Il canto delle sirene ferroviarie

“[…] ho sentito il canto delle sirene ferroviarie (ogni luogo ha la sua sirena) che ha spinto tante donne, uomini e ragazzi a darsi alla via della strada. Il loro canto scendeva indescrivibilmente avvolgente, dissonante, note crudeli miste a inni di guerra (l’andare sempre senza chiudersi mai in una cella) ricadenti dall’immensa volta della stazione cattedrale… Ecco: le voci delle sirene entrano dalle aperture con sfrigolio di ruote, altoparlanti e frusciare di passi, versi richiamati dall’underground, dalle file ai botteghini, dall’aprirsi del pacchetto delle patatine, giornali (almeno quattro o cinque correnti di suoni) si mescolano sapientemente (la sapienza del caos che ci regola) a mezz’aria per poi slanciarsi verso le volte, da dove prendono a ricadere in una pioggia fitta di note impastate di tutte le disperazioni, le gioie del viaggio, della fuga ora coatta ora voluta dall’eterna corsa ambivalente che ogni ‘essere nato’ porta con sé per tutta la vita”.

Goliarda Sapienza, al canto delle sirene ferroviarie, non sapeva resistere. Pochi giorni a Roma, tra gli amici “cinematografari”, la scrittura, il teatro sperimentale. Poi correva a rifugiarsi a Gaeta, nella vecchia mansarda che condivideva con Angelo Pellegrino, poi ritornava a Positano, dove la aspettavano fantasmi di vecchie storie, amicizie e luce, anfratti raggiunti solo dal mare e piedi nudi sulle scalinate che portano alla spiaggia.

Passare davanti alla stazione e lasciarsi ipnotizzare dalla voce automatica che srotola le destinazioni, dai cartelloni che sbattono le ciglia ammiccando, dai caffè presi al volo, dalla partenza inesorabile di un treno. E non potersi fermare. Per me, che al canto delle sirene ferroviarie soccombo volentieri dai tempi delle corse notturne a Gare du Nord, la gioia della fuga, ora coatta ora voluta, arte nella quale amavo considerarmi un’esperta, oggi che il tempo scivola indisturbato e lo spazio si restringe sempre più intorno, è quella di trovare una nuova strada, di conoscere quello che ho già, parafrasando Saramago, andare a vedere con la pioggia quello che ho visto con il sole, respirare l’aria di primavera in un bosco visitato solo in inverno.

Ho scoperto un nuovo autobus per raggiungere l’università e la mattina corro a prenderlo con l’entusiasmo di quando si resta svegli la notte, la vigilia della gita. Il libro rimane aperto sulle ginocchia e io con il naso incollato al finestrino. In quaranta minuti, attraverso tutta Parigi: il bus passa accanto al colonnato della Borsa, si tuffa nel grigio che circonda la Senna, sfila davanti ai capannelli dei bouqinistes, fa la riverenza ai teatri di Châtelet, fa l’occhiolino da lontano a Notre-Dame, arriva in punta di piedi nel quartiere degli studenti, dove tutti vanno di fretta, si stringono nelle giacche, fumano l’ultima sigaretta e corrono verso un ufficio, un’aula, una copisteria. E anche io corro insieme a loro, finalmente parte del pianeta che gira.

E non solo, ritornare nei luoghi già visti, la magia di ripetere gli stessi itinerari in città, che significa ritrovarsi con lo stesso microscopico universo che la mattina si alza alla stessa ora, reitera gli stessi gesti. Alle otto in punto, alla fermata del bus della rue Custine, ai piedi di Montmartre, ogni giorno, un ragazzino con la giacca a vento blu cobalto passa sfrecciando con il monopattino, arriva una donna con un cappotto di panno, ricamato con degli orsi polari, la macelleria apre, un signore anziano e il suo cane, entrambi con la stessa giacca di lana, passeggiano non appena si spengono i lampioni.

capture-decran-2017-02-12-a-16-37-10

A casa, il pianeta inizia nel soggiorno e finisce nella camera da letto, insormontabile periplo che Emile, otto mesi, inizia a percorrere. Assisto all’inquietudine di un corpo che fino a ieri era un organismo da nutrire e mantenere in vita, e oggi si trasforma velocemente in personalità, carattere, guizzo, risate, reazioni, uniche e meravigliose. Ancora costretto in un involucro che non gli consente di muoversi e andare, punta i piedi, si rotola, solleva il petto, stende le braccia, ricade sul letto, si rialza, prova ad andare avanti ma va indietro o, nel migliore dei casi, di lato. E nonostante i tentativi falliti, in pochi minuti riesce ad attraversare tutto il letto, a raggiungere il punto opposto del tappetino. Come dice Elena Gianini Belotti, il bambino ha l’istinto del vagabondo, “curioso di qualsiasi cosa e desidera viverla, e proprio in quel momento. […] è disposto ad affrontare rischi, pericoli, ripulse violente, scontri cruenti, battaglie durissime. Conquiste faticose che non sono mai definitive e possono durare anche solo un momento. Ma lui non ci bada, è disposto a riprovarci, ogni volta si espone temerariamente, affronta maltrattamenti, botte, morsi, graffi, con un coraggio che è soltanto suo e di quell’età”.

Mi fermo a guardarlo mentre cerca di alzarsi, afferra le mie mani e muove un piede poi un altro. La serietà e la concentrazione che dedica a ogni sforzo, ogni piccolo passo. Una fortissima voglia di muoversi, di andare, di camminare da solo, di staccarsi dal mio abbraccio, di essere anche lui parte del pianeta che gira ininterrotto.

