Lo scontro quotidiano

Ormai una decina d’anni fa, scrissi il mio primo post su un blog. “Il vento cattivo” non era ancora nato, ma al suo posto c’era “Lo scontro quotidiano“, uno spazio tutto dedicato ai fumetti o, come si chiamano adesso, alle graphic novel, nato durante i primi mesi a Parigi, dove le librerie dedicate ai comics sono un universo a parte e molti fumetti si trovano nel reparto letteratura.

Il titolo è la traduzione di una storia su quattro tomi di Manu Larcenet, ormai illustre fumettista francese, che nel suo “scontro” racconta un tormento personale, quello di Marco, ex reporter di guerra assediato dall’angoscia e dagli attacchi di panico, ma anche il rimosso e il travaglio di un paese in cui sta rifacendo capolino l’oscurantismo di Le Pen e non tanto antichi principi nazionalisti. La versione originale, “Le combat ordinaire”, forse rende ancora di più il senso di quello che mi sembra di vivere in questi giorni. Una lotta che più che quotidiana è ordinaria, normalizzata, necessaria.

Fa freddo. E non solo perché, dopo un’inaspettata lunghissima estate, Parigi è stata spazzata via da raffiche di freddo glaciale. Non solo perché in Italia i paesini del Salento cadono a pezzi sotto i nubifragi e le alluvioni. Fa freddo, dentro. Nelle ossa. Nella testa. Anche qui nel mio appartamento in città, dove il puntuale ed efficace riscaldamento automatico è già in moto dai primi di ottobre.

fuocoartificio

Tra i miei buoni propositi d’autunno, c’era quello di ritrovare una certa empatia che pensavo aver perso. I come e i perché li racconterò in un’altra storia, ma i risultati non si sono fatti aspettare. Sento su di me anche la solitudine dei sassi. Non so se è un bene ma a volte mi sembra di percepire la rotazione della terra. Mi sento sulle spalle tutta l’ingiustizia del mondo. Quando mi affaccio metaforicamente dalla mia finestra, guardo le informazioni, assisto all’ennesimo episodio di violenza, mi sento coinvolta, ferita. Soffro regolarmente di insonnia, non capisco più in che direzione va questo pianeta. E io con lui.

Qualche tempo fa lessi un articolo di Marina Petrillo, sul suo bel blog Alaska. Il titolo è Il Grande Rancore. Proverò a riassumerne qualche concetto, ma vale la pena prendere cinque minuti per leggerlo e sentirsi meno soli nel mondo. Qui uno stralcio:

Un giorno mi sono svegliata e il rancoroso era ovunque. È al bar, è sul tram, e non c’è inibizione sociale o principio di educazione civica che lo trattenga. Gli piace l’ordine ma non si ferma sulle strisce pedonali, è il commentatore seriale pieno d’odio e frustrazione, l’aspirante vigilante di quartiere. Prova un senso di ingiustizia ma non dà mai la colpa ai veri potenti – che invece invidia e cerca di imitare.

Il rancoroso – come la signora con le perle al collo e gli ori alle dita che sul tram ho sentito pronunciare il fatidico “vengono qui a rubarci il lavoro” – è raramente un vero spodestato, ma più spesso un deluso; ha perso del tutto contezza dei propri piccoli privilegi ed è convinto di essere assediato da qualcun altro – il senzatetto, il “negro”, il forestiero, per non parlare dei “rompipalle che li difendono”.

Il desiderio d’ordine del rancoroso è uno specchio del disordine che percepisce dentro di sé. Il rancoroso confonde i diritti con la capacità di consumo, percepisce chiaramente che c’è qualcosa che non va, che gli hanno venduto una fregatura (il televisore gigante, il Suv, il figlio all’università, la villetta con le telecamere, il rottweiler, la fabbrichetta, le tasse, il centro commerciale, la mentalità vincente, il lifting, e in genere il comprare come protezione da ogni cosa), ma non sapendo con chi prendersela – e annaspando in cerca di un mondo che in realtà non è mai esistito – nel dubbio se la prende con te.

Petrillo parla del fenomeno dell’erosione della cultura, descrivendone in poche righe i tratti comuni, tracciandone l’evoluzione (o involuzione) sociale e cronologica, che ha portato alla perdita di quello strumento che ci permetteva di collegare i fatti, comprenderne le cause, chiederci il perché delle cose. La cultura, che “tiene insieme memoria e presente” e che ci consente di esprimerci pienamente e nel rispetto di ogni forma vivente. Basta aprire un giornale, mettere un piede su Facebook, leggere malauguratamente qualche scriteriato commento, per rendersi conto di come tutto ciò sia diventato inevitabilmente minoritario.

