Squat Le Bloc: un’utopia pirata

“Non ho mai visto uno squat fare nulla del genere”, aveva dichiarato una residente del 19simo arrondissement, a proposito del contagioso entusiasmo de Le Bloc, edificio occupato situato al civico 58 di rue de la Mouzaïa. Un’enorme facciata grigia. Niente di più visto dalla strada.

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All’interno, invece, una miniera d’oro di creatività e idee. Ispirazione, dialogo e solidarietà. Visite guidate e porte sempre aperte al pubblico, a meno di un mese dall’apertura. Un coinvolgimento senza sosta del quartiere e dei cittadini. Recuperato lo scorso dicembre, questo vecchio edificio appartenente alla Direzione Regionale degli Affari Sanitari e Sociali (Drassif) comprende 7000 metri quadri distribuiti su 7 piani, occupati da quasi 200 persone, tra artisti, giornalisti, creativi, la maggior parte dei quali frequentavano l’edificio solo per approfittare dell’ingente potenziale creativo, conservando il proprio appartamento.

Tra i residenti di le Bloc, invece, c’erano anche, e soprattutto, quelli che i francesi, con un discutibile eufemismo, chiamano “mal-logés”, letteralmente “male alloggiati”, in realtà senzatetto, esclusi, padri di famiglia separati e improvvisamente senza più un letto e, in questo caso, anche un neo-nato di 6 mesi, lieti di poter usufruire del caldo, del cibo cucinato per tutti, delle docce e di un giaciglio. Sono queste le storie, le esistenze e i casi particolari messi alla porta venerdì 6 dicembre, dalle 7 del mattino, quando un centinaio di poliziotti ha effettuato l’evacuazione dello squat, nel giro di poche ore. “Tutto è avvenuto pacificamente, con calma”, hanno dichiarato gli ex occupanti. La decisione dello sgombero era, infatti, già stata annunciata lo scorso 13 novembre dal prefetto.

L’obiettivo era quello di diventare il 6b dell’Est parigino, almeno secondo le migliori intenzioni. Fare di questo edificio abbandonato un nuovo polmone della vita culturale nel 19simo, seguendo l’esempio dello squat che, nel giro di due anni, è riuscito ad imporsi come uno dei pilastri della scena artistica in un quartiere disagiato e periferico come Saint-Denis. Da qui, le visite guidate per i giornalisti e, soprattutto, per gli abitanti del quartiere, “i nostri principali nemici, ma anche i nostri maggiori alleati”, riferivano gli occupanti. Sin dal primo mese d’apertura, non sono mancate le occasioni di dialogo per entrare in contatto con il fermento creativo dello squat. “È necessario che la stampa e i nostri vicini sappiano cosa succede qui dentro”, continuano, “per poterci aiutare e difendere”.

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All’interno dell’edificio, i sei piani erano occupati per intero da artisti e persone in difficoltà, mentre il piano terra era aperto al pubblico, ogni giorno dalle 10 alle 22, per permettere a curiosi e passanti di sbirciare all’interno di uno dei più grandi squat della regione Ile-de-France. Ogni piano contava un responsabile e tutte le decisioni riguardanti l’estetica dell’edificio erano prese di comune accordo, in perfetta democrazia. Nonostante l’aura di utopia pirata, lo squat è stato, infatti, un perfetto esempio di anarchia strutturata e ben organizzata. Le Bloc, in fondo, sta per “Bâtiment libre Occupé Citoyennement”, vale a dire “Edificio libero occupato in maniera cittadina”. Ma non solo.

Le Bloc era anche 4 seminterrati e un tetto, nonché corridoi e scale esuberanti di sorprese e incontri fortuiti. Una vera e propria sinergia effervescente di creatività, animata da attori, ballerini, fotografi, scultori, musicisti, video-maker, ma anche falegnami, artigiani, scenografi, provenienti da tutto il mondo. “Qui le possibilità sono illimitate”, raccontava Tonio, uno dei residenti in un’intervista di qualche mese fa sull’Express. Ma la città di Parigi sembra non amare gli imprevisti e, nonostante la fervida programmazione dello squat, ha deciso di chiudere le porte di questa gigantesca scatola di sorprese.

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Richard Sennett, autore e sociologo statunitense, in un articolo per il Guardian pubblicato lo scorso dicembre, ha descritto l’evoluzione delle cosiddette “smart city”, ovvero città concepite “secondo una visione fordista”, dove “ogni attività è svolta in tempi e spazi ben precisi”, improntate alla filosofia “user friendly”, dove questa significa “scegliere all’interno di un meno di offerte e non comporre il menu”.

La città di Parigi, fiera delle rive della Senna, fresche di ristrutturazione, delle sue nuove attrazioni, di un intrattenimento sempre più disciplinato, sembra dirigersi verso questa direzione, sopprimendo escrescenze artistiche e imprevisti creativi, ignorando che, sempre secondo Sennett, “per creare qualcosa di davvero nuovo, oggi come ieri, bisogna trovarsi nel posto sbagliato al momento sbagliato”.

La chiusura degli squat ha, infatti, tutta l’aria di una procedura di eliminazione di tutto ciò che si rivela incontrollabile e anarchico, pur dimostrandosi di utilità pubblica e sociale. Negli ultimi anni, l’inaugurazione di nuovi luoghi culturali, dove incasellare ed etichettare ogni forma di creatività, sembra aver privato sempre di più Parigi della possibilità della casualità, dell’incontro fortuito, dell’imbattersi in qualcosa di inatteso. La città propina itinerari già costruiti, mentre, “potendo scegliere, le persone preferiscono una città aperta e indeterminata nella quale potersi fare una strada. Così sentono di avere il controllo sulle loro vite”.

