Luna piena

Andrea non s’era perso. Anzi, sapeva fin troppo bene dove andare. Sin dall’inizio. Quando si presentò inaspettato, inatteso, sul pianeta Terra. Erano tutti gli altri, intorno a lui, a essersi smarriti, in coordinate geografiche incerte, in uno spazio-tempo indefinito e poco rassicurante. Perché non bastava il sole, né il mare, a fare bella la vita se tutto l’orizzonte è da rifare. Non era Andrea a essersi perso. Ma la mamma, finita in mezzo al mondo a spiegare un pancione. E il papà, catapultato in un altro universo, che parlava un’altra lingua.

Mani sconosciute che lo accarezzano, ospedali chiusi per le feste patronali, conoscenti che non bevono il caffè perché altrimenti il bimbo nasce con la voglia, vecchiette che al supermercato nascondono la frutta nelle sporte, “ché sennò gli vengono le macchie”. E poi, quella precarietà, quella guerra tra poveri che, nelle lande periferiche, fa sì che gravidanza faccia sempre rima con disagio, paura, timore, mancanza di soldi, fastidio. Anche negli ambienti più amici. Quel sentimento di doversi quasi scusare di essere là e di avere avuto un’idea improbabile.

Dal suo arrivo, tutto continuava inalterato in uno strano limbo. Il lavoro, la scuola, l’asilo, la spesa. “Io ero già un maschietto ma mi chiamavano con nomi da femminuccia. Papà prendeva le misure per il lettino e la vaschetta. Intanto, un altro bimbo saltava sulle ginocchia della mamma, la stringeva forte forte, forse per paura di doverla dividere con qualcun altro.

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Parentesi tonda

“Chiuso per festività patronali”. Mentre tornavo a casa con un bicchiere pieno di pipì appena fatta nella borsa, davanti alla porta chiusa del laboratorio di analisi dell’ospedale di Lecce una giornata di fine agosto, in quel cartello appeso al muro e nella monetina data al parcheggiatore abusivo per i dieci minuti di sosta, che m’ero ripromessa di raccontare, ho issato finalmente la bandiera bianca.

Mi sono arresa alla casualità e all’imprevedibilità e alle difficoltà inedite di questa attesa. Alla voglia di silenzio, all’incapacità di mettere nero su bianco i pensieri, i personaggi, le tante vicissitudini di questa parentesi tonda, anzi tondissima, della mia vita. Alla necessità di realizzare che avrei dovuto fare posto per un amore grande, un tempo che non conosce più confini, mantenendomi all’altezza di essere una mamma di un bimbo di tre anni. Eppure, quanto ne avrei avuto bisogno. Di riempire le pagine di un diario, di fare liste, bilanci, elenchi di desideri e cose da ricordare. Di segnare i tre fatti del giorno, di annotare i piccoli traguardi, le conquiste infinitesimali, i minimi passi in avanti della consapevolezza di essere di nuovo in procinto di osservare una vita che nasce.

Lo scorso anno, mentre facevo le valigie per abbandonare Parigi, mi dilettavo in bilanci, liste, resoconti delle tante primavere passate in terra ormai non più straniera, cullata da un confortevole anonimato, dal lusso dell’invisibilità. E oggi, mentre il mondo intero mi rassicura di “essere tornata a casa”, io in questa landa che non riconosco, mi sembra di non avere più lo spazio per pensare, riflettere, articolare un pensiero complesso e ragionato. E non solo per la scarsa capacità di concentrazione. Le mani fanno ormai fatica ad arrivare alla tastiera. Ogni seduta o posizione resta difficilmente praticabile per più di un quarto d’ora.

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Ci vuole un fiore

Due anni. Duecentocinquantamila bottoncini a pressione. Circa quattrocento notti bianche che non torneranno più. Una ventina di calzini spaiati, le ginocchia sbucciate e le dita rigate dai pastelli. Ti prendo per la mano e corri via. Vuoi fare da solo, scoprire, farti male, sbagliare, sbattere la testa e piangere. E alla fine, continuare a riprovare. E io resto dietro a guardare, senza interrompere. Sbagliare, finire contro un muro e ritornarci è quello che faccio sempre anche io.

Le cose che tu mi hai insegnato, invece, non le conto più. Far scivolare il tempo tra le mani, seduti a terra a guardare una formica. Inventare un alfabeto altro, parole nuove. Sentire la felicità, stesi a terra a guardare il soffitto, mangiando un biscotto. Mi hai insegnato che esistono abissi di paura e che, se guardi bene, in fondo, c’è una risata. Che non ci si conosce mai per intero. E che esiste un tempo parallelo, che non è il tempo degli uomini, ma quello dell’amore ché, se mi stringi la mano, basta un minuto a far passare il mal di pancia di giorni interi, il nodo in gola di tutta una notte.

vedere insieme
una forma
deposta sul fondo

la forma del niente
o quella di un antico insetto
il primo che vide la terra

forse la nostra voce
viene dalle sue ali
il vuoto dal suo cuore spento

mentre tu mi prendi la mano
e mi porti nel punto più buio di tematerassi

 

 

 

 

 

 

Due anni di meraviglia, di stupore, di frustrazioni acerbe e dubbi che tornano a fare visita di notte. Tu, invece, ti addormenti sereno sulla mia spalla, sicuro che se la vita non ha sogni, io ce li ho e te li do, tutti. Tu, così piccolo che mi insegni ad avere fiducia, a seguire l’istinto, a continuare a vivere a modo mio, a credere in quello che sono, ad amare quello che faccio e io che mi ritrovo a inseguire i sogni, a sbattere la testa ancora più forte, a correre dietro a un battito di cuore, a vivere il più possibile, perché tu un giorno sia fiero di me.

Émile, anima antica, che tutto comprende e tutto perdona. L’unico che rimette ogni debito e non conosce il peccato. Il solo che indovina quando ho detto una bugia. Che mi accarezza i capelli quando piango e non mi dice mai di smetterla. Emile, che ancora non parli, che hai un mondo in potenza che sta per esplodere, sulla punta delle tue labbra, e sei l’unico a saper chiedere scusa. Tu che hai poteri magici e neanche lo sai. Che fai volare i gabbiani attaccati alle pagine del libro. Che spaventi la tristezza con un bacio e schiacci la malinconia con un ditino. Che hai sulle spalle la saggezza sconosciuta dell’universo e corri leggero. Insegui le formiche e le saluti prima di andare via. Per te, che per fare tutto ci vuole un fiore.

 

L’amore che ci diamo
ci avvicina alle montagne
agli animali
agli sconosciuti che di notte
ci stringono la mano.

Pensare che Dio ti abbia detto qualcosa
che non ha mai detto a nessuno.
Pensare che tu mi cerchi
per non farmi credere più a niente
che non sia sconfinato.

Buon compleanno, piccola grande vita.

Soundtrack: Piazza Grande, Lucio Dalla 

Poesie di Franco Arminio.

Immagini di Julie Morstad.