(Ancora) dalla parte delle bambine

In quest’anno appena iniziato, in questi mesi in cui ho ritrovato a fatica il tempo di leggere, ho avuto sotto mano quasi esclusivamente libri di donne. Per caso o per scelta, sono stata in compagnia di Goliarda Sapienza, Annie Ernaux, Simone de Beauvoir, Monique Wittig, Anna Maria Ortese e, in ultimo, grazie ai consigli di un meraviglioso club letterario, mi sono ritrovata tra le mani Dalla parte delle bambine di Elena Gianini Belotti, testo del 1973, purtroppo ancora tragicamente d’attualità.

Gianini Belotti, psicologa e psicoterapeuta per l’infanzia, racconta come i condizionamenti sessuali siano un’invenzione sociale e culturale, e come gli stereotipi e i luoghi comuni perpetrati nella scuola e dalla famiglia diano corpo a due classi di individui opposti, i maschietti, “per natura” dominanti, aggressivi, competitivi, chiassosi, volitivi, e le femminucce, “per vocazione” timide, riservate, aggraziate, composte, silenziose, modeste, noiose. Il libro, scorrevole come un romanzo e corredato da esempi realmente accaduti nei suoi anni di lavoro, è di una verità agghiacciante e, nonostante sia stato scritto negli anni Settanta (e conservi talvolta qualche semplicismo), ancora terribilmente vero. E soprattutto insiste su come il contesto, sociale, familiare, professionale, ricordi in ogni istante alle bambine il fatto d’essere prima femmine, e poi esseri umani come tutti gli altri.

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In un piccolo paesino del Salento, negli anni di scuola elementare, io e le mie compagne eravamo il perfetto stereotipo delle bambine nevrotiche e addestrate a dovere. In ordine, in fila per due, grembiule rosa e fiocco ben stirato. E cattivissime. Al contrario dei nostri compagni maschi, più giocherelloni e solidali, eravamo sul chi vive, per poterci scoprire in difetto o senza i compiti fatti, e correre a denunciarci alle maestre, “per il nostro bene”. Le punizioni, i brutti voti, i rimproveri erano un’offesa insopportabile, dalle quali non ci si riprendeva facilmente. Per una nota sul registro, si tornava a casa in lacrime e le maestre sapevano bene di colpire nel segno quando mettevano una di noi dietro la lavagna.

Immersa fino al collo nella trita tiritera dell’educazione cattolica, ho convissuto per un bel po’ di tempo con il senso di colpa di fare qualcosa di sbagliato e, per andare a letto tranquilla e assolvermi la coscienza, soprattutto nei primissimi anni di scuola, m’ero imposta l’obbligo morale di dire tutto alla mamma, anche i dettagli più stupidi e insignificanti. Queste nevrosi sono andate scomparendo con l’arrivo dell’adolescenza, quando insieme alla ribellione per l’universo rosa e asettico della mia infanzia, sono arrivati anche i grossi, grossissimi, stupidi complessi fisici, altro privilegio (quasi) esclusivamente femminile.

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Anche senza grembiulino rosa, una volta cresciute, il fatto d’essere una ragazza non ce lo si può scordare nemmeno un attimo. I primi passi nel lavoro sono stati quelli fatti per portare pizze e insalate in un pub di Lecce, tra i più noti del centro storico. Ero la più piccola delle cameriere, l’ultima arrivata, e per questo esonerata dai vizietti del proprietario, che si dilettava a tastare con mano, letteralmente, le qualità delle mie colleghe. Era un tipo autoritario, imponente, ricco, lo si riconosce da lontano per via del bolide rosso che esibisce anche nel più piccolo budello del centro storico, con un senso dell’umorismo alquanto discutibile. Ogni tanto mi chiamava per ripetermi sempre la stessa battuta: “Anche io sono andato all’università, lo sai? Alla Bocchini!” E giù grasse risate. Le sue, ovviamente. Solo qualche centinaio di metri più in là, la pizzeria, oggi chiusa, dove approdai al terzo anno di università, ci voleva tutte in divisa, con un cravattino rosa shocking e, per spingerci a vendere di più, metteva in palio ricchi premi e cotillon, ovvero smalti e rossetti per noi cameriere. Infine, il ristorante greco, chic e conosciuto, dove il padrone di casa selezionava solo imperativamente “ragazze di bella presenza” alle quali, ogni sera, controllava trucco e capelli. “Potresti acconciarti un po’ di più?”, mi chiese una sera, “sei bellissima così come sei, ma immagina di andare a un ballo quando vieni a lavorare qui”.

