Montreuil: Silent University a Bamako-sur-Seine

A Montreuil piove. È una grigia mattinata di fine maggio e alle porte di Parigi inizia un lunedì come tutti gli altri. Montreuil, periferia a est della capitale, conta il 20% di stranieri su una popolazione di poco più di 100.000 abitanti.

L’altissima concentrazione di maliani le ha valso il soprannome di “Bamako-sur-Seine” tra gli autoctoni. Ci sono almeno 112 nazionalità diverse, tra cui almeno 31 paesi africani, e il 50% dei bambini è straniero. Un melting pot effervescente sostenuto da una rete associativa capillare che a Montreuil si occupa, in maniera più o meno efficace, d’integrazione, al quale si aggiunge un nuovo fenomeno demografico che, di recente, ha fatto di Montreuil una delle cittadine prese di mira dalle giovani coppie, stanche forse dei ritmi parigini, ma non così tanto da rinunciare alla metropolitana vicina, e sedotte dalla possibilità di affittare un appartamento di 60 metri quadri con giardino a una cifra, forse, inferiore ai 1000 euro. Montreuil, cittadina “bobo” e rifugio d’immigrati.

È in questo variegato tessuto sociale che ha messo radici la Silent University, una sorta di università parallela nata per favorire la circolazione e la messa in pratica del sapere e delle conoscenze, pensata per coinvolgere rifugiati e immigrati nella vita accademica e professionale del loro paese d’accoglienza, liberando gli invisibili contemporanei dalla rete vischiosa della burocrazia europea.

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Il progetto, nato nel 2012 a Londra presso la Tate Gallery, da un’idea dell’artista e attivista curdo Ahmet Öğüt, 33 anni, nasce dalla concezione del silenzio come forma di resistenza attiva, gesto di protesta e come condizione propedeutica all’ascolto. L’obiettivo è la creazione di una comunità di persone che abbiano voglia di condividere le proprie competenze con gli altri, attraverso una piattaforma autonoma on-line.

La modalità è semplice: ci s’iscrive indicando quali competenze si possiedono e quali possono essere condivise, si indica la quantità di ore da poter dedicare al progetto. Una volta registrati, è possibile proporre una serie di lezioni e tutti i corsi sono a disposizione, gratuitamente. Ogni docente elabora il corso nella lingua e nel formato che preferisce, abitualmente sotto forma di dispense e slide, con l’aggiunta di contributi video.

Per ora, è possibile seguire, tra gli altri, un corso sulla Storia della Letteratura curda, uno studio comparativo tra le leggi della Sharia e il sistema politico svedese, un corso pratico su come creare il proprio business personale, lezioni sulla calligrafia araba e una sessione sulle malattie sessualmente trasmissibili e la storia dell’HIV. Infine, ci sono i consulenti, avvocati, commercialisti o semplici cittadini, con un passato da immigrati illegali, ormai perfettamente inseriti nella comunità, che offrono a chi ancora arranca dritte e consigli.

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Dopo Londra, la Silent University ha aperto le porte a Stoccolma, presso la Tensta Konsthall, è in procinto d’apertura a Berlino e, dallo scorso ottobre, ha trovato casa a Parigi. “No, a Montreuil”, precisa Maya Mikelsone, 32 anni, di origine lettone, unica responsabile della Silent University francese. Una precisazione non da poco, visto che è la città di Montreuil a finanziare l’iniziativa per un anno e a permettere che il piccolo ufficio della Silent University sia accolto dal 116, un contenitore d’arte nuovo di zecca alle porte della città.

È al terzo piano di questo immenso centro d’arte contemporanea, ridipinto di bianco, che la Silent University ha aperto i battenti, accogliendo curiosi e visitatori in due stanzette, che odorano ancora di mobili nuovi e carta appena stampata. Sulla porta, il logo del progetto, uno scudo giallo e nero.