 

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Non solo. Oltre ai conati di rabbia dell’umanità intera, ci sono le tragedie, quelle dell’umano e quelle della natura, a ricordarci, qualora non ce lo fossimo “segnato” da qualche parte, che non siamo imperituri. Che dall’altra parte del mondo, la vita non è un bene di prima necessità.

Mentre cerchiamo di andare avanti con le nostre giornate, ci interpella di continuo la povertà di qualcun altro, la disperazione che spinge ad attraversare il mare anche a prezzo della vita, la vastità dei mondi più poveri del nostro, l’effetto delle scelte dei nostri governi sulla vita di persone in altri paesi, l’abisso dell’ingiustizia sociale, le emergenze climatiche, le iniquità del mercato, l’ansia della competizione, i bambini degli altri, i guai degli altri, gli attentati che colpiscono gli altri.

Per me, l’ultima volta è stata sabato sera, guardando un documentario sulla salute del nostro pianeta, sulla discarica a cielo aperto che è diventato il Bangladesh, sull’inizio della sesta estinzione di massa nell’indifferenza generale. Non ho chiuso occhio per tutta la notte. E di fronte a quello che Petrillo chiama “Il Grande Rancore”, che sia quello dell’umanità o della natura, ho scoperto di non sapere esattamente come reagire. Ho tentato la fuga, con goffe e brevissime evasioni dai social. Ho ceduto anche io alla tentazione dell’attivismo da tastiera, pensando di cambiare il mondo rispondendo a un commento. Spesso, mi sono messa sotto le coperte e ho pianto. Lei ha descritto tutto questo così e io non potrei scriverlo meglio:

ho scoperto che ho un limite. Non posso gestire, elaborare, processare più di una certa quantità di informazioni al giorno – soprattutto se contengono sofferenza, morte, sangue, ingiustizia, sopruso – senza perdere la lucidità, la calma, e in fin dei conti, la capacità di comprenderle e di inserirle in un sistema di collegamenti, senza la quale le informazioni non servono a niente, né a me né agli altri.

Allora, ho eretto anche io le mie protezioni del cuore, quelli che chiamo piccoli atti di resistenza quotidiana, il mio “combat ordinaire”, che, per quanto mi riguarda, avviene soprattutto IRL, ovvero off-line, a schermi spenti. Li ho buttati giù, in una sorta di piano di battaglia, mentre seguivo una lezione poco avvincente sulle tecniche di narrazione del marketing (chi mi conosce sa che sono allergica alle pubblicità, ho tre AdBlock sul computer e nessuna televisione blaterante in casa).

albero

E allora, eccole qui, le mie modeste tattiche di contrattacco, minute, semplici, attuabili anche con poche risorse, con l’ambizioso obiettivo di “restare umani”:

  • abolire il multitasking: per una poderosa dissertazione sul tema rimando al bell’articolo pubblicato su  Soft Revolution, io mi limito a non consultare il telefono quando cammino (salvo emergenza), togliere gli auricolari e smettere di fare altro quando mi chiama un’amica, restando semplicemente ad ascoltare; concentrarmi su quello che dico e faccio, cercare di vivere nel presente
  • parlare con gli sconosciuti: non sono molto dotata per il cosiddetto “small talk”, l’arte della conversazione spicciola, per discettare del tempo in ascensore, ma non ho paura se qualcuno si avvicina a me per strada. Mi fermo e lo ascolto: se posso lo aiuto, se non posso rispondo educatamente e vado avanti. “Mi dispiace, non ho soldi con me” o ancora “sono di fretta, per oggi non posso” sono sempre meglio che tirare avanti, senza neanche girarsi a guardare. L’indifferenza fa sempre male, anche a chi ci è abituato
  • rinunciare all’overdose di notizie: ho selezionato accuratamente newsletter e fonti neutre e affidabili, cerco di informarmi leggendo anche gli articoli, non solo i titoli ed evito di cliccare sulla cascata di post della mia bacheca su fb
  • i commenti sono il MALE: evito di leggerli, di commentare, di rispondere, di reagire con emoticon, li ignoro più che posso, perché aprono uno spaccato umano con cui non riesco a interagire
  • finanziare e sostenere la piccola editoria (sì, sono un po’ di parte ma tant’è): quando ero piccolina, al primo anno di università, pensavo che se non fossi andata a vivere a Parigi, sarei sicuramente andata a Portland. Non so il perché ma ero innamorata dell’idea di questa città sull’oceano nell’Oregon, dall’altra parte del mondo. Ero anche sostenitrice, con le mie modeste finanze, di una rivista locale: stampa radicale e femminista, The Bitch Magazine, detto il titolo, non c’è bisogno di aggiungere altro. Sono tornata tra i suoi lettori, tra i suoi sostenitori, perché in tempi oscuri come questi, c’è bisogno di ascoltare le donne un po’ di più e dare loro voce. Un motivo in più? Articoli interessanti, grafica user-friendly, etica di ferro: di recente hanno anche detto di no a una offerta di sponsor dalla Coca Cola.
  • non seguire più i miei amici: ovvero, ho preso in prestito il trucchetto di una preziosa conoscenza e anche io ho smesso di seguire la maggior parte dei miei contatti su Facebook e… che dire? si vive meglio senza le foto delle vacanze, i post arrabbiati contro il meteo, i video improbabili, le gif, i servizi del matrimonio, gli sproloqui pseudo-politici e i reportage su infelici exploit culinari.
  • avere speranza: un’amica mi ha detto un giorno “a volte l’unico modo per eliminare qualcuno è guardarlo all’opera”. Oggi mi sono svegliata con un fascistoide impazzito eletto in Brasile, che in confronto Trump sembra un gentleman. In Italia, la società va a rotoli, in Francia, la faccia pulita di Macron non è sufficiente per far dimenticare le scelte ultra-liberiste, i tagli alle associazioni d’integrazione sociale, la completa mancanza di provvedimenti sull’ambiente. Forse siamo solo in un periodo nero della storia, viviamo un’alternanza che rientra nell’ordine naturale delle cose, e forse ha il merito di mostrarci concretamente quello che, passati questi lunghissimi e durissimi quattro anni, speriamo non accada più.

Coltivare umanità, lentezza, silenzio, ascoltare prima di rispondere, informarsi prima di parlare. Cercare di fare, e di fare bene. In un libro che ho letto di recente, si diceva che “il bene è contagioso” e, creandone ogni giorno, “magari il mondo si aggiusta un pochettino”. E se fosse davvero così semplice?

Soundtrack: Pink Moon, Nick Drake

Foto: Ellie Davies

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Olivia Snaije, freelance in bicicletta

Olivia Snaije è nata in Egitto, da madre statunitense e padre cinese, naturalizzato americano. Giornalista, editor e traduttrice, si occupa principalmente di Medio Oriente, multiculturalismo, letteratura e cucina. Dopo aver lavorato a Milano, Londra, Parigi, New York, è tornata nella capitale francese, “da dove”, dichiara, “non mi muoverò più”. 

Olivia in biciclettaIncontro Olivia un lunedì pomeriggio d’agosto, al caffè Le Select, nel cuore del 14simo arrondissement di Parigi. “Venendo qui, mi è venuta un’idea per una graphic novel“, esordisce in perfetto italiano, prima di accomodarsi in terrazza. E iniziare a raccontarmi della sua vita in Francia. “Mi definirei piuttosto una nomade globale, nonché una falsa americana”, ride, “ho ereditato uno stile di vita internazionale da un’infanzia itinerante e questo vuol dire che anche i miei amici sono nomadi come me”, conclude, “sembra quasi che ci si riconosca”. Trasferitasi a Parigi per motivi personali, Olivia oggi lavora da freelance nella capitale. “Ho scelto di circondarmi di persone con le quali posso parlare tre lingue, scivolare dal francese all’inglese all’italiano senza aver paura di essere percepita come una snob o con un’ammirazione fuori luogo quando dico che ho delle origini cinesi e americane e vivo a Parigi”.

Ho l’impressione di vivere più realtà allo stesso tempo”, continua, “sarà perché i miei amici sono sparsi per il mondo o perché cerco di restare aggiornata su quello che succede in varie città e perché ho vissuto in più continenti ma non mi sembra di vivere a Parigi”. Intrecciare legami e coltivarli nel tempo, spostarsi nell’arco di un clic da Beirut a New York, da Tangeri a Roma, transitare in una città, averne la residenza, ma restare viaggiatrice nello stile di vita e nel pensiero. “Qui a Parigi i miei amici sono quasi tutti viaggiatori, come me, affondano le radici in più parti del mondo”, continua, “ho una sola amica che è una francese puro-sangue, io la chiamo la mia amica esotica”.

