giochi, mi hai insegnato come fare le cose una alla volta, ad avere sempre fiducia nel giorno che comincia, a rimboccarmi le maniche anche quando sono stanca, a sentirmi all’altezza di accompagnarti.

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Ci vuole un fiore

Due anni. Duecentocinquantamila bottoncini a pressione. Circa quattrocento notti bianche che non torneranno più. Una ventina di calzini spaiati, le ginocchia sbucciate e le dita rigate dai pastelli. Ti prendo per la mano e corri via. Vuoi fare da solo, scoprire, farti male, sbagliare, sbattere la testa e piangere. E alla fine, continuare a riprovare. E io resto dietro a guardare, senza interrompere. Sbagliare, finire contro un muro e ritornarci è quello che faccio sempre anche io.

Le cose che tu mi hai insegnato, invece, non le conto più. Far scivolare il tempo tra le mani, seduti a terra a guardare una formica. Inventare un alfabeto altro, parole nuove. Sentire la felicità, stesi a terra a guardare il soffitto, mangiando un biscotto. Mi hai insegnato che esistono abissi di paura e che, se guardi bene, in fondo, c’è una risata. Che non ci si conosce mai per intero. E che esiste un tempo parallelo, che non è il tempo degli uomini, ma quello dell’amore ché, se mi stringi la mano, basta un minuto a far passare il mal di pancia di giorni interi, il nodo in gola di tutta una notte.

vedere insieme
una forma
deposta sul fondo

la forma del niente
o quella di un antico insetto
il primo che vide la terra

forse la nostra voce
viene dalle sue ali
il vuoto dal suo cuore spento

mentre tu mi prendi la mano
e mi porti nel punto più buio di tematerassi

 

 

 

 

 

 

Due anni di meraviglia, di stupore, di frustrazioni acerbe e dubbi che tornano a fare visita di notte. Tu, invece, ti addormenti sereno sulla mia spalla, sicuro che se la vita non ha sogni, io ce li ho e te li do, tutti. Tu, così piccolo che mi insegni ad avere fiducia, a seguire l’istinto, a continuare a vivere a modo mio, a credere in quello che sono, ad amare quello che faccio e io che mi ritrovo a inseguire i sogni, a sbattere la testa ancora più forte, a correre dietro a un battito di cuore, a vivere il più possibile, perché tu un giorno sia fiero di me.

Émile, anima antica, che tutto comprende e tutto perdona. L’unico che rimette ogni debito e non conosce il peccato. Il solo che indovina quando ho detto una bugia. Che mi accarezza i capelli quando piango e non mi dice mai di smetterla. Emile, che ancora non parli, che hai un mondo in potenza che sta per esplodere, sulla punta delle tue labbra, e sei l’unico a saper chiedere scusa. Tu che hai poteri magici e neanche lo sai. Che fai volare i gabbiani attaccati alle pagine del libro. Che spaventi la tristezza con un bacio e schiacci la malinconia con un ditino. Che hai sulle spalle la saggezza sconosciuta dell’universo e corri leggero. Insegui le formiche e le saluti prima di andare via. Per te, che per fare tutto ci vuole un fiore.

 

L’amore che ci diamo
ci avvicina alle montagne
agli animali
agli sconosciuti che di notte
ci stringono la mano.

Pensare che Dio ti abbia detto qualcosa
che non ha mai detto a nessuno.
Pensare che tu mi cerchi
per non farmi credere più a niente
che non sia sconfinato.

Buon compleanno, piccola grande vita.

Soundtrack: Piazza Grande, Lucio Dalla 

Poesie di Franco Arminio.

Immagini di Julie Morstad.

Punto di non ritorno

Ci sono viaggi di ritorno che non mi hanno mai riportata indietro. Posti dai quali non sono più tornata. Viaggi che non ho raccontato a nessuno, quelli che mi hanno fatto sentire grande per la prima volta, preparare una valigia al volo e partire, senza dover chiamare nessuno all’atterraggio. Voli che mi hanno catapultato per qualche giorno nelle vite altrui. Partenze che ho confidato solo a pochi, con una promessa: “se ritorno, dammi uno schiaffo“.

Poi ci sono anche i viaggi di ritorno ordinari, standard, quelli che non ho mai descritto perché sono solo una banale attesa tra due destinazioni, che servono solo a trasportarti da un luogo all’altro della terra. Sono di solito i più lunghi. Come il mio primo viaggio di ritorno dagli Stati Uniti, una traversata durata mezza giornata. Da New York a Roma, da Roma a Brindisi, con i diari di Susan Sontag in mano e l’adrenalina di tre mesi in America ancora tutta ferma in un nodo in gola.