“Bisogna rivoltare il concetto di università dall’interno e presentarsi seriamente, a cominciare dal logo, volutamente istituzionale”, ha dichiarato Öğüt, “se ci presentassimo come un progetto troppo alternativo non saremmo neanche presi in considerazione”, l’idea è invece quella di fornire diplomi e attestati che abbiano la stessa validità delle istituzioni universitarie tradizionali. Come ha specificato Öğüt: “vogliamo creare una piattaforma che riattivi le competenze accademiche dei richiedenti asilo, ma è importante capire che la parte più importante del nostro processo è l’approccio iniziale a questo tipo di comunità, che, purtroppo, è fatta solo di ombre”.

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In ogni città, il progetto prende una forma diversa: “è inevitabile”, spiega Maya, “ogni stato prevede leggi diverse in materia di immigrazione e la popolazione è differente”. Ma l’intenzione resta la stessa. Dare voce a chi non ne ha. È per questo motivo che nel 2013 la Silent University ha vinto i Visible Awards, un riconoscimento che premia i progetti artistici impegnati nel sociale in grado di ripensare le città e gli spazi urbani.

Fulcro del progetto è, infatti, la riflessione sul concetto di visibilità e invisibilità, dell’immigrato percepito come risorsa o come problema o, semplicemente, come essere umano. “Penso ai moduli da completare per la registrazione degli immigrati”, chiarisce Maya, “la loro professione, i loro studi, non sono richiesti”. Eppure, nella maggior parte dei casi, si tratta di rifugiati costretti a venire in Europa, che vorrebbero tornare indietro o almeno fare quello per cui hanno studiato e in cui hanno investito.

Il paradosso, sebbene prevedibile, è che questo progetto, nato per immigrati e rifugiati, abbia attirato l’attenzione di intellettuali e artisti, almeno in quel di Parigi. In Francia, infatti, ci si ritrova con un’abbondanza di consulenti ma pochi conferenzieri: “ci rivolgiamo a persone in difficoltà e dovrebbero essere loro gli attori principali, invece sono contattata da tutt’altro tipo di persone”, spiega Maya.

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In Francia, la Silent University ha assunto contorni artistici, troppo idealisti forse, studiosi e professionisti dello spettacolo sono attratti dal progetto, dall’idea dell’impegno sociale, dalla possibilità di un’ulteriore vetrina o, più banalmente, dal pensiero di sentirsi utili e di mettere il proprio pensiero a disposizione della collettività, ma sembrano perdere di vista lo scopo principale, cioè quello di coinvolgere gli immigrati. “Credo che molti di loro abbiano problemi con i documenti e non vogliano mettere i propri dati on-line”, continua Maya.

E qui, forse, s’intuisce quella che è un po’ la falla di questo progetto, nobile nelle intenzioni, forse ancora troppo poco rodato. I luoghi, gli spazi, sembrano non corrispondere alla filosofia: internet, purtroppo ancora non accessibile a tutti, ma soprattutto i grandi centri d’arte, dalla Tate Gallery al 116, dove difficilmente si vedrà entrare un rifugiato. Così a Montreuil, città che conta una delle più alte concentrazioni di stranieri e immigrati nella periferia vicina alla capitale, non si trovano persone da aiutare.

Forse basterebbe anche solo fare un salto nella biblioteca comunale, enorme e attivissima, che da tempo organizza corsi di francese anonimi. Un banchetto della Silent University, all’entrata, sarebbe forse più utile di questo ufficetto patinato nascosto al terzo piano di un centro d’arte. Il progetto nasce effettivamente per muoversi da solo, indipendente, on-line, ma, tenendo conto dell’altissimo potenziale, lo si vorrebbe magari un po’ più concreto, con meno fili e piattaforme, più radicato nella realtà locale.

Probabilmente, alla fine del mandato di un anno, la Silent University cambierà posto, si parla del Centre Pompidou. Forse si dissolverà nella rete o diventerà, idealmente, itinerante, senza un vero ufficio. Senza fissa dimora e magari più vicino allo stile di vita dei suoi studenti.

Qui l’articolo pubblicato su Doppiozero.