Vanity Fair, o fact-cheking nello scantinato

Il giornalismo francese non assomiglia a quello inglese, secondo Olivia, dal lavoro sulle notizie alla scritture, decisamente meno asciutta e chiara. “Ho un background anglosassone che ha reso i miei articoli oggettivi, imparziali”, spiega, “sono ossessionata dal fact-checking”. Una deformazione professionale: “ricordo quando lavoravo a New York, da Vanity Fair, come fact-checker, in un ufficio buio al piano di sotto, mentre i giornalisti più conosciuti lavoravano nella redazione principale, luminosa, con uffici da star”.

Vivendo nella capitale francese, è impossibile ignorare Le Monde, ma “mi sembra di non ricavarci molto dalle lettura“, scherza Olivia. “Leggo The Guardian, Publishing Perspective (il giornale per cui collabora, ndr) e, tra le riviste on-line francesi, mi piace molto Rue89“. Pur lavorando principalmente per media tradizionali, Olivia si interessa non poco al magmatico mondo dei blog: “Ad esempio, seguo il blogChocolate & Zucchini, di Clotilde Dusoulier, una francese installatasi negli Stati Uniti, che ha fatto di se stessa un vero e proprio marchio, e, virando su argomenti completamente differenti, seguo il blog ArabLit, sulla letteratura araba“.

L’idea del libro di cucina è nata dal mio lavoro di giornalista culturale”, racconta Olivia, “parlando con gli artisti, gli scrittori, i musicisti, di origini differenti ma tutti di base qui a Parigi ho riscontrato che si assomigliano tutti in un punto: la nostalgia per il cibo della propria madrepatria”. Sembra quasi che le menti creative di tutto il mondo una volta giunte in riva alla Senna abbiano una sola preoccupazione: ritrovare gli ingredienti, i sapori che hanno lasciato a casa. Da qui l’idea di raccontare le disavventure per trovare radici, spezie, aromi, ma soprattutto i consigli, quelli di una viaggiatrice ormai parte della città, sui mercatini, le macellerie, le panetterie.

Di hall fumose a Beirut

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Coco, il pappagallo nella lobby del Commodore Hotel, di solito accoglieva gli ospiti cantando la Marsigliese. Rapito durante l’attacco di una milizia, non fu più ritrovato.

Quello che manca a Parigi è sicuramente un punto di ritrovo per la stampa estera”, continua Olivia, “non esiste un’associazione della stampa estera come quella di Londra o un posto come il celebre Commodore Hotel a Beirut”, mi spiega, raccontandomi di atmosfere forse perdute, club fumosi, chiacchierate infinite tra reporter, confronti sulla terrazza di un hotel dove per 16 anni i giornalisti hanno raccontato una delle guerre civili più cruente del Medio Oriente.

Il mio punto d’osservazione è la mia bicicletta”, afferma Olivia, “muoversi in sella alle due ruote mi permette di restare aggiornata sulla vita in città, se un nuovo bar apre, se una galleria chiude, se qualcosa è cambiato”, la bicicletta come radar, per respirare la brezza e le novità. “Abito nella rive gauche, ma continuo a preferire la rive droite, mi piace molto il quartiere vicino Gare du Nord, penso si stia sviluppando molto”, racconta, “mi piace visitare il 104 e andare a bere qualcosa al 61, l’unico posto di Parigi dove i giornalisti siedono allegramente insieme, in riva al canal de l’Ourcq”.

L’arte, la cultura, per me sono un modo di parlare in maniera più leggera di situazioni socio-politiche delicate”, e, in fondo, “essere giornalisti culturali significa anche avere una buona scusa per incontrare persone incredibili”, per imbattersi in progetti, luoghi, orizzonti, che senza il pretesto di un’intervista non sarebbero mai entrati in collisione con le nostre vite. Molti di questi incontri sono finiti nel suo vecchio blog, One Metropolis, un post dopo l’altro, ambientati tutti in una città differente, per esplorare i problemi della fauna metropolitana. “Sono convinta che un cittadino di Beirut e uno di New York abbiano più cose in comune di due connazionali che abitano nella campagna di una stessa nazione”.

