Punto di non ritorno

Ci sono viaggi di ritorno che non mi hanno mai riportata indietro. Posti dai quali non sono più tornata. Viaggi che non ho raccontato a nessuno, quelli che mi hanno fatto sentire grande per la prima volta, preparare una valigia al volo e partire, senza dover chiamare nessuno all’atterraggio. Voli che mi hanno catapultato per qualche giorno nelle vite altrui. Partenze che ho confidato solo a pochi, con una promessa: “se ritorno, dammi uno schiaffo“.

Poi ci sono anche i viaggi di ritorno ordinari, standard, quelli che non ho mai descritto perché sono solo una banale attesa tra due destinazioni, che servono solo a trasportarti da un luogo all’altro della terra. Sono di solito i più lunghi. Come il mio primo viaggio di ritorno dagli Stati Uniti, una traversata durata mezza giornata. Da New York a Roma, da Roma a Brindisi, con i diari di Susan Sontag in mano e l’adrenalina di tre mesi in America ancora tutta ferma in un nodo in gola.

Quello cominciato un anno fa è sicuramente il più importante dei miei viaggi, quello dal quale non sono più tornata e sicuramente non tornerò più. Per mesi, sono rimasta nel mio quartiere, nel punto più alto di Montmartre. Ho smesso perfino di prendere la metropolitana per un po’. E senza muovermi da casa, ho conosciuto parti di me stessa che non avrei mai sospettato d’avere. Abissi di gioia, talmente grande da far paura a guardarci dentro. Cascate di impotenza, cime altissime di rabbia, tempeste di stanchezza. Il dolore fisico più grande mai sopportato prima. I nervi che saltano. Il cuore che batte per cose nuove. Sfumature inedite che ho dato alle parole amore, vita, solitudine, tempo, libertà.

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La vista dalle finestre dell’ospedale, un anno fa.

Quando Émile è nato, il 31 maggio dello scorso anno, a Parigi pioveva. Era un maggio insolito, molto diverso da questo mese asfissiante che ci sta trascinando già stanchi e arsi all’inizio dell’estate, da questa primavera volata via. Sulle finestre dell’ospedale Lariboisière, batteva forte il vento e cadevano righe di pioggia. Sul mio comodino, gli antidolorifici quotidiani, gli antispasmodici, un bicchiere d’acqua e una pila di libri e fumetti presi in prestito alla biblioteca dell’ospedale, che non avrei mai letto.

Davanti a me, ore interminabili di attesa, la pancia stretta in un laccio e cronometrata, l’anestesia che non funziona, qualche minuto nella terra di nessuno e poi un esserino raggomitolato tra le braccia, con gli occhi semichiusi, dove già mi sembrava di intravedere tratti familiari, una testolina minuscola che pensavo di conoscere da sempre.

Dopo le prime lacrime, ne sono venute altre, e poi non c’è stato più tempo per nulla. Dodici mesi di notti bianche, una valanga di preoccupazioni e inquietudini, migliaia di puntini rossi (rosolia e varicella in un mese solo), capelli con dentro bava, pipì, crema di verdure, banana mangiucchiata, pomata per il culetto, CACCA, sabbia e pezzi di pannolino decomposto, ogni testa più o meno pensante che si sente in diritto di insegnarti a prenderti cura di tuo figlio. Decine di prime volte: la prima pappa, la prima caduta, il primo passettino, il primo volo in aereo, la prima notte completa, la prima babysitter, il primo dentino, la prima volta seduto, la prima volta in piedi, la prima notte completa, il primo pomeriggio senza la mamma, la prima febbre alta, il primo bacino, la prima parola, che non è mai mamma.