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Hollande in stile gangsta

Si chiama Pierre-Yves Bocquet, ha 40 anni, ed è uno degli uomini in giacca e cravatta che ogni mattina attraversano la rue du Faubourg Saint-Honoré per arrivare puntuali in ufficio. E non in un ufficio qualunque, ma all’Eliseo, nel cuore dell’ottavo arrondissement di Parigi. C’è però una parte della Francia che lo conosce, anzi lo legge, sotto il nome di Pierre Evil, critico musicale gagliardo, di quelli che non la mandano a dire, appassionato e cultore di gangsta-rap. Da circa due settimane, tuttavia, Evil, la metà oscura, è stato messo in cantina, in favore di Bocquet, l’alto funzionario, nuovo paroliere di François Hollande, la cui missione sarà quella di impiegare il suo estro letterario al servizio dello stato e scrivere i discorsi, le prefazioni e gli interventi del primo uomo di Francia. Anche se, hanno precisato gli uomini del presidente, non si tratterà di redigerli dall’inizio alla fine ma solo di “preparare”, una sorveglianza speciale alla sintassi e allo stile, insomma, perché “Hollande ama scrivere da solo i suoi discorsi”.

Così Hollande cambia stile e, quando ha deciso di regalarsi un ghost writer nuovo di zecca, non ha dovuto fare molta strada. Bocquet era, infatti, già in carica presso il governo, precisamente agli affari sociali. La sua militanza negli ambienti politici, però, comincia durante gli studi, quando è tra gli eletti del più grande sindacato studentesco di Francia (UNEF). La carriera all’Eliseo debutta, invece, nel 2000, presso l’ufficio di Elisabeth Guigou, ministro del Lavoro ai tempi di Lionel Jospin. Adesso Bocquet prende il posto di Paul Bernard, che lascia il calamo di stato per ragioni personali, secondo quanto indicato dalle fonti ufficiali.

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Una notizia che ha destato l’attenzione, soprattutto per l’anima nascosta di Bocquet e per la sua doppia vita: alto funzionario discreto di giorno, critico musicale sovversivo di notte. Pur restando sempre anonimo, infatti, si era già fatto notare ai tempi in cui era redattore musicale per il magazine culturale Chronic’art, per lo stile hardcore e soggettivo, con incursioni inaspettate nella sociologia alla Bourdieu. Fred Hanak, giornalista e suo ex collega, nonostante non l’abbia mai incontrato di persona, ne dice meraviglie: “Evil sa di cosa parla, prende il tempo necessario per capire le parole, non fa mai errori, usa i riferimenti con maestria e non bada certo ad accattivarsi gli artisti”. Per lui, Bocquet anzi Evil, è tra i tre migliori critici francesi di rap, nonostante la sua conoscenza del rap domestico lasciasse a desiderare. “Evil è come Chirac”, continua Hanak, “un mago nella politica estera, scarso in politica interna”. Cyril de Graeve, che fu suo caporedattore sempre presso Chronic’art, lo ricorda come un uomo senza particolari stravaganze, vestito con poca fantasia ed eccentricità, tutto il contrario dei suoi articoli. “Si faceva vedere poco, lavorava per noi in maniera sporadica e come volontario”. Bocquet ha anche firmato con il suo pseudonimo (che, non ce ne voglia, fa un po’ sorridere) Pierre Evil, il libro Gangsta-Rap, pubblicato nel 2005 dalle edizioni Flammarion, il volume Detroit Sampler, in uscita, e un documentario per ARTE, nel 2008. Bocquet sarebbe quindi avvolto da un’aura di mistero. I suoi stessi colleghi non sapevano nulla della sua vita e, secondo quanto ha riportato Le Monde, gli anelli brillanti e massicci che sfoggiava alle mani hanno destato più di un pettegolezzo tra i corridoi.