Olivia ha di recente tradotto la graphic novel “Bye Bye Babylon di Lamia Ziadé, dal francese all’inglese e editato la pubblicazione del libro fotografico “Keep your eye on the wall“, sul simbolo del muro nel contesto palestinese. In cantiere, annuncia altri entusiasmanti progetti, nuove corse in bicicletta e, chissà, forse una graphic novel scritta da lei.

Fonti citate

The Guardian

Publishing Perspectives

Rue89

Chocolate & Zucchini

arablit

Spot preferiti

Le 104

Le 61 bar

La buona scuola

Ci sono pensieri e idee che arrivano nottetempo, intuizioni a cui bisogna stare attenti perché, come scriveva Least Heat-Moon nel suo meraviglioso Strade Blu, “non hanno la giusta direzione, arrivano a tradimento da luoghi remoti e son privi di senso e di limiti”. Ci sono itinerari della testa, traiettorie minori, che, a volte, ci si diverte giusto a immaginare, per gioco, come ha magistralmente scritto Maria Perosino, “le scelte che non hai fatto”, le strade che non hai preso, le vite che avremmo potuto avere e che forse ci aspettano ancora da qualche parte.

Così, eccomi qui a Parigi, in una notte d’inverno, come il viaggiatore di Calvino, a tornare indietro, ai tempi dell’università, quando, sotto i portici del chiostro della facoltà di Lingue e Letterature Straniere a Lecce, mi proposi saggiamente di lasciare aperta la possibilità a più strade. Ché “se mi va male con il giornalismo, almeno mi resta l’insegnamento”. Mi faccio quasi tenerezza. Erano giorni in cui mi emozionavo al mio nome pubblicato on-line, in cui credevo davvero che qualche mese di visibilità e lavoro gratis fossero il viatico per un posto in redazione, in cui scrivevo entusiasta per una decina di testate e la gloria mi bastava per non preoccuparmi troppo di quello che sarebbe successo dopo.

Poi, è venuto tutto il resto. In pochi anni, tutto è cambiato. I pagamenti inesistenti, trenta euro lordi dopo novanta giorni dalla pubblicazione; il blog di un quotidiano nazionale che non ti retribuisce “perché è un blog, scrivete quello che volete, come un diario”, e poi ti scrive la domenica mattina per chiederti di seguire le elezioni comunali a Parigi tutta la giornata; il portale di innovazione culturale che si fregia di professori e filosofi e scrive di dignità del lavoro intellettuale e poi non risponde alle mail e ti promette una retribuzione da anni, “almeno cento euro a reportage ma non da subito, intanto cominciamo”; le inchieste di cinque giorni lavorativi pagate 24 euro; l’agenzia di comunicazione veneta che ti paga dieci euro ad articolo, “di solito facciamo sette ma tu hai esperienza e arrotondiamo”, dove la caporedattrice, ignara dei miei trascorsi professionali nelle testate del Meridione, ti spiega il trucco per avere sempre foto d’attualità, “quando non ne ho di prima mano, spulcio sui quotidiani del Sud, tanto una rissa è sempre una rissa, gli incidenti poi si assomigliano tutti, chi vuoi che venga a controllare sul nostro sito, la Gazzetta del Mezzogiorno?”.

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Anno dopo anno, la scrittura è diventata un oggetto estraneo, quasi nemico e, allo stesso tempo, ha iniziato a seguire un corso parallelo, a essere qualcosa di mio, da proteggere dalla mediocrità che mi circondava, da riservare ai miei tempi e ai miei spazi o a quelle poche testate che rispecchiano la mia filosofia, che hanno obiettivi simili ai miei, la stessa voglia di raccontare. Con gli anni, è sopraggiunto però anche l’imbarazzo, l’esitazione davanti alla domanda “che lavoro fai?”, sentirsi parte di tutto e di niente, senza una strada precisa, passare dal più sfrenato entusiasmo al più triste degli avvilimenti, guardare le offerte di lavoro come si guarda la televisione stanchi sul divano, senza la pretesa di trovarvi qualcosa di interessante.