Quest’anno sono spariti tanti vecchi fantasmi, ma ne sono forse comparsi dei nuovi. Quando ho scoperto di essere incinta, un’amica mi disse: “le nonne dicevano che quando fai i figli ti passa il mal di testa, nel senso che poi non ti viene più, nel senso, forse, che poi non pensi più alle stupidaggini, che finalmente hai fatto qualcosa di serio, di vero, di importante e, dunque, non ha più tempo per “i  mal di testa”… Ti sembrerà strano, ma adesso tutto sarà più semplice, le cose stanno così e basta“. E forse aveva ragione. I problemi non sono spariti, ma ho imparato a vederli, a rinchiuderli in una parola, a metterli a fuoco, sono diventati ostacoli concreti, che posso evitare, saltare o a volte prendere a calci, quando non ne posso più.

Se è vero che in amore siamo tutti principianti, con un esserino di un anno bisogna ricominciare dalle basi. Mi rimetto in discussione, conto fino a dieci quando tutti i piani e i progetti vanno a monte senza una vera ragione, mi chiedo il perché delle cose, dove sbaglio, perché sbaglio, faccio infiniti passi indietro nella speranza di farne anche uno solo in avanti, e non smetto mai di cercare. E di perdermi ogni giorno in un paio di occhietti neri.

E anche se l’autosvezzamento, il metodo Montessori, l’apprendimento del sonno, per ora sono un buco nell’acqua, spero solo di riuscire a insegnargli le certezze del dubbio, per citare la mia Goliarda, e quanto faccia bene alla salute, una volta ogni tanto, regalarsi un punto di non ritorno, tirare una linea e ricominciare da capo.

Buon compleanno, Émile, piccola grande vita

la tua mamma

 

 

 

 

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L’albero di Natale

n.1

Abete artificiale di prima classe. Acquistato da una decina d’anni e ancora in splendida forma. Ogni anno, tutti gli anni, mi tirano fuori dalla scatola l’8 dicembre, mi approntano diligentemente nell’angolo dello studio, quello dove c’è il computer, lo schermo grande della televisione, la biblioteca, il divano in pelle. La vestizione prende non più di una giornata. Mi addobbano sempre con i toni del rosso e del dorato. Qualche ghirlanda di lucine intermittenti, sostituite con puntualità non appena una lampadina guasta ne compromette l’effetto. Le decorazioni sono disposte sempre nello stesso modo, più in abbondanza sui lati in vista e rade su quello rivolto verso il muro. Lo stupore di chi entra nel salotto dura pochi minuti. Sono un albero di Natale ordinario. Acceso ogni giorno due ore prima di pranzo e due ore nel tardo pomeriggio, anche quando non ci sono ospiti. Prima, quando in casa circolava ancora qualche bambino, ombreggiavo un presepe, fatto con estrema cura. Era tradizione andare a prendere il muschio, grattandolo dalle cortecce con il coltello, per approntare la grotta e le montagne. Un fondo di bottiglia in plastica rivestito di carta d’alluminio faceva da laghetto per i cigni. Ora il presepe non c’è più, sostituito da una natività di cartapesta, talmente poco natalizia da essere lasciata sullo stesso tavolino tutto l’anno. Ai miei piedi, sempre meno regali, sostituiti da efficienti bonifici bancari alle figlie ormai fuori sede. Sparisco ogni anno il 7 gennaio, nel preciso rispetto del calendario. Mi ripongono nel cellophane e poi nella scatola. Nel salotto, resta solo qualche ago verde dimenticato sul pavimento. Come oggetti di poco valore scivolati dalle tasche di un passante disattento.