Hollande, la cui presidenza era stata salutata con il terribile epiteto di “normale”, si sta rivelando ai francesi ben più stravagante di quanto abbia lasciato intuire due anni fa. Dopo l’affaire Gayet che ne ha rivelato le improbabili doti di tombeur de femme, adesso Hollande sembra seguito a vista dalla stampa che non perde occasione di metterne in rilievo stranezze e mondanità. Che sia uno stratagemma per recuperare terreno e affrontare il più basso tasso di popolarità nella storia della repubblica francese? I sondaggi hanno rivelato, infatti, come la love story con l’attrice francese abbia incrementato l’approvazione dei cittadini per il loro presidente, che non ha invertito la curva della disoccupazione ma almeno si è conquistato un po’ di spazio in più sui giornali. Questo non ha impedito, tuttavia, a Hollande di mantenere il record del 71% di impopolarità, soprattutto dopo la sonora sconfitta delle municipali, un tasso superato solo dal suo ex primo ministro Ayrault, in pole position con il 74%.

In ultimo, per quanto riguarda la sua nuova penna, che i sostenitori di François il Normale non si spaventino. Pierre Evil, ricercato disperatamente per portare un po’ di carisma nel grigio Eliseo, ha sì un nome d’arte da figlio del Bronx ma si presenta con un curriculum d’eccezione e ha gli assi nella manica necessari per ogni francese che voglia bussare alle porte dei palazzi importanti: la rispettabile Sciences Po e l’ENA, la scuola nazionale d’amministrazione, con sede a Strasburgo, che ha visto sui banchi di scuola anche Chirac, Valéry Giscard D’Estaing e lo stesso Hollande, biglietti da visita che di solito fanno brillare gli occhi a ogni francese vecchia scuola che si rispetti, ben più importanti anche della sua decantata ars oratoria.

 

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Paris sans le peuple

“Abitare a Parigi è un chiaro segno di dominazione sociale.” È la tesi, ampiamente dimostrata, della ricercatrice Anne Clerval, autrice del libro Paris sans peuple (edizioni La Découverte), pubblicato lo scorso settembre, dove la geografa esplora le dinamiche della gentrificazione nella capitale. Clerval prende in esame, in particolare, tre aree: il faubourg Saint-Antoine, il fauborg du Temple e Château Rouge. Quartieri centralissimi, brulicanti, la cui fauna umana è sì mista ma, sembrerebbe, quasi suo malgrado.

Perché Clerval usa il termine “gentrificazione”? Questo neologismo inglese, creato dalla parola “gentry”, che designa, in modo peggiorativo, le classi agiate, è stato inventato nel 1964 dalla sociologa marxista di origini tedesche Ruth Glass, a proposito di un quartiere di Londra. “A Parigi, si può parlare di imborghesimento per i quartieri ricchi”, spiega Clerval in un’intervista a Libération, “ma questo non ha niente a che vedere con la gentrificazione, una forma di imborghesimento che tocca i quartieri dove le classi popolari sono progressivamente rimpiazzate da una classe intermedia che potremmo definire come piccola borghesia intellettuale”.

Questa mutazione, essenzialmente sociale, le cui conseguenze sono però per lo più urbane, quando non architettoniche, ha coinvolto la capitale francese relativamente tardi rispetto ad altre metropoli, come Londra e New York, in virtù del controllo degli affitti che, fino agli anni ’80, ha posto un freno alla speculazione immobiliare. La gentrificazione ha mosso i primi passi negli anni ’60 e ’70, iniziando dalla rive gauche, fino a coinvolgere il Marais e la Bastille, spostandosi sempre più a destra. Oggi, secondo Clerval, quasi tutti i quartieri di Parigi hanno ormai un’inconfondibile aria borghese e la capitale, a differenza di quanto si vorrebbe pensare, è sempre meno mista. Tuttavia, la geografa ha individuato almeno sei “tipi umani” presenti in città, dal “molto borghese”, avvistato di preferenza nei pressi della Tour Eiffel e degli Champs-Elysées, al “molto popolare”, passando per il tipo “salariato del settore terziario” e il tipo “misto in via di gentrificazione”.