A Parigi, ormai editrice italiana per la rivista Cafebabel, ho rimontato le sorti delle pagine social e animato la comunità italiana dei collaboratori. Oltre ai dati e ai conteggi settimanali di like e clic, ho anche ricevuto una mail di apprezzamento da parte dell’allora direttore. Si profondeva in lodi e complimenti, per me e la mia collega polacca, per come avessimo magistralmente ottemperato al nostro turno di pulizia mensile. “L’ufficio brilla”, ci scrisse, “brave, soprattutto per le toilette!”. Ora, pensava davvero di farci piacere? Di lusingarci? E soprattutto, avrebbe mai detto la stessa cosa a un ragazzo?

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Se ne sono uscita fuori illesa, lo devo soprattutto alla mia famiglia. Alla nostra casa piena di libri e riviste, sin da quando eravamo piccole, alle estati di libertà completa, sola in sella a una bicicletta, passate a giocare con le foglie di eucalipto e le siepi di felci, con bambini e bambine, tutte insieme. Ai miei genitori, che mi hanno sempre lasciato partire, anche se con un nodo in gola, soprattutto quando andavo tanto lontano, e ci hanno sempre considerate, me e mia sorella, capaci di fare tutto, di essere mamma e avvocato, di fare la giornalista o la cameriera, di andare in giro per il mondo o restare a casa con un bimbo di pochi mesi.

Dalla parte delle bambine è un testo invecchiato benissimo, nonostante la semplicità di alcune analisi. Ma, si sa, per arrivare alle orecchie di tanti, occorre ridurre la complessità dell’oggetto in questione. È quello che i teorici della letteratura hanno chiamato “essenzialismo strategico“. Quello di Elena Gianini Belotti è un libro che andrebbe consegnato a ogni insegnante, regalato ai genitori, letto da tutti. Perché stare dalla parte delle bambine non è schierarsi stupidamente e fare il tifo per le ragazze, ma attivarsi perché tutti possano crescere liberi, ragazzi e ragazze, di essere se stessi, di fare danza classica o andare a cavallo, di imparare il tombolo o andare a pescare, di sognare il cosmo e i viaggi oppure una casa in campagna e un recinto con le galline.

Soundtrack: Janis Joplin, Kozmic Blues

Image © Julie Morstad

Letture consigliate: Storie della buonanotte per bambine ribelli, di Elena Favilli e Francesca Cavallo, edito da Mondadori.

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Il canto delle sirene ferroviarie

“[…] ho sentito il canto delle sirene ferroviarie (ogni luogo ha la sua sirena) che ha spinto tante donne, uomini e ragazzi a darsi alla via della strada. Il loro canto scendeva indescrivibilmente avvolgente, dissonante, note crudeli miste a inni di guerra (l’andare sempre senza chiudersi mai in una cella) ricadenti dall’immensa volta della stazione cattedrale… Ecco: le voci delle sirene entrano dalle aperture con sfrigolio di ruote, altoparlanti e frusciare di passi, versi richiamati dall’underground, dalle file ai botteghini, dall’aprirsi del pacchetto delle patatine, giornali (almeno quattro o cinque correnti di suoni) si mescolano sapientemente (la sapienza del caos che ci regola) a mezz’aria per poi slanciarsi verso le volte, da dove prendono a ricadere in una pioggia fitta di note impastate di tutte le disperazioni, le gioie del viaggio, della fuga ora coatta ora voluta dall’eterna corsa ambivalente che ogni ‘essere nato’ porta con sé per tutta la vita”.

Goliarda Sapienza, al canto delle sirene ferroviarie, non sapeva resistere. Pochi giorni a Roma, tra gli amici “cinematografari”, la scrittura, il teatro sperimentale. Poi correva a rifugiarsi a Gaeta, nella vecchia mansarda che condivideva con Angelo Pellegrino, poi ritornava a Positano, dove la aspettavano fantasmi di vecchie storie, amicizie e luce, anfratti raggiunti solo dal mare e piedi nudi sulle scalinate che portano alla spiaggia.

