A 95 anni, mia nonna dimenticava quasi tutto ormai. Quando andavamo a trovarla, ci chiedeva ogni cinque minuti se e cosa avessimo mangiato, se non volessimo un caffè d’orzo, per quanto tempo saremmo rimaste a casa. Il tempo era diventato una tela astratta di volti e di voci, ma quella che era stata un’infanzia povera e semplice la ricordava benissimo. E anche di quella zingara che, da piccola, le aveva letto la mano, nei vicoli del Riale. “Bello, ricco e possidente”, aveva detto, annunciandole un matrimonio fortunato con un generoso e fiero ragazzo del suo paese. E così fu. La profezia si avverò quando mia nonna Antonia, ultima di cinque figli, nata in una povera famiglia contadina, incontrò mio nonno Carmelo, imprenditore agricolo, proprietario di estesi poderi, di un frantoio, di una cantina e anche di un commercio fruttuoso di patate dirette in Germania, e si sposarono.
Era il 1946, lui era tornato dalla guerra. Lei, che aveva lasciato la scuola per occuparsi dei fratelli e lavorare in campagna, scopriva le gioie e i dolori della vita coniugale. Una vita a due che fece di mia nonna una mamma a tempo pieno, con undici gravidanze, di cui sette portate a termine, due aborti e due figli scomparsi da piccoli, e di mio nonno un uomo di campagna, che passava la giornata tra i campi, fucile in mano, cavalli al seguito e i suoi ettari di terra. “La roba”, avrebbe detto qualcuno, che, come nelle migliori novelle siciliane, non tardò a causare dissapori. Una vita fatta di risvegli tiepidi, quando ancora il cielo è buio, di sette paia di scarponcini da lucidare prima di andare a scuola, sette panierini da preparare e poi il pranzo e la cena per nove, ogni giorno, senza soluzione di continuità. E poi la malattia del nonno, che la portò in treno, in carrozza, negli ospedali di città, per la prima volta fuori dai confini di Matino. La malattia, quella che ti illude che è finita, per poi ricominciare, riprenderti, fino a portarti via con sé.