Succede allora che una sera a Parigi, nonostante ogni prospettiva di impiego a lungo termine mi sia per ora preclusa, nonostante non abbia intenzione per ora di tornare in Italia, io ricominci a fantasticare su altre strade, altre possibilità e che nottetempo si faccia largo l’idea bislacca di qualche anno prima, che forse se non è un paese per giornalisti, forse lo è ancora per gli insegnanti, che se adesso si chiama buona scuola, l’insegnamento avrà pure qualcosa da offrire. Ebbene, dopo aver spulciato almeno tre siti ufficiali diversi, aver schivato insistenti pop-up a tradimento di offerte di un corso in Bulgaria per ottenere rapidamente, al solo costo di 3000 euro, l’abilitazione all’insegnamento in Italia, aver letto e riletto le dichiarazioni di Manuela Ghizzoni (prima firmataria dell’emendamento targato Pd e approvato dalla Commissione Cultura della Camera, con il quale viene riscritta la delega al Governo sul riordino delle modalità di reclutamento del personale docente all’interno della Buona scuola) sull’abolizione di ogni via secondaria all’accesso all’insegnamento, tirocinio formativo attivo compreso, ho realizzato che non ho alcuna possibilità di avvicinarmi al mondo della cosiddetta buona scuola: non posso partecipare al prossimo concorso, ma non posso nemmeno partire da zero e tentare di accedere all’anno di tirocinio formativo (a pagamento), che per il 2016 sarà aperto solo per le classi di concorso esaurite, per esempio matematica nella scuola secondaria. Posso sperare di entrare in qualche graduatoria minore per supplenze e maternità, ma come mi risposero già al Provveditorato lo scorso anno: “signorina, ma le graduatorie le abbiamo già riaperte nel 2014, ora tocca aspettare”.

Mi sono ricordata del mio piano di studi all’università, scelto con cura, per non precludermi né l’insegnamento del francese, né quello dell’inglese, né quello della letteratura italiana. Ricordo il mio primo anno a Parigi e una conversazione con un insegnante di storia, di 26 anni, in cui incredula lo ascoltavo mentre mi spiegava come dai banchi dell’università fosse passato alla cattedra, senza tappe intermedie. E ancora le chiacchierate con le mie colleghe di corso, contare i crediti per poter accedere alle classi di concorso, immaginarci per gioco dall’altra parte.

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In tutto questo, resta sconforto, smarrimento. Solidarietà con chi in questo percorso ha investito molto più tempo ed energia e, dopo anni di supplenze, precariato, master, tirocini, graduatorie si ritrova ancora alle prese con superconcorsi dall’esito incerto. Incredulità davanti al percorso a ostacoli che sembra quasi studiato minuziosamente per scoraggiare qualsiasi tipo di iniziativa professionale. E tanta perplessità davanti al linguaggio informale e friendly usato dal sito del Ministero dell’Informazione. “Non siete abilitati? Niente da fare per voi!”, mentre leggo da un momento all’altro mi aspetto che venga fuori una linguaccia da qualche parte.

Invece, il meglio lo riservano nella pagina sui consigli per trovare lavoro, in cui un solerte redattore propone come tecnica innovativa per trovare un impiego il “passaparola con amici e parenti”, siti antidiluviani dove ormai trovare un’offerta di lavoro che non sia un tentativo di vendita on-line è quasi impossibile, preoccupandosi di specificare che “è bene ricordarsi di fare una ricerca mirata, precisando regione e città”. Infine, “l’ultima tecnica, ma non per importanza, per trovare offerte di lavoro interessanti è legata alla motivazione. Mai perdere la speranza!”

Che dire di più? Mai perdere la speranza. In fondo, forse un prossimo concorso sarà previsto tra altri tre anni. Intanto ci sono questioni più importanti da risolvere, ci sono i presepi da rimettere nelle aule, c’è la teoria gender che avanza minacciosa, ci sono le unioni civili da scongiurare, il voto segreto, la libertà di coscienza, c’è Sanremo che è appena iniziato e Padre Pio in tournée a Roma. E l’Italia con un tasso bassissimo di laureati impiegati e con gli insegnanti più vecchi di tutta Europa.

Per saperne di più sulla nostra buona scuola, in maniera precisa e ordinata, e per farsi venire il mal di pancia, l’articolo di Christian Raimo su Internazionale, qui. Per leggere altre storie di lavoratori, o aspiranti tali, il blog della mia amica Valentina, AstrOccupati.

Illustrazioni © Emiliano Ponzi

Soundtrack: Mogwai, Take me somewhere nice

Ritratto del giornalista da giovane

“Ho vissuto nello stesso appartamento per 25 anni e sono consapevole che sono stata in grado di vivere della mia scrittura, sin da giovane, in parte grazie a un affitto moderato. Pagavo poche centinaia di dollari al mese e, se avessi dovuto pagarne anche 200 o 300 in più, avrei avuto bisogno di un lavoro regolare. Avrei dovuto relegare la scrittura al tempo libero o avrei dovuto avere dei coinquilini. Le mie circostanze, invece, erano ideali per fare di me una giovane autrice culturale. Gli autori che vivono adesso i loro vent’anni o anche trent’anni non hanno la stessa fortuna”.

