Nella mia immaginaria e ambiziosa lista delle cose da fare in tempi migliori, c’è il teatro. Dall’altra parte della scena. Tornare sul palco. Realizzare il desiderio di dare vita alle parole, ai personaggi, a quei testi che tanto mi tengono compagnia durante il lavorio della quotidiana esistenza. Essere una commedia, piangere in una tragedia, vivere dentro una storia.
In questi giorni di attesa e incertezza, una mattina, al terzo piano di un edificio in una città più silenziosa e impaurita del solito, io e un esserino di pochi mesi, mentre tutti dormono, ci imbattiamo in un monologo. Quello dello zio Victor al nipote Marco Stanley Fogg, protagonista di “Moon Palace“, romanzo di Paul Auster uscito nel 1989, una di quelle storie di famiglia in cui tuffarsi senza volerne più uscire. L’abbiamo letto ad alta voce, due volte, quel discorso d’addio prima della partenza per la tournée insieme all’orchestrina dei Moon Men in tutti gli Stati Uniti, due pagine in cui lo zio si congeda e abbraccia, per l’ultima volta, il nipote.
Ecco, io questo monologo sogno di recitarlo in teatro, immersa nel buio, sotto l’occhio di bue della scena. Perché? Forse perché dentro c’è tutto: i libri, l’America, la musica, i viaggi, gli addii, le partenze, tutto quello che possa rendermi nostalgica delle vite che non ho vissuto, o vissuto solo in parte, e che giacciono da qualche parte del cuore, insoddisfatte, in attesa che qualcuno un giorno le tiri fuori.