Un dimanche soir

Undicesimo giorno a Parigi. Primo trasloco.

Arrivo nella mia nuova casa, a pochi metro dalla fermata Place de Clichy, una rotonda impazzita di ostriche, cozze fritte, Mac Doner, maroquinerie odoranti di cuoio, alberghetti senza pretese, Bonjour, ça va? a ogni svolta del marciapiede, parrucchieri africani, lingue magrebine, una piazza che di francese sembra avere solo la statua del maresciallo Moncey, che nel 1814 difese la barriera di Clichy contro i russi, e oggi, dal suo piedistallo alto 8 metri, veglia su questo frenetico girotondo della capitale, che sfiora quattro arrondissement della città.

Quartiere brulicante ai piedi di Montmartre, umile e dimesso, Place de Clichy non gode di ottima reputazione tra i francesi, soprattutto tra i naturalizzati parigini. A me viene in mente un solo autoctono che amava tanto questa parte del diciottesimo: Mano Solo, adorata ugola nazionale, morto nel 2009 di AIDS, che implorava Parigi di prenderlo tra le braccia, da Barbès fino a Place Clichy, l’unico posto dove avrebbe voluto perdere la sua vita.

M’improvviso seguace del je-m’en-foutisme (che in italiano suonerebbe volgarmente come ‘menefreghismo’, perdendo il piglio chic tutto francese), lascio le valigie, in un pomeriggio di fine ottobre inaspettatamente caldo, prendo al volo una felpa e scendo per strada, decisa a lanciarmi nell’esplorazione della parte più selvatica del quartiere, lontana dai cavalli delle giostre di Abbesses e dalle luci a intermittenza di Pigalle. Ma prima di scivolare lungo Boulevard de Clichy, uno dei quattro assi della piazza, una distesa impertinente di tavolini di zinco che soffocano l’intero viale, passo almeno mezz’ora nella mia strada, e scopro che, nascosta dall’insipida rue Forest, che la precede, rue Cavallotti è tra le strade più eleganti del quartiere, anche in una tranquilla domenica sera. Et ouais, je suis là. 

Negozi chiusi. Lampioni bassi. E ogni saracinesca è un quadro, un antico affiche di un cinema o di un teatro d’avanspettacolo. Dal Moulin de la Galette alla Cigale, dal Trianon a un gioioso Moulin Rouge. Di serrata in serrata, tutta la storia del varietà parigino, che adesso ancora continua pochi metri più in là sul Boulevard de Clichy, mi scorre davanti, passo dopo passo. Un can can silenzioso prende vita ogni sera. Non appena i negozi abbassano le saracinesche, le cosce tornano ad alzarsi, in questa pinacoteca a cielo aperto della Parigi di una volta, che sembra quasi profumare ancora di cipria.

Lasciata rue Cavallotti, riprendo i vecchi intenti e mi dirigo verso la piazza. Che attraverso indenne, se non fosse per l’odore penetrante delle ostriche annacquate di succo di limone e i gamberi pallidi, in vendita per strada, insieme alle pannocchie abbrustolite e ai kebab. Lungo il Boulevard de Clichy, a destra si apre rue des Dames, tra le più vivaci del quartiere, con bar all’inglese e invitanti boulangerie. E una boutique di dubbio gusto per le dames più eccentriche della rue intitolata alle signore.

Intanto, all’ombra del boulevard, gli esercizi di stile dei writer della zona costellano le mura dei palazzi più alti. Tappezzate di manifesti dei concerti delle star africane, in tournée in Francia, le traverse del viale sono il teatro della battaglia culturale tra gli immigrati nordafricani, ormai padroni di Clichy, e la nuova leva degli studenti francesi, che si rifugiano nei quartieri sempre più vicini alla periferia per sfuggire alla piaga delle chambre de bonne da 10 metri quadri in centro.

Alla fine della rue de Dames, dove c’è anche un più ordinario Franprix, termina la mia prima balade nel diciottesimo arrondissement, che mi piace sempre di più, e dove resterò almeno fino a fine gennaio, in un appartamento che mi ha fatto capitolare dalla prima volta in cui ci ho messo piede. Dei francesi che mi chiedono perplessi perché proprio da queste parti, da buona je-m’en-foutiste, non me ne curo più di tanto. Per adesso, la mia vita a Parigi si è persa qui.

Bonne nuit, place Clichy.

Tutte le altre foto, sulla mia pagina Flick: AuVentMauvais

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