I gentrificatori sono descritti quasi come una specie a sé stante, avvistati solitamente in appartamenti con travi a vista e finestre aperte su raffinate corti interne, “attirati dagli spazi atipici, soprattutto dagli ex locali industriali, che possono essere riconfigurati per intero, ispirandosi ai loft di New York”. Sono fieri del proprio appartamento di 100 metri quadri ma tengono a distinguersi dai borghesi, quelli veri, secondo loro, che popolano i bei quartieri come il sedicesimo e il sesto arrondissement. Hanno scelto di abitare in quartieri come il decimo o, ancora, il ventesimo, nelle zone di Belleville, perché costretti dal mercato immobiliare. La scelta dietro tale residenza è il desiderio di abitare, costi quel che costi, a Parigi, dentro il boulevard périphérique. Sono le stesse persone che, sedute ai tavolini dei bar chic della place Sainte-Marthe o della rue Oberkampf, si vantano di abitare in un edificio colorato e multi-etnico, ma, come spiega benissimo Clerval, sarebbero ben contente se questa multietnicità si potesse limitare a una scenografia esotica e chiassosa, ben lontana dalla soglia d’ingresso. Sono soddisfatti e orgogliosi se possono sbandierare a conoscenti e colleghi di essere diventati amici della fruttivendola tunisina o del tabaccaio cinese, ma non esitano ad aggiungere che il loro condominio puzza di cumino o che ci sono troppe facce arabe per le scale.

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I commerci esotici sono guardati con sospetto, se non con ribrezzo, come nel caso delle macellerie halal, ma fanno parte di un colorato decoro, nel quale i gentrificatori amano trastullarsi, per sentirsi parte di un universo multiculturale, contribuendo a quello che il sociologo Patrick Simon chiamava “l’effetto-paesaggio”.

L’effetto-paesaggio, tuttavia, non influenza le scelte relative all’istruzione. I gentrificatori agiati evitano le scuole popolari di quartiere e conducono una vera e propria battaglia per permettere ai propri figli di accedere a istituti privati, lontani da casa. Infine, sono portatori attivi di una contraddizione: l’amore per il verde, che conciliano con l’ossessione di abitare in centro, o per lo meno, nei dintorni: “sebbene restino inguaribilmente cittadini e parigini, approfittando di tutte le amenità del centro di una capitale, li si sente talvolta farsi portavoce di alcuni discorsi che sembrano vicini all’ideologia americana anti-urbana, affermando chiaro e forte la loro preferenza per la natura, sebbene ridotta semplicemente a qualche sprazzo di verde”.

Gli stessi luoghi di cultura, installati in quartieri periferici o delicati, si rivelano ambigui e, addirittura, in qualche caso, controproducenti. Clerval propone l’esempio della Maison des Métallos, antica fabbrica di strumenti musicali, poi sede del sindacato dei metalmeccanici, ora, secondo la definizione presente su internet, “struttura culturale della città di Parigi”. Per quanto originale e ricercata, la programmazione della Maison è estremamente di nicchia, dal punto di vista economico e contenutistico.

Il risultato è, quindi, non quello di coinvolgere la popolazione dei quartieri nelle attività culturali locali, ma quello di attirare sempre gli stessi utenti anche in territori dove prima non osavano arrivare, ottenendo un appiattimento del pubblico e un’omogeneizzazione dell’offerta, mirata sempre allo stesso tipo di spettatori.

Un intrattenimento d’élite che passa anche per i caffè e i bar di quelli che una volta erano i quartieri popolari. La Bellevilloise nel 20° arrondissement, il Nouveau Casino, sulla rue Oberkamp, il caffè La Java, nella scapestrata rue du Faubourg du Temple, sono altrettanti luoghi per la jeunesse, se non dorée, certamente branchée della capitale, riservati a un certo tipo di clientela. Sembrerebbe addirittura che siano questi i veri ghetti, oasi chic impiantate in quartieri popolari, circondate da una barriera invisibile, e certamente non accessibili a tutti.