n.2

Mi hanno chiamato albero sospeso. Ma non cercate cime verdi, aghi di pino, ghirlande e fili di Natale. Non sono un albero, solo una serie di decorazioni acquistate distrattamente al supermercato e appese al soffitto. Di legno ci sono solo le travi a vista dove mi hanno appiccicato. Tra le palline di vetro anche una dove c’è scritto “Il mio primo Natale”. Qui in casa sono l’unico vestito a festa, insieme a un alberello di plastica messo sul frigorifero. L’unico segno delle vacanze imminenti. Il silenzio e l’indifferenza del resto dell’abitazione mi fanno sentire a disagio. Il Natale in casa non c’è e non ci sarà. La notte della vigilia, qualcuno ha accumulato i regali sul tavolo. Nessuno li ha aperti. Bambini troppo piccoli per aspettare con impazienza Babbo Natale, per godersi le mattinate lunghe, quando non si va a scuola e si resta ipnotizzati davanti alla televisione, con i programmi della mattina, mai visti primi. Adulti risucchiati dal lavoro nei ristoranti, dove il Natale è solo l’ennesima festività a cui sopravvivere. Per fortuna sono in alto. Posso vedere il Natale fuori dalla finestra. I turisti che si sbracciano anche sotto la pioggia e vanno a sbattere l’uno sull’altro per farsi una foto. Il signore delle crêpe che ha passato tutto la giornata in un cubo di un metro quadro, a guardare il telefono. Il negozietto di souvenir che s’è riempito di cappelli di Babbo Natale e lucine intermittenti. Il suono delle campane, dalla Basilica, la sera del ventiquattro dicembre. La pioggia sugli addobbi delle strade. Sono talmente invisibile che mi lasceranno qui tutto l’anno.

n.3

Anche quest’anno mi hanno messo nell’angolo del salotto. Accanto alla foto del padrone di casa, deceduto trent’anni fa, e il cero acceso sul centrino. Ma quest’anno è diverso. Questa volta, anche la padrona di casa è andata via. Morta in ospedale il primo giorno dell’anno. Un manipolo di ragazzotti vestiti di nero ha portato via tutto, ha fatto fuori il presepe, ricco di luci intermittenti e ceppi di legna rivestiti da carta roccia, per far posto alle sedie della camera ardente. Hanno coperto gli specchi. Hanno spento il camino. Hanno spostato, chissà dove, il grande tavolo in cristallo. Ma a nessuno è venuto in mente di portarmi via. Sono qui, in castigo in un angolo del salotto. Di fronte a me il quadro con le foto dei nipoti. In fondo posso vedere la punta della bara ricoperta da un lenzuolo bianco. Per il resto sono qui, sempre lo stesso da anni, ma questa volta spoglio, solo con un improvvido fiocco rosso in cima. Mi sento nudo, mi nascondo dietro i paltò venuti a rendere omaggio, dietro le parole a bassa voce, cerco di rendermi invisibile con il verde delle pareti. Mi sento osservato, come un attore distratto, che ha dimenticato di uscire di scena. Mi vergogno di essere qui. Una ragazzina mi ha fissato con gli occhi lucidi. Hanno pensato a tutto, tranne a me, e tra i tanti presenti, a nessuno è venuto in mente di ripormi, per i prossimi dodici mesi, o forse per sempre.

Images © Gustaf Fjæstad

Soundtrack: Fabrizio De André, Ave Maria

Le città invisibili

Le descrizioni di città visitate da Marco Polo avevano questa dote: che ci si poteva girare in mezzo col pensiero, perdercisi, fermarsi a prendere il fresco, o scappare via di corsa.

Succede spesso di andare lontano per smaltire un carico troppo ingombrante di nostalgia, come il Marco Polo di Italo Calvino. Di riuscire a realizzare quanto buio c’è tutto intorno solo aguzzando la vista sulle fioche luci lontane. Partire quasi per abitudine, per inerzia, per inseguire un desiderio che non ha forma, se non quella astratta e vaga del cambiamento, della svolta, il colore mai visto di una pagina bianca, ma non vuota.

Puntare il dito sul mappamondo e scegliere una nuova destinazione, solo per avere la possibilità di scappare via di corsa, di cambiare identità, immaginare una nuova vita, di godere del privilegio di sentirsi straniero e del caldo abbraccio del ritorno a casa.

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Viaggiando ci s’accorge che le differenze si perdono: ogni città va somigliando a tutte le città, i luoghi si scambiano forma ordine distanze, un pulviscolo informe invade i continenti.