A scrivere è Rebecca Solnit, autrice californiana, classe 1961, residente a San Francisco. Penna eclettica, che ha scritto di arte, economia, politica, antropologia, con pagine che vanno dall’attivismo ambientale contro gli esperimenti nucleari nel deserto del Nevada al ruolo del fotografo inglese Eadweard Muybridge nella cultura contemporanea. È lei a firmare il libro “A Field Guide to Getting Lost”, una guida al perdersi, in tutte le sue accezioni, dove, in un capitolo meravigliosamente intitolato “The Blue of Distance”, analizza il legame tra il colore blu e le distanza, nel tempo e nello spazio, passando dal blu di Yves Klein ai Nativi Americani ai nomadi, quelli veri, che non vagabondano senza meta ma hanno rotte ben precise.

Solnit è il mio autore feticcio da un po’ di tempo a questa parte. Come si definisce lei stessa, è una scrittrice indipendente dal 1988 e, sul suo blog, lascia ai suoi lettori un indizio per immaginare dove nascono le sue storie: una foto del suo studio.

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Definirsi “scrittrice indipendente”, poterlo fare da una finestra affacciata sull’Oceano Pacifico, potersi guadagnare da vivere scrivendo e donando se stessi nella scrittura, sono privilegi che Solnit riconosce consapevolmente di avere. Fosse vissuta in un’altra epoca, o forse semplicemente altrove, probabilmente non sarebbe andata così.

In questi giorni di malattia, di vita domestica coatta, ho scritto a una velocità di due articoli al giorno. Dal mio studio, che non si affaccia sull’oceano ma sulle cime verdeggianti del Père Lachaise, ho mandato mail in tutta Europa per articoli a venire, per prendere contatti, per avere informazioni, dettagli, conferme. Ho proposto nuove idee, ho discusso l’angolo degli articoli da scrivere, ho risposto a deadline urgenti per “stare sul pezzo”. Ecco, se solo potessi farlo tutti i giorni, se solo fossi pagata degnamente, se solo vivessi in un mondo non necessariamente ideale, ma giusto, semplicemente, non avrei bisogno di togliermi lo smalto colorato, infilarmi tacchi alti e tailleur e andare a distribuire badge e formulari ai convegni. Non avrei bisogno di vendere sciarpe, gioielli e bijou alla clientela snob del Marais. Non avrei avuto bisogno di indossare un grembiule verde fluorescente e servire pizze e pasta scotta alla periferia di Parigi.

Sì, è vero. Quando non c’è lavoro, ci si adatta e si fa il possibile. Ma il problema è proprio questo. Io un lavoro ce l’ho. Lavoro, dalla mattina a sera. E ne ho talmente tanto che si accumula, sulla scrivania, piena di libri iniziati e appunti, sul desktop del computer, sulla casella di posta, con le mail a cui faccio fatica a rispondere. Quando leggo, lavoro. Quando vado in giro per la città a raccogliere spunti, lavoro. Quando passo il giorno e la notte a scrivere, correggere, verificare, limare, lavoro. Io un lavoro ce l’ho. Ma non sono pagata per farlo.

Viviamo giorni strani. Tra un centinaio di anni, agli occhi delle generazioni future, verremo ricordati come quelli che, da un giorno all’altro, non sono più stati retribuiti. L’Italia (e non solo) sarà descritta come il paese in cui, all’improvviso, è stato deciso che certi lavori, pur continuando a essere richiesti, non saranno più pagati. Chi scrive non è pagato. Chi scatta fotografie non è pagato. Potrei continuare elencando almeno un’altra decina di mestieri scomparsi. Le professioni sono state divise in lavori di serie A (soprattutto manuali o estremamente tecnici, ci serve assolutamente una persona, stipendio superiore al salario minimo e giorni di ferie assicurati) e serie B (puro lavoro intellettuale e creativo, di cui si può fare a meno o se proprio lo vuoi fare fallo, ma non ti aspettare grandi cose…). E parlo soprattutto dell’Italia non per infierire, non per lodare le altre nazioni europee. Semplicemente perché è il paese con cui ancora continuo a lavorare per la maggior parte del tempo, e in cui noto, ahimè, una certa attitudine, un certo dare per scontato che “tanto non ti paghiamo”, la sicurezza, mentre si scrive una mail, di non avere una risposta, e in ultimo una certa idea di “selezione per nuova gente” che si traduce in: mandateci dati completi, cv e lettera di motivazione via mail, tanto non vi rispondiamo neanche per dirvi che ci fate schifo ma vi sommergiamo di spam e pubblicità.