La gentrificazione è iniziata tramite iniziative private, spinta da esigenze economiche, mutandosi velocemente in fenomeno sociale, i cui attori sono ben individuabili. Dalla piccola borghesia intellettuale, dell’età di circa trent’anni, attiva nei settori della comunicazione, del marketing e dello spettacolo, ai proprietari di caffè alla moda, nuovi luoghi di ritrovo, dal decoro magistralmente studiato, tra antico e nuovo, fino ai promotori di beni immobiliari, le banche e le agenzie, che incoraggiano un certo tipo di persone, e di redditi, a popolare i quartieri presi di mira.

Basta vagabondare per la rue Oberkampf, dopo il tramonto, per rendersene conto. Dagli appartamenti, quasi tutti senza tende, è facile distinguere i muri scarni, con le lampadine penzolanti dal soffitto, dalla carta da parati che fa da sfondo a ricche biblioteche e plafoniere, di gran lunga in maggioranza, segno inequivocabile di un cambiamento della popolazione.

Tra i fattori che hanno favorito la gentrificazione, si annovera una smodata politica urbana di rinnovazione, definita, per l’appunto, “rinnovazione-bulldozer”, che ha distrutto intere aree per ricostruirle con immobili nuovi. Conseguenza questa, secondo il socio-demografo Patrick Simon, della disindustrializzazione di Parigi: “i nuovi settori del terziario non richiedono più il ricorso a una manodopera proletaria, diventa quindi inutile conservare le famose riserve di classi popolari”, relegate nelle vicine e sempre più temute banlieue, nonostante Valéry Giscard d’Estaing avesse promesso di arrestare la costruzione di torri nella capitale e Chirac avesse dichiarato la ferma intenzione di preservare la “Parigi dai cento villaggi”. Inoltre, troppo cari per i precedenti inquilini, i nuovi immobili corrono il rischio di restare parzialmente vuoti, dando ai quartieri un’aria di città fantasma, che Klapisch ha mostrato nel suo film del 1996 Ognuno cerca il suo gatto.

Oltre al fastidio nel ritrovarsi sempre i soliti volti in tutti i quartieri e al propagarsi di questa nuova specie sociale, una delle conseguenze più gravi della gentrificazione è sicuramente l’esclusione delle classi popolari e degli immigrati, privati del proprio spazio urbano. Il costo spropositato dei nuovi alloggi costruiti dalla città di Parigi, un’offerta commerciale e culturale che punta ad un altro tipo di clientela, sono solo alcuni dei fattori che contribuiscono all’emarginazione di una certa classe sociale. Lo spazio pubblico, per preservarne la tranquillità e il decoro, è sottoposto a una serie di regole che ne mettono in discussione l’accessibilità. Lo sgombero delle classi popolari prelude quindi al loro annullamento, se non alla loro invisibilità. E non c’è bisogno di spingersi fino al 19° arrondissement per rendersene conto.

Clerval cita ancora una volta l’esempio del centralissimo faubourg Saint-Antoine, a un passo da Bastille: un tempo regno degli artigiani del legno, ebanisti e corniciai, oggi solo un paio di atelier sono sopravvissuti all’avanzata delle nuove professioni liberali e, sul vicino parco della Cité Prost, si dilettano nel week-end i soliti noti, famiglie agiate sui trent’anni, bianchi, ben vestiti, equipaggiati di passeggini ad alta tecnologia per i bambini. Questo ripiego delle classi popolari è una diretta conseguenza della privatizzazione dello spazio pubblico. Un altro esempio è la place Sainte-Marthe a Belleville, un tempo regno incontrastato dei giovani del quartiere, nelle ore notturne anche scenografia di traffici illeciti, ma libera e pubblica, oggi colonizzata da caffè alla moda.

Ma esiste un modo per resistere alla gentrificazione? Clerval cita numerosi esempi di militanza contro questa nuova geografia urbana, uno fra tutti l’associazione Les Enfants de Don Quichotte, installata in riva al Canal Saint-Martin, luogo strategico dove i colori pastello dei negozietti chic e dei vestiti delle parigine poco si abbinano al grigio delle tende dei clochard che popolano le rive. L’associazione rivendica il diritto di abitare la città, di popolarla, andando controcorrente rispetto alla rivendicazione del “diritto alla calma” dell’omonima associazione di Château Rouge, che vuole fare del quartiere a prevalenza africana un quartiere “normale”. I movimenti di militanza mettono in guardia rispetto a un concetto illusorio di varietà sociale, che serve più che altro a mettersi a posto la coscienza con la propaganda di un finto “vivere insieme” tra borghesi e proletari.