Può succedere anche di impregnarsi di quell’abitudine di paragonare le città, di ritrovarle, una nell’altra, di riconoscerne schemi, meccanismi, patologie. Di parlare di una mentre ci si ricorda di un’altra. E a volte, all’estremo di quest’insana mania, si finisce per vivere altrove, pur continuando a ritrovarsi in un vecchio appartamento di qualche tempo fa. “Tutto è mio, niente mi appartiene, nessuna proprietà per la memoria, mio finché guardo”, scriveva Wislawa Szymborska, “Parigi dal Louvre fino all’unghia si vela d’una cateratta. Del boulevard Saint-Martin restano scalini e vanno in dissolvenza.”

Una dissolvenza che continua, fino ad avvolgere tutto l’orizzonte, fino a creare una città invisibile, dove ci si muove, ci si sposta, si cammina, in una dimensione spazio-temporale altra, sconosciuta. Risalendo la rue Saint-Eleuthère, che dalle scale della Basilica del Sacro-Cuore porta alla Place du Tertre, se ci si ricorda di guardare a sinistra, lontana, nascosta tra la bruma del mattino, si scorge la Tour Eiffel. Seguendo la rue Caulaincourt, tra un caffè e una boulangerie, si aprono affacci improvvisi sulla città di Parigi, sulle mansarde, sulle mani alzate dei comignoli, sulla distesa di tetti grigi, sulle cupole dorate in lontananza. Cosa è reale e cosa non lo è?

Non riconosco nulla, eppure niente è estraneo, ricordo a memoria i nomi delle strade, i colori delle insegne dei negozi, le canzoni dei musicisti sulla rue Norvins. Come una città invisibile, Parigi ha un altro nome e un’altra forma, deriva la sua figura dal deserto a cui si oppone, dalla risposta che ha dato, finalmente, alle mie domande, al cambiamento, giunto all’improvviso, una mattina americana come tante.

È delle città come dei sogni: tutto l’immaginabile può essere sognato ma anche il sogno più inatteso è un rebus che nasconde un desiderio oppure il suo rovescio, una paura. Le città come i sogni sono costruite di desideri e di paure.

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Parigi non ha indirizzi, non ha strade, non ha fermate della metropolitana. Oggi si compone di desideri e di paure, di entusiasmi ingiustificati, di timore, di meraviglia insignificante, di facce che rivedo per la prima volta. Mi sveglio la mattina senza l’impulso di andare via, di rincorrere quella dissolvenza, senza la voglia di sparire il più presto possibile. Sono esattamente dove dovrei essere, forse.

Come un cambio nell’armadio dei ricordi, ripongo tutto quello che è stato per fare spazio al nuovo, che è arrivato senza chiedere il permesso, senza preavviso. Metto da parte quello che ho accumulato durante anni di viaggi, di domicili incerti, di lettere che continuavano ad arrivare nella buca sbagliata. Mi guardo indietro senza capire bene dove tutto sia cominciato, “per questi porti non saprei tracciare la rotta sulla carta, né fissare la data dell’approdo”, ma riesco ad intravedere una direzione. Un disegno che inizia a formarsi, unendo i puntini, finalmente.

Alle volte mi basta uno scorcio che s’apre nel bel mezzo d’un paesaggio incongruo un affiorare di luci nella nebbia, il dialogo di due passanti che s’incontrano nel viavai, per pensare che da lì metterò assieme pezzo a pezzo la città perfetta, fatta di frammenti mescolati col resto, d’istanti separati da intervalli, di segnali che uno manda e non sa chi li raccoglie. Se ti dico che la città cui tende il mio viaggio è discontinua nello spazio e nel tempo, ora più rada ora più densa, tu non devi credere che si possa smettere di cercarla. Forse mentre noi parliamo sta affiorando sparsa entro i confini del tuo impero.

Images © Thomas Campi

Soundtrack: Cat Power, No Sense

Quotes: Italo Calvino, Le città invisibili