Street Food a Parigi

Il primo a gridare al pericolo è stato il Front National. Il partito francese d’estrema destra ha allertato i palati fini e le buone forchette nazionali del rischio imminente di “kebabizzazione”. La paternità del termine è stata rivendicata da Louis Aliot, vice-presidente del Front National, che ha puntato il dito contro una vera e propria invasione di kebab e negozi halal in suolo francese. Un’invettiva che ha trovato terreno fertile nel paese dove, qualche mese fa, l’esponente dell’UMP Jean-François Copé aveva espresso la propria preoccupazione per i ragazzini privati del proprio pain au chocolat durante il mese del Ramadan. Tuttavia, sembra che l’estrema destra allarmista non si sia accorta di un altro fenomeno, ben lontano dai kebab halal a 3 euro, che, prima nella capitale, poi a seguire nelle altre grandi città, da Marsiglia a Lione, sta modificando l’appetito e le abitudini alimentari dei francesi.

I primi food truck dagli Stati Uniti

Tutto è iniziato nel 2011, con il primo camioncino dell’americana Kristin, l’ormai leggendario Camion qui Fume, che allieta americani in vacanza e parigini alla ricerca del vero hamburger newyorchese, per una pausa pranza nutriente o una cena veloce prima del cinema. Poco tempo dopo, l’arrivo di un nuovo food truck in città: Cantine California, che abbina alla cucina americana di tradizione ingredienti biologici e d’origine controllata. Rassicurati dall’origine biologica degli ingredienti, i clienti si concedono un hamburger a cuor leggero, preparato e cotto davanti ai loro occhi, confortati dal mangiare sì americano, “ma almeno non è il MacDonald”. E, se il concetto è yankee, tutto il resto è più che francese. A partire dal prezzo: da Cantine California, un hamburger costa 9 euro, senza bevande, e 11 euro con l’aggiunta di patatine e maionese (fatta in casa). Una mossa vincente visto che la fila farebbe invidia ai migliori ristoranti della città.

Attesa al Camion qui Fume.

Attesa al Camion qui Fume.

In molti parlano di una vera e propria ristorazione concettuale, sintomo di un’evoluzione non solo culinaria, ma quasi socio-culturale, nonché commerciale, in atto per le strade di Parigi. Che, alla fine, non poteva fare a meno di contagiare anche il kebab, con l’apertura del primo kebab di lusso, all’angolo tra la rue Sainte-Anne e la rue Saints-Augustins, nel secondo distretto della città. Si chiama Grillé e la garanzia di qualità qui porta il nome di Fred Peneau, ex chef del ristorante Châteaubriand, storico bistrot di lusso di Parigi. Da Grillé, il kebab diventa nouvelle cuisine: il cuore è di vitellino di latte, proveniente dalla macelleria d’eccellenza, nota in tutta Parigi, di Hugo Desnoyer, poi marinato in salsa di rosmarino, soia e saké. Su richiesta, una seconda marinatura alla menta e coriandolo e una sfoglia di pane di farina di farro, per il kebab più lussuoso di Parigi, a soli 8, 50 euro. Senza patatine, cela va sans dire. Ci si alza certi di aver mangiato sì sano, ma senza la sensazione di pienezza che giunge puntuale dopo aver ingurgitato un kebab. “L’impressione è quella di aver fatto una colazione a base di soia e frutti rossi”, si legge tra i commenti.

La nouvelle cuisine scende in strada

Ma non di soli hamburger vive il cibo di strada qui a Parigi. E il food truck non è solo sinonimo di hot-dog, kebab e patatine. La cultura del cibo di strada, come alternativa, non necessariamente economica ma sempre di qualità, al ristorante, si è così diffusa nella capitale che lo scorso giugno nel sobborgo di Yvelines, nella periferia a ovest di Parigi, si è tenuto il primo Food Trucks Festival francese. Street food non fa più rima con junk food, quindi, in virtù anche di un cambiamento della clientela: non più squattrinati o adolescenti, ma impiegati e professionisti che, durante la pausa pranzo, sempre più corta, scoraggiati all’idea di doversi accomodare in un grigio ristorante in compagnia degli stessi colleghi, preferiscono un ambiente più conviviale, senza dover rinunciare alla qualità, anche spendendo qualche euro in più per dover mangiare in piedi e stare attenti a non sporcarsi la camicia.

Mozza & Co. : focacce e mozzarelle di bufala take away.

Mozza & Co. : focacce e mozzarelle di bufala take away.