L’arma contro la gentrificazione non sono gli alloggi sociali né una finta varietà etnica, ma è il diritto alla città, così come lo aveva concepito Henri Lefebvre, sociologo e filosofo marxista francese: la possibilità di auto-gestire la propria città e di averne accesso; il diritto di decidere come produrre lo spazio urbano; la libertà di scegliere che utilizzo farne e per quale società.

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Libération a 40 ans

“Eravamo in 50 in 30 metri quadri e tutti fumavano Gauloises”, è il ricordo vivido di uno dei redattori. Era il 5 febbraio del 1973, quando il primo numero di Libération debutta nei chioschi. Non c’è ancora il celebre logotipo rosso, ma una fotografia campeggia sulla prima pagina, accanto alla promessa editoriale “Si vous le voulez un quotidien libre tous les matins”, letteralmente “Se lo volete, un quotidiano libero tutte le mattine”. Si presenta così, alla Francia post-sessantottina, il primo numero di Libé, come è affettuosamente soprannominato, un puro prodotto del maggio ’68, concepito in un momento d’ebbrezza, quasi d’incoscienza. Diventato ufficialmente un quotidiano nel maggio del ’73, venduto in edicola al prezzo di 0,80 franchi, Libération ha festeggiato i suoi 40 anni lo scorso anno, celebrando quattro decenni di informazione militante e attivismo.

Per l’occasione, la redazione ha lavorato a uno speciale “libro anniversario”, dove si racconta la storia di un’epoca, si passano in rassegna circa 10.000 edizioni del quotidiano e il lavoro di quasi 1000 giornalisti. Ma non solo. Libé ha raccolto tutte le sue prime pagine più significative in una mostra al centro d’arte contemporanea 104, nel nord di Parigi, e ha organizzato una serata danzante con ospiti internazionali e personalità del mondo dell’arte. “Perché fare un evento di quello che alla fine è stato solo un susseguirsi di giornate e giornali?”, è la domanda retorica del direttore Nicolas Demorand. La risposta, almeno in parte, è nei numeri: lo scorso 9 luglio, il giornale punto di riferimento degli intellettuali di sinistra, il primo organo d’informazione francese a parlare di omosessualità, aborto, ambientalismo e carceri, ha festeggiato i 10.000 numeri, che, tradotti in cifre, equivalgono a 80 km di carta, 800.000 titoli, 2 miliardi di battute e quasi 450.000 foto.

“Peuple, prends la parole et garde-la”, letteralmente “Popolo, prendi la parola e mantienila”. Era questo lo slogan di Libération, che, con la benedizione di Sartre, padre fondatore del quotidiano, sin dai suoi primi passi ha tentato di rivoluzionare la stampa: stesso stipendio per tutti, dal direttore all’ultimo arrivato, gerarchia ridotta al minimo, niente pubblicità e niente azionisti privati, per una completa indipendenza dell’informazione. Erano gli anni dell’avventura e dell’audacia, si sopravviveva grazie agli amici artisti che mettevano in vendita all’asta le loro opere d’arte e alle donazioni dei primi affezionati lettori. Questa semi-anarchia arrivò a un punto cruciale quando nel 1981 il giornale cessò le pubblicazioni. “Libération s’arrête pour libérer Libération”, aveva dichiarato Serge July, cinefilo e intellettuale amico di Sartre, che, appena ottenuti pieni poteri decisionali, licenziò in massa i redattori e scelse di ricominciare con una squadra ridotta, incaricata di ideare il “giornale che abbiamo voglia di leggere”. Superato l’impasse, il giornale tornò in edicola per quello che viene ricordato come il suo decennio d’oro, ma anche come il momento della normalizzazione, inevitabile per quanto non desiderata all’unanimità. Libé abbandona il chiassoso quartiere di Barbès e si rifugia presso place de la Bastille, in una nuova sede, dove inizia ad aprire la porta anche alle prime pubblicità.