Quello cominciato un anno fa è sicuramente il più importante dei miei viaggi, quello dal quale non sono più tornata e sicuramente non tornerò più. Per mesi, sono rimasta nel mio quartiere, nel punto più alto di Montmartre. Ho smesso perfino di prendere la metropolitana per un po’. E senza muovermi da casa, ho conosciuto parti di me stessa che non avrei mai sospettato d’avere. Abissi di gioia, talmente grande da far paura a guardarci dentro. Cascate di impotenza, cime altissime di rabbia, tempeste di stanchezza. Il dolore fisico più grande mai sopportato prima. I nervi che saltano. Il cuore che batte per cose nuove. Sfumature inedite che ho dato alle parole amore, vita, solitudine, tempo, libertà.

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La vista dalle finestre dell’ospedale, un anno fa.

Quando Émile è nato, il 31 maggio dello scorso anno, a Parigi pioveva. Era un maggio insolito, molto diverso da questo mese asfissiante che ci sta trascinando già stanchi e arsi all’inizio dell’estate, da questa primavera volata via. Sulle finestre dell’ospedale Lariboisière, batteva forte il vento e cadevano righe di pioggia. Sul mio comodino, gli antidolorifici quotidiani, gli antispasmodici, un bicchiere d’acqua e una pila di libri e fumetti presi in prestito alla biblioteca dell’ospedale, che non avrei mai letto.

Davanti a me, ore interminabili di attesa, la pancia stretta in un laccio e cronometrata, l’anestesia che non funziona, qualche minuto nella terra di nessuno e poi un esserino raggomitolato tra le braccia, con gli occhi semichiusi, dove già mi sembrava di intravedere tratti familiari, una testolina minuscola che pensavo di conoscere da sempre.

Dopo le prime lacrime, ne sono venute altre, e poi non c’è stato più tempo per nulla. Dodici mesi di notti bianche, una valanga di preoccupazioni e inquietudini, migliaia di puntini rossi (rosolia e varicella in un mese solo), capelli con dentro bava, pipì, crema di verdure, banana mangiucchiata, pomata per il culetto, CACCA, sabbia e pezzi di pannolino decomposto, ogni testa più o meno pensante che si sente in diritto di insegnarti a prenderti cura di tuo figlio. Decine di prime volte: la prima pappa, la prima caduta, il primo passettino, il primo volo in aereo, la prima notte completa, la prima babysitter, il primo dentino, la prima volta seduto, la prima volta in piedi, la prima notte completa, il primo pomeriggio senza la mamma, la prima febbre alta, il primo bacino, la prima parola, che non è mai mamma.

Quest’anno sono spariti tanti vecchi fantasmi, ma ne sono forse comparsi dei nuovi. Quando ho scoperto di essere incinta, un’amica mi disse: “le nonne dicevano che quando fai i figli ti passa il mal di testa, nel senso che poi non ti viene più, nel senso, forse, che poi non pensi più alle stupidaggini, che finalmente hai fatto qualcosa di serio, di vero, di importante e, dunque, non ha più tempo per “i  mal di testa”… Ti sembrerà strano, ma adesso tutto sarà più semplice, le cose stanno così e basta“. E forse aveva ragione. I problemi non sono spariti, ma ho imparato a vederli, a rinchiuderli in una parola, a metterli a fuoco, sono diventati ostacoli concreti, che posso evitare, saltare o a volte prendere a calci, quando non ne posso più.

Se è vero che in amore siamo tutti principianti, con un esserino di un anno bisogna ricominciare dalle basi. Mi rimetto in discussione, conto fino a dieci quando tutti i piani e i progetti vanno a monte senza una vera ragione, mi chiedo il perché delle cose, dove sbaglio, perché sbaglio, faccio infiniti passi indietro nella speranza di farne anche uno solo in avanti, e non smetto mai di cercare. E di perdermi ogni giorno in un paio di occhietti neri.

E anche se l’autosvezzamento, il metodo Montessori, l’apprendimento del sonno, per ora sono un buco nell’acqua, spero solo di riuscire a insegnargli le certezze del dubbio, per citare la mia Goliarda, e quanto faccia bene alla salute, una volta ogni tanto, regalarsi un punto di non ritorno, tirare una linea e ricominciare da capo.

Buon compleanno, Émile, piccola grande vita

la tua mamma