Passare davanti alla stazione e lasciarsi ipnotizzare dalla voce automatica che srotola le destinazioni, dai cartelloni che sbattono le ciglia ammiccando, dai caffè presi al volo, dalla partenza inesorabile di un treno. E non potersi fermare. Per me, che al canto delle sirene ferroviarie soccombo volentieri dai tempi delle corse notturne a Gare du Nord, la gioia della fuga, ora coatta ora voluta, arte nella quale amavo considerarmi un’esperta, oggi che il tempo scivola indisturbato e lo spazio si restringe sempre più intorno, è quella di trovare una nuova strada, di conoscere quello che ho già, parafrasando Saramago, andare a vedere con la pioggia quello che ho visto con il sole, respirare l’aria di primavera in un bosco visitato solo in inverno.

Ho scoperto un nuovo autobus per raggiungere l’università e la mattina corro a prenderlo con l’entusiasmo di quando si resta svegli la notte, la vigilia della gita. Il libro rimane aperto sulle ginocchia e io con il naso incollato al finestrino. In quaranta minuti, attraverso tutta Parigi: il bus passa accanto al colonnato della Borsa, si tuffa nel grigio che circonda la Senna, sfila davanti ai capannelli dei bouqinistes, fa la riverenza ai teatri di Châtelet, fa l’occhiolino da lontano a Notre-Dame, arriva in punta di piedi nel quartiere degli studenti, dove tutti vanno di fretta, si stringono nelle giacche, fumano l’ultima sigaretta e corrono verso un ufficio, un’aula, una copisteria. E anche io corro insieme a loro, finalmente parte del pianeta che gira.

E non solo, ritornare nei luoghi già visti, la magia di ripetere gli stessi itinerari in città, che significa ritrovarsi con lo stesso microscopico universo che la mattina si alza alla stessa ora, reitera gli stessi gesti. Alle otto in punto, alla fermata del bus della rue Custine, ai piedi di Montmartre, ogni giorno, un ragazzino con la giacca a vento blu cobalto passa sfrecciando con il monopattino, arriva una donna con un cappotto di panno, ricamato con degli orsi polari, la macelleria apre, un signore anziano e il suo cane, entrambi con la stessa giacca di lana, passeggiano non appena si spengono i lampioni.

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A casa, il pianeta inizia nel soggiorno e finisce nella camera da letto, insormontabile periplo che Emile, otto mesi, inizia a percorrere. Assisto all’inquietudine di un corpo che fino a ieri era un organismo da nutrire e mantenere in vita, e oggi si trasforma velocemente in personalità, carattere, guizzo, risate, reazioni, uniche e meravigliose. Ancora costretto in un involucro che non gli consente di muoversi e andare, punta i piedi, si rotola, solleva il petto, stende le braccia, ricade sul letto, si rialza, prova ad andare avanti ma va indietro o, nel migliore dei casi, di lato. E nonostante i tentativi falliti, in pochi minuti riesce ad attraversare tutto il letto, a raggiungere il punto opposto del tappetino. Come dice Elena Gianini Belotti, il bambino ha l’istinto del vagabondo, “curioso di qualsiasi cosa e desidera viverla, e proprio in quel momento. […] è disposto ad affrontare rischi, pericoli, ripulse violente, scontri cruenti, battaglie durissime. Conquiste faticose che non sono mai definitive e possono durare anche solo un momento. Ma lui non ci bada, è disposto a riprovarci, ogni volta si espone temerariamente, affronta maltrattamenti, botte, morsi, graffi, con un coraggio che è soltanto suo e di quell’età”.

Mi fermo a guardarlo mentre cerca di alzarsi, afferra le mie mani e muove un piede poi un altro. La serietà e la concentrazione che dedica a ogni sforzo, ogni piccolo passo. Una fortissima voglia di muoversi, di andare, di camminare da solo, di staccarsi dal mio abbraccio, di essere anche lui parte del pianeta che gira ininterrotto.

“Un essere così intrepido, che vive con tale intensità, meriterebbe autonomia, incoraggiamento, approvazione, incondizionata ammirazione. Gli andrebbero dati i mezzi, il materiale per le sue esplorazioni, come si fa con un ricercatore, e poi bisognerebbe rispettarlo e lasciarlo in pace”, conclude Gianini Belotti. Perché “il bambino è una persona seria”.

 

Mentre io riprendo piano il mio spazio nel mondo esterno, Emile ogni giorno conquista qualche centimetro in più e se la ride. E io resto qui, a chiedermi se le sirene ferroviarie si sentono anche a otto mesi.

Image @ bebopix.fr

Soundtrack: Train Song, Feist & Ben Gibbard