Da qui, la nascita e la proliferazione di food truck di tutti i tipi, e per tutti i portafogli, dai bar a zuppe ai camioncini mozzarella, dalla nouvelle cuisine prêt-à-porter all’asiatico. La segnaletica da street food, il decoro informale, contribuiscono all’atmosfera disinvolta e poco impegnativa, dove, oltre all’assicurato risparmio economico (che, tuttavia, talvolta equivale solo a pochi euro), il cliente si convince di agire nel bene della comunità, di vivere finalmente il proprio quartiere e di essere un protagonista attivo del ritorno al locale e al mangiare sano e lento.

Siamo quindi lontani dal rischio “kebabizzazione” paventato dal Front National. Qui la cucina di strada diventa quasi di lusso, un’inedita esperienza sensoriale e una nuova tipologia di uscita. Basta seguire su facebook i propri camioncini preferiti e recarsi, con doveroso anticipo, all’appuntamento per addentare la novità del momento. Tra i food truck più seguiti, in tutti i sensi, nessuno dei tre è francese. Mozza & Co., scritta bianca su fondo nero, è italiano, ma gestito da due francesi, e delizia i palati della capitale con bufale, focacce e insalate alla fantasia dello chef, con nomi ispirati all’attualità italica, come Berlusconia. Tutto a partire da 7,50 euro. Di solito si avvista nei pressi della rive gauche, precisamente sul tetto della Cité de la Mode, il camioncino belga de La Frite, che promette le vere patatine fritte, fresche e croccanti, cotte due volte nel grasso di vitello, con vista sulla città di Parigi. Colori pastello, invece, per l’angolo di Vietnam ai piedi della Biblioteca nazionale François Mitterand. Si chiama Banh Mi Nomade, il camioncino asiatico che sforna pollo al caramello, pollo alle mandorle, pollo al latte di cocco e alte delizie orientali, racchiuse in una francesissima baguette, a partire da 9 euro.

Bahn Mi Nomade a Parigi.

Bahn Mi Nomade a Parigi.

Street food: nuovo motore di integrazione?

La cucina di strada, almeno secondo le parole dello chef Thierry Marx, sarebbe il miglior motore d’integrazione per le comunità straniere, il modo più gustoso per avvicinarsi all’altro e comprenderlo. E gli stessi chef si fanno novelli ambasciatori della cucina di strada, considerandola un vero e proprio terreno d’ispirazione, testando nuovi piatti e creando atelier di formazione. Tuttavia, c’è qualcosa che stona, e non è solo il grido di disperazione dei ristoratori tradizionali, affranti e impauriti da questa nouvelle vague culinaria.

Lontano dall’essere un’occasione d’integrazione, la street food esotica resta una semplice uscita a cena, o una pausa pranzo veloce, forse mossa sì da un impeto di curiosità e scoperta dell’altro, ma che si ferma al livello dello stomaco. Il vero rischio non è quello dell’invasione halal che spaventa la Francia islamofoba, e che convive da tempo immemore con la cucina francese, servendo richiestissimi e grassi kebab, ma l’omogeneizzazione dei gusti e dei sapori, oltre che dei comportamenti, inevitabile quando il bobun vietnamita si accompagna alla baguette. Ma soprattutto, un’ulteriore esclusione sociale, una nuova frenesia da consumazione, preludio all’ossessione di testare ogni settimana l’ultimo camioncino arrivato in città, fare un check-in su FourSquare e aggiungere l’ennesima foto su Instagram.

Qui l’articolo pubblicato da Lettera43.it.

 

 

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Cronache da Ankara

“Do you mind if you change the room?”

È quanto mi ha chiesto la ragazza bulgara appena arrivata al terzo piano del residence universitario di Ankara, sulla soglia della stanza di cui avevo appena preso possesso, riservata per me e per un’altra ragazza, in occasione del progetto europeo Start Over, tre giorni di laboratori e vagabondaggi per Anatolia e Cappadocia, che partono dal fantastico campus della Gazi University della capitale.

Scopo del progetto è la famigerata integrazione. La conoscenza reciproca tra ragazzi di nazionalità differente attraverso seminari e convegni e attività varie sulla cooperazione giovanile, la disoccupazione e le opportunità di lavoro in Europa. Ma, già dai consigli recapitati nelle nostre caselle di posta, roba come “non giocate a carte” (!), si capisce che per molti dei partecipanti, chissà forse anche per me, questa è solo una buona occasione per essere in Turchia e farsi un viaggio quasi interamente finanziato. Tuttavia, qui al residence l’atmosfera è seria e composta.