Mi sono ritrovata a vivere in un’epoca in cui la scrittura raramente valica i confini dell’hobby, del tempo libero, nell’epoca in cui si sono diffusi sinonimi di compenso che suonano come “visibilità”, “contatti”, “passaparola”. Mi sono ritrovata a lavorare in un periodo in cui, nel migliore dei casi, per un pezzo di 8.000 battute sarò retribuita con 30 euro lordi (vale a dire 24 euro che arrivano sul conto corrente dopo 90 giorni). Di tutto questo, ne sono ben consapevole, si parla da anni. Non sono la prima a essermi svegliata e scoprire che, come si diceva in un vecchio articolo, questo non è un paese per giornalisti. Ho attraversato alti e bassi. Momenti di rigetto al solo avvicinarmi alla tastiera di un computer. Poi periodi di gloria in cui macinavo una decina di articoli a settimana. Per poco più di un mese, ho deciso di dire basta. E, quando ho iniziato a lavorare in un ristorante, e con le sole mance riuscivo a vivere degnamente (affitto escluso, ovviamente), ho sinceramente pensato di appendere penna e taccuino al chiodo. Poi ho iniziato a fare la hostess e sono passata da un’agenzia all’altra con una facilità che potrebbe, da sola, sollevare il tasso di mobilità giovanile in Europa. Sui saloni, le hostess più navigate mi presentavano ai loro datori di lavoro per nuove funzioni, lodando il mio savoir faire. Ho scoperto in pochi giorni di saper infilare i badge nelle fodere di plastica con uno stile invidiabile. Riempio i moduli alla velocità giusta, non troppo lentamente per non far annoiare il cliente, non troppo velocemente per non fargli credere di essere liquidato. Ho un sorriso che accoglie ma non invade. Un modo di fare competente ma non arrogante. Una lunga carriera potrebbe aprirsi di fronte a me.

Ma scrivere mi manca. E non è il solo atto di comporre periodi gradevoli, per quello c’è il blog. Ma è il contatto con le redazioni, il discutere del taglio di un articolo, il recarsi sul posto, il conoscere nuove persone, fare entrare in contatto il loro mondo con il mio, il momento della pubblicazione, le reazioni, il confronto. Ecco perché penso che la cosa peggiore che si possa dire a un giovane giornalista che cerca di farcela è “Se non ti pagano che scrivi a fare?”. Sul blog di un quotidiano più o meno conosciuto dove ho il piacere di scrivere, commenti di siffatta lega si sprecano. I blogger non sono pagati e vengono accusati di narcisismo. Ipocriti che vogliono combattere un sistema, ma poi fanno di tutto per sguazzarci dentro. Ecco, avete ragione. Vorrei tanto che il sistema fosse diverso, vorrei essere pagata onestamente per quello che faccio, ma non voglio tagliarmi fuori, non voglio rinunciare a farne parte. So che il massimo che una redazione possa darmi in questo momento (i 30 euro lordi di cui sopra) comunque non mi aiuteranno a pagare neanche i croccantini dei gatti. Ecco perché ho deciso di continuare. Per quel che mi riguarda, smettere di scrivere sarebbe cedere a un ricatto ancora più grave.

Sylvia Plath, sui suoi diari, scriveva “Voglio scrivere perché ho bisogno di eccellere in uno dei mezzi di interpretazione della vita”. Con le dovute differenze, è un po’ come mi sento anche io. Scrivo, nella speranza che un giorno possa diventare il mio lavoro a tempo pieno. Di riuscire, prima o poi, a liberarmi dalla tirannia dei clic e del “mi raccomando, non più di 5.000 battute altrimenti i lettori on-line si rompono le palle”, dei “non essere troppo didattica” e “usa parole più facili”. Lo farò finché avrò l’energia di scrivere nei ritagli di tempo e nelle giornate libere. Quando mi stancherò, chiuderò per sempre e abbandonerò ogni velleità. Un lavoro fuori, di quelli di serie A, lo troverò sicuramente.