Non per questo, tuttavia, Libé perde la sua impertinenza e il suo piglio audace, visibile negli arguti giochi di parole e nei titoli taglienti. Il quotidiano mantiene la promessa di un impegno non solo politico, ma anche estetico, dall’immagine in copertina alle illustrazioni che accompagnano gli articoli all’interno, tutti simboli di uno stile che, capitanato dalla losanga rossa, hanno contribuito a dare al quotidiano un’impronta unica sulla scena dell’informazione. Sotto l’egida di Serge July, prende forma il primo giornale in cui non ci sono redattori professionisti ma si dà spazio alle voci dal basso, come Michel Chemin, giovane operaio metallurgico che si ritrova a integrare la redazione nel 1974. E, nell’intenzione di avvicinarsi al giornalismo statunitense, gli articoli assumono sin da subito un taglio soggettivo, emotivo, che va oltre il semplice resoconto dei fatti e non ha paura di prendere posizione e schierarsi. Libérations’impone come quotidiano militante, che ospita sulle sue pagine gli scritti di autori come Marguerite Duras, le opinioni dei filosofi vicini agli ambienti di sinistra e inaugura i suoi celebri ritratti.

L’anniversario ha coinciso, purtroppo, con un triste record per il quotidiano, le cui vendite, dallo scorso gennaio, sono precipitate del 41%. Ma non solo. Libé deve anche fare i conti con un certo malcontento, sempre più diffuso, tra chi vede nel quotidiano fondato da Sartre il simbolo di una certa Francia bobo, affezionata ai suoi cliché piuttosto che a una vera informazione. Un anno intenso per Libé, che, come se non bastasse, il 18 novembre scorso, ha assistito inerme all’attentato dove è rimasto ferito un giovane fotografo di 23 anni. È stato forse per distendere l’atmosfera e placare gli animi che, in redazione, si sono lasciati andare a qualche divertissement, come il numero immaginario del quotidiano, datato 1° dicembre 2053, dove i giornalisti hanno immaginato l’attualità dei prossimi 40 anni, dopo un black out di internet durato 6 ore, e un’edizione d’autore, firmata da Bob Wilson, ospite d’onore del numero del 28 novembre, concepito, creato e impaginato in persona dal regista statunitense, invitato per un giorno negli uffici di Libé, per giocare con battute e titoli, finendo per incorniciare le pagine del quotidiano con un testo del suo amico John Cage.

Per non soccombere davanti alle gravi perdite economiche, già nel 2006 il quotidiano si era sottoposto all’acquisto del 40% delle sue quote da parte dell’imprenditore francese Edouard de Rothschild, evento che provocò le dimissioni di giornalisti come l’inviata Florence Aubenas ma anche dell’allora direttore July, il quale si disse pronto a sacrificarsi per l’avvenire del giornale. Il suo solo sacrificio non basterà: alla fine del 2006, sono 76 i dipendenti che perdono il posto. Duro, in proposito, il commento di Bernard Lallement, tra i fondatori del giornale, che dichiara caustico: “Il denaro non ha idee”.

Oggi Libé è cambiato. A fumare Gauloises nella redazione non ci sono più gli intellettuali che leggono Foucault, ma studenti formati nelle scuole di giornalismo e redattori professionisti. A quarant’anni dalla prima copertina, Libération incarna ancora l’idea di stampa militante ma non è più il quotidiano “movimentista senza partito”, come l’aveva definito una decina d’anni fa Serge July. Sulle pagine di Internazionale, Christian Caujolle, fondatore dell’agenzia fotografica VU e photo editor durante gli anni d’oro di Libération, scrive: “[…] anche se abbiamo amato l’epoca di libertà e creatività che abbiamo avuto la fortuna di vivere, è inevitabile che il mondo cambi e cambi anche la stampa. Rimane da capire qual è oggi ‘il giornale che abbiamo voglia di leggere’”.

 

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