Di conseguenza, provate pure a chiedere al gentile receptionist turco di fare un’eccezione nella formazione delle camere e lasciarvi tra conterranei. Sarà inflessibile. Ma, una volta arrivate al terzo piano, se non vi controlla nessuno e soprattutto se la compagna di stanza è un’italiana (proverbialmente, secondo la commedia dell’arte europea, incline alle scorciatoie e alle infrazioni), ovvero la sottoscritta, ecco che le bulgare saranno accontentate. Io e la mia nuova amica (pugliese, tanto per rimanere in tema) dormiremo insieme e loro faranno lo stesso. A dir la verità, l’idea era venuta in mente anche a noi, ma ci piaceva tenere fede allo spirito del progetto e un po’ anche mantenere la parola data a chi ci aveva accolto al campus con così nobili propositi. Tant pis.

Ad Ankara, sono quasi le 11 di sera. Fa fresco, la luna è quasi piena e resta appesa sulla collina di luci che spunta dalla finestra. L’università, centro d’eccellenza della Turchia, è regale, come solo un edificio orientale (già che siamo in vena di generalizzazioni) sa essere, la hall sontuosa, la scalinata quasi trionfale e l’orizzonte che mette fine al giardino che si srotola di fronte all’ingresso si scorge a malapena.

Sono in Turchia solo da qualche ora. E già il profumo di quest’aria ha vinto la stanchezza, e gli occhi non riesco ancora a chiuderli per la moltitudine di veli, chador, camicie bianche, foulard, sandali, calze nere pesanti, tailleur, tacchi alti e occhiali da sole che spuntano dai burka, pelli scure, fez e tuniche chiare che mi ha travolto una volta atterrata a Istanbul, la terra cangiante, prima rossa poi scura poi macchiata di muschio e poi ancora chiara che si scorge dai finestrini sorvolando la Cappadocia più aspra e selvatica, il paesaggio brullo costellato di bandiere svolazzanti che scorre oltre l’autobus che conduce nel centro di Ankara.

Dopo quasi dieci ore di viaggio e più di sette mezzi di trasporto diversi, dopo agghiaccianti minuti di panico davanti a un cancello chiuso che doveva essere il nostro alloggio e ardui tentativi di mediazione culturale con un tassista turco, sono a pezzi, ma non posso fare a meno di guardarmi intorno, origliare le chiacchiere multiculturali dei vari tavolini e chiedermi quanto la socializzazione coatta con sconosciuti sia utile all’integrazione o non favorisca invece l’insorgere, o la conferma, dei vecchi cari stereotipi sugli europei.

“In Italy, you are considered crazy if you drink coffee after eleven a.m. You can drink only cappuccino then”. Really? Questo è quanto hanno appena detto le ragazze lituane alla mia destra. Eppure, a metà mattinata, nel mio ufficio si telefona al bar per le ordinazioni, nella mia famiglia si prende il caffè dopo cena e alle cinque del pomeriggio c’è sempre una moka sul fuoco. E vabbè che noi siamo meridionali…

Forse, l’integrazione ai tempi del low cost, i viaggi condizionati dalle offerte delle compagnie aeree, hanno permesso a quasi tutti di fare un salto fuori dal proprio habitat ma, d’altro canto, sembrano quasi appiattire le destinazioni. Una pare uguale all’altra, l’integrazione, come la conoscenza reciproca, è solo un effetto collaterale, l’importante è partire e obbedire all’imperativo categorico che impone agli under30 di tutta Europa di essere cosmopoliti, globali e versatili.

Che dire, prima di finire ulteriormente fuori tema e mettere fine degnamente tale flusso di pensieri? Viva la mediazione culturale, le prime impressioni e i loro provvidi margini di miglioramento!

Io, mettendo piede in Turchia, ho appena realizzato un sogno. E, per quanto riguarda pregiudizi e cliché, vado in direzione contraria e posso affermare che i turchi, anche ad Ankara, non sanno affatto parlare inglese, il caffè turco, per quanto annacquato, tiene svegli, e la cucina, soprattutto quella servita a bordo della Turkish Airlines, sui comodissimi sedili colore pastello, è speziata sì ma buonissima e per nulla aggressiva per stomaci abituati a condimenti a base di olio extravergine d’oliva salentino e origano.

E soprattutto, per fortuna, non tutti i bagni sono alla turca.