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Sono rimaste inascoltate le proteste della manifestazione del 4 dicembre, quando duecento persone hanno sfilato lungo la strada che porta al Municipio del 19simo arrondissement, sostenute dalle associazioni DAL (Droits au Logement), Médécins du Monde, Fondation Abbé Pierre e La Chorba. “Nessuno ha voglia di vedere il proprio vicino che si ritrova al freddo e per strada, in pieno inverno”, racconta Léa, artista, ex-residente dell’edificio, ai microfoni di Libération, “in più, qui si tratta di un bel po’ di vicini”. Inascoltata è stata, infatti, anche la richiesta di chiudere un occhio e applicare la cosiddetta “tregua invernale”, che tutela da sgomberi ed evacuazioni a partire dal 1° novembre, in teoria non valida per i cittadini occupanti un alloggio senza averne diritto, non avendo firmato alcun contratto.

“Vogliamo città che funzionino bene, ma che siano aperte alle trasformazioni, alle incertezze e alla confusione della vita reale”, conclude Sennett. “Chiude il contenitore, ma non il contenuto”, annunciano gli ex-residenti, “e per uno squat che chiude, altri 10 si apriranno”.

Foto recuperate dalla pagina fb dello squat.

Qui l’articolo pubblicato su Doppiozero per il debutto della rubrica Pavé de Paris.

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Un dimanche soir

Undicesimo giorno a Parigi. Primo trasloco.

Arrivo nella mia nuova casa, a pochi metro dalla fermata Place de Clichy, una rotonda impazzita di ostriche, cozze fritte, Mac Doner, maroquinerie odoranti di cuoio, alberghetti senza pretese, Bonjour, ça va? a ogni svolta del marciapiede, parrucchieri africani, lingue magrebine, una piazza che di francese sembra avere solo la statua del maresciallo Moncey, che nel 1814 difese la barriera di Clichy contro i russi, e oggi, dal suo piedistallo alto 8 metri, veglia su questo frenetico girotondo della capitale, che sfiora quattro arrondissement della città.

Quartiere brulicante ai piedi di Montmartre, umile e dimesso, Place de Clichy non gode di ottima reputazione tra i francesi, soprattutto tra i naturalizzati parigini. A me viene in mente un solo autoctono che amava tanto questa parte del diciottesimo: Mano Solo, adorata ugola nazionale, morto nel 2009 di AIDS, che implorava Parigi di prenderlo tra le braccia, da Barbès fino a Place Clichy, l’unico posto dove avrebbe voluto perdere la sua vita.

M’improvviso seguace del je-m’en-foutisme (che in italiano suonerebbe volgarmente come ‘menefreghismo’, perdendo il piglio chic tutto francese), lascio le valigie, in un pomeriggio di fine ottobre inaspettatamente caldo, prendo al volo una felpa e scendo per strada, decisa a lanciarmi nell’esplorazione della parte più selvatica del quartiere, lontana dai cavalli delle giostre di Abbesses e dalle luci a intermittenza di Pigalle. Ma prima di scivolare lungo Boulevard de Clichy, uno dei quattro assi della piazza, una distesa impertinente di tavolini di zinco che soffocano l’intero viale, passo almeno mezz’ora nella mia strada, e scopro che, nascosta dall’insipida rue Forest, che la precede, rue Cavallotti è tra le strade più eleganti del quartiere, anche in una tranquilla domenica sera. Et ouais, je suis là. 

Negozi chiusi. Lampioni bassi. E ogni saracinesca è un quadro, un antico affiche di un cinema o di un teatro d’avanspettacolo. Dal Moulin de la Galette alla Cigale, dal Trianon a un gioioso Moulin Rouge. Di serrata in serrata, tutta la storia del varietà parigino, che adesso ancora continua pochi metri più in là sul Boulevard de Clichy, mi scorre davanti, passo dopo passo. Un can can silenzioso prende vita ogni sera. Non appena i negozi abbassano le saracinesche, le cosce tornano ad alzarsi, in questa pinacoteca a cielo aperto della Parigi di una volta, che sembra quasi profumare ancora di cipria.

Lasciata rue Cavallotti, riprendo i vecchi intenti e mi dirigo verso la piazza. Che attraverso indenne, se non fosse per l’odore penetrante delle ostriche annacquate di succo di limone e i gamberi pallidi, in vendita per strada, insieme alle pannocchie abbrustolite e ai kebab. Lungo il Boulevard de Clichy, a destra si apre rue des Dames, tra le più vivaci del quartiere, con bar all’inglese e invitanti boulangerie. E una boutique di dubbio gusto per le dames più eccentriche della rue intitolata alle signore.

Intanto, all’ombra del boulevard, gli esercizi di stile dei writer della zona costellano le mura dei palazzi più alti. Tappezzate di manifesti dei concerti delle star africane, in tournée in Francia, le traverse del viale sono il teatro della battaglia culturale tra gli immigrati nordafricani, ormai padroni di Clichy, e la nuova leva degli studenti francesi, che si rifugiano nei quartieri sempre più vicini alla periferia per sfuggire alla piaga delle chambre de bonne da 10 metri quadri in centro.

Alla fine della rue de Dames, dove c’è anche un più ordinario Franprix, termina la mia prima balade nel diciottesimo arrondissement, che mi piace sempre di più, e dove resterò almeno fino a fine gennaio, in un appartamento che mi ha fatto capitolare dalla prima volta in cui ci ho messo piede. Dei francesi che mi chiedono perplessi perché proprio da queste parti, da buona je-m’en-foutiste, non me ne curo più di tanto. Per adesso, la mia vita a Parigi si è persa qui.

Bonne nuit, place Clichy.

Tutte le altre foto, sulla mia pagina Flick: AuVentMauvais