“Un essere così intrepido, che vive con tale intensità, meriterebbe autonomia, incoraggiamento, approvazione, incondizionata ammirazione. Gli andrebbero dati i mezzi, il materiale per le sue esplorazioni, come si fa con un ricercatore, e poi bisognerebbe rispettarlo e lasciarlo in pace”, conclude Gianini Belotti. Perché “il bambino è una persona seria”.

 

Mentre io riprendo piano il mio spazio nel mondo esterno, Emile ogni giorno conquista qualche centimetro in più e se la ride. E io resto qui, a chiedermi se le sirene ferroviarie si sentono anche a otto mesi.

Image @ bebopix.fr

Soundtrack: Train Song, Feist & Ben Gibbard

Pubblicità

Le città invisibili

Le descrizioni di città visitate da Marco Polo avevano questa dote: che ci si poteva girare in mezzo col pensiero, perdercisi, fermarsi a prendere il fresco, o scappare via di corsa.

Succede spesso di andare lontano per smaltire un carico troppo ingombrante di nostalgia, come il Marco Polo di Italo Calvino. Di riuscire a realizzare quanto buio c’è tutto intorno solo aguzzando la vista sulle fioche luci lontane. Partire quasi per abitudine, per inerzia, per inseguire un desiderio che non ha forma, se non quella astratta e vaga del cambiamento, della svolta, il colore mai visto di una pagina bianca, ma non vuota.

Puntare il dito sul mappamondo e scegliere una nuova destinazione, solo per avere la possibilità di scappare via di corsa, di cambiare identità, immaginare una nuova vita, di godere del privilegio di sentirsi straniero e del caldo abbraccio del ritorno a casa.

waiting

Viaggiando ci s’accorge che le differenze si perdono: ogni città va somigliando a tutte le città, i luoghi si scambiano forma ordine distanze, un pulviscolo informe invade i continenti.

Può succedere anche di impregnarsi di quell’abitudine di paragonare le città, di ritrovarle, una nell’altra, di riconoscerne schemi, meccanismi, patologie. Di parlare di una mentre ci si ricorda di un’altra. E a volte, all’estremo di quest’insana mania, si finisce per vivere altrove, pur continuando a ritrovarsi in un vecchio appartamento di qualche tempo fa. “Tutto è mio, niente mi appartiene, nessuna proprietà per la memoria, mio finché guardo”, scriveva Wislawa Szymborska, “Parigi dal Louvre fino all’unghia si vela d’una cateratta. Del boulevard Saint-Martin restano scalini e vanno in dissolvenza.”

Una dissolvenza che continua, fino ad avvolgere tutto l’orizzonte, fino a creare una città invisibile, dove ci si muove, ci si sposta, si cammina, in una dimensione spazio-temporale altra, sconosciuta. Risalendo la rue Saint-Eleuthère, che dalle scale della Basilica del Sacro-Cuore porta alla Place du Tertre, se ci si ricorda di guardare a sinistra, lontana, nascosta tra la bruma del mattino, si scorge la Tour Eiffel. Seguendo la rue Caulaincourt, tra un caffè e una boulangerie, si aprono affacci improvvisi sulla città di Parigi, sulle mansarde, sulle mani alzate dei comignoli, sulla distesa di tetti grigi, sulle cupole dorate in lontananza. Cosa è reale e cosa non lo è?

Non riconosco nulla, eppure niente è estraneo, ricordo a memoria i nomi delle strade, i colori delle insegne dei negozi, le canzoni dei musicisti sulla rue Norvins. Come una città invisibile, Parigi ha un altro nome e un’altra forma, deriva la sua figura dal deserto a cui si oppone, dalla risposta che ha dato, finalmente, alle mie domande, al cambiamento, giunto all’improvviso, una mattina americana come tante.

È delle città come dei sogni: tutto l’immaginabile può essere sognato ma anche il sogno più inatteso è un rebus che nasconde un desiderio oppure il suo rovescio, una paura. Le città come i sogni sono costruite di desideri e di paure.

tree

Parigi non ha indirizzi, non ha strade, non ha fermate della metropolitana. Oggi si compone di desideri e di paure, di entusiasmi ingiustificati, di timore, di meraviglia insignificante, di facce che rivedo per la prima volta. Mi sveglio la mattina senza l’impulso di andare via, di rincorrere quella dissolvenza, senza la voglia di sparire il più presto possibile. Sono esattamente dove dovrei essere, forse.

Come un cambio nell’armadio dei ricordi, ripongo tutto quello che è stato per fare spazio al nuovo, che è arrivato senza chiedere il permesso, senza preavviso. Metto da parte quello che ho accumulato durante anni di viaggi, di domicili incerti, di lettere che continuavano ad arrivare nella buca sbagliata. Mi guardo indietro senza capire bene dove tutto sia cominciato, “per questi porti non saprei tracciare la rotta sulla carta, né fissare la data dell’approdo”, ma riesco ad intravedere una direzione. Un disegno che inizia a formarsi, unendo i puntini, finalmente.

Alle volte mi basta uno scorcio che s’apre nel bel mezzo d’un paesaggio incongruo un affiorare di luci nella nebbia, il dialogo di due passanti che s’incontrano nel viavai, per pensare che da lì metterò assieme pezzo a pezzo la città perfetta, fatta di frammenti mescolati col resto, d’istanti separati da intervalli, di segnali che uno manda e non sa chi li raccoglie. Se ti dico che la città cui tende il mio viaggio è discontinua nello spazio e nel tempo, ora più rada ora più densa, tu non devi credere che si possa smettere di cercarla. Forse mentre noi parliamo sta affiorando sparsa entro i confini del tuo impero.

Images © Thomas Campi

Soundtrack: Cat Power, No Sense

Quotes: Italo Calvino, Le città invisibili